Spunti di riflessione dal romanzo di Adriano Petta e Antonino Colavito, Ipazia, scienziata alessandrina. 8 marzo 415 d.C., Lampi di Stampa, Milano, 2004, pp. 290, € 15,00

di Serenella Bischi

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Nella sua introduzione al Libro di Ipazia, scritto alla fine degli anni ’70, Mario Luzi, illustrando al lettore la strana genesi e le motivazioni del dramma, si interroga sulla potenza dei nomi:

Nomi numinosi, che lasciano passare una quantità di vita che oltrepassa le persone che li incarnano e li fecero ricordare”, “nomi-mantra che emettono messaggi ed avvisi, nomi nei quali è compresa una forza di significazione che attende il suo momento per manifestarsi (..). Dietro di essi si aprono gorghi di incandescenza o di vuoto e la mente viaggia in un universo dai confini incerti bordeggiando un arcipelago brulicante di grumi che non si sa più se sono relitti di esperienze perdute o embrioni di esperienze da fare (…) Quasi a conferma che la focalità non è in un episodio, sia pure molto forte, ma, come dire?, in una sorgente che sintonizzata continua a emettere pulsazioni.

L’impressione primaria, forte, che scaturisce dall’impatto in primo luogo con l’argomento stesso Ipazia, in secondo luogo con il testo di Adriano Petta e Antonino Colavito, è esattamente quella dell’incontro con una di queste “condensazioni di esperienza”, una di quelle fonti di emissione continua che maggiormente sono in grado di dirci qualcosa di determinante su noi stessi e sulla nostra storia.
Sebbene il punto di vista da cui gli autori affrontano la figura e l’episodio di Ipazia sia molto distante da quello del dramma di Luzi, uno dei risultati analoghi a cui ci porta la lettura del libro è proprio il contatto con una di quelle sorgenti, contatto che annulla ogni illusoria barriera spazio-temporale. Ipazia percorre i capitoli di questo libro dall’Alessandria del 400 d.C. ad oggi, senza soluzione di continuità.
La visione di Luzi è una visione tragica e ampia, in cui la vicenda è osservata, si direbbe, dall’altezza delle sedi dello Spirito e delle ragioni, troppo spesso crudeli e incomprensibili, della storia. Il libro di Petta e Colavito è un compagno di viaggio che parla dalla dimensione del nostro presente di costruttori della storia, che parla delle nostre passioni, delle nostre lotte e delle nostre speranze, del nostro orrore e della nostra legittima incapacità di comprendere. E’ un libro di “parte”, così indispensabile alla restituzione della giustizia e al superamento delle parti.
Su Ipazia diversi autori in passato hanno scritto. Tra questi, nel 1800, il poeta Leconte de Lisle, radicale avversario del cristianesimo e adepto dell’estetica parnassiana, volta al paganesimo come religione della bellezza e della sapienza, Charles Kingsley, sacerdote anglicano che la fece protagonista di una sua novella; il cattolico francese Charles Péguy, che, agli inizi del 1900, la elogia per essere «rimasta in armonia così perfetta […] sino alla morte e durante la morte […] mentre il mondo intero crollava, frantumandosi per tutta la vita temporale dell’universo e forse per l’eternità», e inoltre Chateaubriand, Voltaire, Proust, Fielding, Diderot, Leopardi, Monti, Pascal, Luzi, Calvino e altri. Ma Ipazia non è divenuta mai un personaggio noto, accessibile a tutti, familiare alla coscienza contemporanea. Non c’è da stupirsi: è stata cancellata dal palcoscenico della vita e della storia con una tale feroce e accanita determinazione, che di lei non è rimasta quasi traccia negli annali ufficiali della scienza, della filosofia, della storia tout court. Per questo, farla rivivere è ogni volta un atto di giustizia e di amore.
Si tratta quindi di un’operazione letteraria importante, che mi sentirei di definire “fuori dal coro”, e per questo ancora più importante: andare a ripescare la figura dell’antica dimenticata filosofa alessandrina e immettere sul mercato una vicenda apparentemente così poco spendibile al giorno d’oggi! Ci si potrebbe domandare a chi può interessare un’operazione del genere nell’attuale contesto editoriale e dei lettori, se non a qualche erudito storico appassionato del periodo. Eppure, leggere Ipazia è, come dicevamo, un’”esperienza di contatto”, un’esperienza che va al di là dell’interesse puramente storico: questo romanzo, che ha quasi la struttura di una scorrevole sceneggiatura cinematografica intervallata da squarci lirici – i “fatti” da un lato, l’”interiorità” dall’altro – è pervaso di concreta utopia e della passione per un’eterna attualità.
Il libro di Petta e Colavito, pur narrando uno degli episodi più infami del martirio della persona, dell’intelletto e della libertà, è in grado di offrire ad ogni lettore la visuale di due autori che non si arrendono alla storia, ai fatti come si sono svolti, ma, attraverso gli occhi innocenti e “vergini” dei protagonisti che li hanno vissuti in prima persona, rivivono gli avvenimenti con il loro stesso senso di stupore, di sgomento e di “scandalo”, con la stessa indomita passione e indistruttibile fede nel futuro. Da questo emerge, al di là dell’atroce realtà dei fatti narrati, la volontà di riallacciare quel filo che collega il passato al presente e al futuro (filo addirittura esplicitato negli intermezzi lirico-filosofici affidati alla voce di Ipazia attraverso la penna di Antonino Colavito), che attualizza tutto il senso della vicenda e la cui comprensione ha il potere di cambiare le cose. Si compie così un lavoro prezioso: quello di rimettere sul tappeto questioni che a molti osservatori “più che distratti” rischiano di apparire superate. Non lo sono affatto.
Una di queste è ciò che con termine vago si definisce “questione femminile” e che in questo caso mi sembra di poter meglio definire come “costruzione storica di un’identità di genere”: a noi donne in particolare, Ipazia parla del sistematico stupro della nostra identità perpetrato nella storia.
Ci parla della nostra rabbia (e la parola “rabbia” non basta affatto, è insufficiente a portare sulle sue spalle il peso esplosivo di questo sentimento), quella rabbia che abbiamo sempre sperimentato sulla nostra pelle per l’ingiustizia e l’idiozia di un mondo che non ha mai dato per scontata la nostra qualità di soggetti, di esseri portatori di individualità. Ci parla della nostra storia di rimozione e di adattamento per la sopravvivenza. Operazione in cui siamo state incredibilmente e “amorevolmente” sostenute e facilitate da tutte le autorevoli voci di una cultura strutturata secondo le esigenze di una visione e di un potere maschili. Tra queste voci, per l’appunto, quelle di quasi tutta la letteratura e le istituzioni religiose di ogni epoca e di ogni parte del mondo, che ci hanno sempre voluto spiegare chi siamo, cosa siamo e come dobbiamo essere. Tra queste voci, il coro assordante di ultrasuoni — e non — che ancora ci bombarda, quotidianamente, da tutto l’apparato mediatico della nostra società, nutrendoci costantemente di un’imagerie che è chiara indicazione di identità e di ruolo, al di fuori dei quali non esiste per noi individualità, non c’è esistenza (non ci sentiremmo forse perdute, senza che ci venisse quotidianamente ricordato attraverso la pubblicità, i media o i dettami di varie morali pseudo-religiose, pseudo-psicologiche, scientifiche o sociali, che siamo “tette e culo” oppure “burqua”, che siamo madri, fidanzate, “donne-manager”, mogli, prostitute, regine del focolare…e via dicendo. In fondo c’è sempre bisogno di una definizione per noi: siamo ancora e solo oggetti, le streghe da mettere in copertina o da bruciare sul rogo).
Questo libro ci parla anche, quindi, della storia del genere femminile, una storia che ha visto le donne costantemente e inammissibilmente costrette a porre sul tappeto la questione “persona”.
Sentire il peso schiacciante di questa onta, di questa ferita d’amore, di dignità e di rabbia, è gradino indispensabile per comprendere l’universo femminile. Credo che non ci sia vera entrata in quell’universo se non attraverso questa porta.
Mi pare che proprio da questo sentire sia generato Ipazia, scritto da due cuori maschili in grado di compiere il miracolo della comunicazione e di trasmetterci tutta la sincerità e la bellezza della loro limpida passione. Un cuore di artista che sente l’ urlo di dolore e di rabbia di questo universo per tutte le stragi che ha dovuto e deve subire, è “costretto” a scrivere Ipazia.
Incontrare la figura di una scienziata e filosofa del calibro di Ipazia, vissuta in Alessandria d’Egitto ben 16 secoli fa, ripercorrerne con gli stessi appassionati e attoniti occhi degli autori il luminoso cammino e la tragica fine, è in effetti, per ognuna di noi, esperienza di contatto con quel profondo vissuto di dolore e di rabbia, nonché con tutta la serie di mistificazioni che ha contribuito alla costruzione storica della nostra identità di genere.
Il più radicato e comunemente accettato degli stereotipi trasmessici da questa cultura è che noi donne, si sa, non abbiamo poi una grande capacità di raziocinio, essendo “per natura” più dotate in altri campi, essendo più che altro “cuore e sentimenti” (grande, innata, materna capacità di accoglienza…). Cultura che, specularmente, sul versante del maschio, ha privato gli uomini di una riappropriazione di identità, depredandoli, con scarse possibilità di appello, di tutte le qualità tradizionalmente definite “femminili”.
Il misconosciuto ruolo dell’universo femminile nella costruzione dell’”impianto tessile del pensiero” è ciò che la scrittrice Francesca Rigotti (nel suo saggio Il filo del pensiero) definisce “il paradosso di Arianna”:

nonostante sia una donna che mette in mano a Teseo il filo per uscire dal labirinto, alle donne è stata rifiutata per millenni la prerogativa del pensiero logico. Si è detto: le donne ragionano col cuore, con l’utero; certo non col cervello.

Per restare nel campo di Ipazia, se si pensa che di circa 450 Nobel scientifici, solamente 11 sono stati attribuiti a donne, si constata prima di tutto un dato di fatto ben noto: non sono mai state molte le donne dedite alla scienza. Ma, se andiamo ad indagare tra tutte le possibili ragioni di questo fenomeno, allora sarà il caso di non omettere, tra gli innumerevoli giudizi di questo tipo, quello estremamente emblematico di Gino Loria, studioso di storia della matematica, che meno di cent’anni fa scriveva:

Donne dotte e artiste sono prodotti di degenerazione. Soltanto in forza di variazioni patologiche la donna può acquistare qualità diverse da quelle che la rendono amante e madre. Bisogna dunque aspettarsi che nelle donne d’ingegno esistano ancora altre deviazioni (travestitismo, salute cagionevole, ecc.

e ancora:

Si direbbe che la donna, negli studi più ardui, mai cessi di essere scolara; che la larva possa bensì raggiungere lo stato di crisalide, ma le siano vietati i liberi voli della farfalla.

Anche i sacerdoti delle nostre scienze hanno voluto sempre spiegarci “chi siamo” e come dobbiamo essere “per essere davvero noi stesse”. Una cultura e un pensiero fortemente esclusivi nei confronti delle donne: ogni elemento anomalo rispetto al modello prestabilito non serve a rivedere e mettere in discussione il modello, ma a negare il soggetto che non corrisponde al modello stesso. Un procedimento molto poco scientifico!
Ad esempio, così si esprimeva il matematico tedesco Hermann Weyl (1885-1955) su due delle sue pochissime colleghe che erano riuscite a far entrare il loro nome negli annali della matematica:

Solo due donne matematiche nella storia: Sofja Kovalevskaja ed Emmy Noether: la prima non era una matematica, la seconda non era una donna“.

E, se poi andiamo ad indagare bene, vediamo che non sono state poi così poche le donne che si sono occupate di scienza, di filosofia, di matematica, di arte, in tempi in cui era obbiettivamente molto più arduo per una donna riuscire a dedicarsi a queste cose (pensiamo, ad esempio, ad Artemisia Gentileschi, anche lei per secoli snobbata dalla storia ufficiale dell’arte e riscoperta solo recentemente). Nomi, quindi, ce ne sono, e tanti, che non staremo ad elencare. Quello che ci preme osservare è quanto pesi, in termini di “pseudo-identità di genere”, questa cultura dell’esclusione, quasi entrata nel nostro DNA.
Solo en passant e senza nulla togliere, ovviamente, alla grandezza di Freud, accenneremo infine alla passività con cui è stata recepita praticamente per un secolo, dalla stessa psicoanalisi femminile, l’idea freudiana di “invidia del pene”, evidente prodotto di una psiche maschile che percepisce “centrale” la propria qualità di genere. Idea generatrice di madornali errori interpretativi e diagnostici, nonché responsabile di aver contribuito a rafforzare le “gabbie” per entrambi i sessi.
Una donna, quindi, una tra le tante, viene cancellata dal palcoscenico della vita e della storia proprio in quanto donna che non vuole stare nelle gabbie costruite per lei, ma dimostra e afferma la sua qualità di essere pensante e libero, di scienziata e di filosofa, di soggetto politico a pieno titolo. Una donna così è votata al massacro. E non solo in Alessandria d’Egitto 16 secoli fa.
Questa sistematica operazione di stupro dell’identità femminile è strettamente connessa con un altro aspetto saliente della storia umana, che definirei “principio di esclusione” o incapacità di integrazione. Anche questo aspetto ci parla dalle pagine del romanzo di Petta e Colavito, e, per chiarire cosa intendo, mi rifaccio ad un commentatore moderno di quell’Agostino che, nel romanzo, figura tra gli involontari ma non per questo meno responsabili carnefici di Ipazia:

E’ uno dei paradossi della tradizione cristiana occidentale, ed una delle sue tragedie, che l’uomo che ha affermato con tanta forza la presenza di Dio nelle profondità dell’io umano, sia responsabile, come teologo dogmatico, più di ogni altro autore cristiano, di aver ‘consacrato’ nel mondo cristiano l’idea che la schiavitù dell’uomo e la sua debolezza siano dovute alla perversione innata della natura umana a causa del peccato originale. In occidente, è la teologia di S. Agostino che ha nascosto fino ad oggi la rivelazione cristiana della filiazione divina, la rivelazione di chi è fondamentalmente l’uomo. (1)

Di che cos’altro ci parla questo, se non ancora di esclusione, di un aut aut percepito come ineludibile? O la carne o lo Spirito, o la fede o la scienza, o la donna o l’uomo, e così via….
L’attento e appassionato lettore di Ipazia sentirà inequivocabilmente che questo libro “partigiano” – il cui unico difetto è forse quello di dipingerci un po’ troppo in bianco e nero un paganesimo idilliaco e una cristianità feroce – è scritto proprio contro lo “spirito di parte” che acceca ragione ed intelletto nel tentativo di imporre verità necessariamente parziali in veste di incontestabili dogmi. Del resto, se letto con spirito di parte, il libro stesso rischierebbe di rimettere sul tappeto la questione in termini di inconciliabile conflitto tra Scienza e Religione. Quel conflitto che invece gli autori, attraverso il testimonial Ipazia, mirano a scardinare e a negare in toto.
Direi che il quadro risultante dal racconto di Petta e Colavito è proprio l’incapacità umana di cogliere la totalità attraverso i sensi, il cuore e la mente, il perpetuarsi di quella scissione che divide il mondo in “vero” e “falso”, inconciliabili opposti. Il tragico episodio del martirio dell’intelletto e della libertà di pensiero e di ricerca, situato in un tratto di storia estremamente emblematico in questo senso, è episodio significativo e drammatico di quell’ininterrotto ciclo che vede l’umanità periodicamente impegnata nell’ottusa distruzione di ciò che è stato “prima di ora”, prima che una nuova “verità” ideologica o religiosa o un nuovo assetto sociale prendessero il posto della vecchia verità o del vecchio status. In una visone in cui il concetto di integrazione, assieme a quelli di libertà e responsabilità (e, aggiungerei, di amore) sembrano non avere alcun diritto di cittadinanza.
Mi pare che, proprio nell’opera di distruzione del “vecchio” in nome del “nuovo”, l’uomo si chiuda le frontiere alla conoscenza di sé. Il meccanismo della distruzione del vecchio in nome del nuovo è in realtà un meccanismo profondamente funzionale alla conservazione e perpetuazione dell’unico vecchio filo che governa la storia dell’uomo da qualche millennio. Un filo tessuto soprattutto “grazie” alla mancanza di quella qualità che permette la visione della realtà della vita nel suo complesso, a 360 gradi.
Assistendo al massacro di Ipazia, è impossibile non pensare a tutti i roghi di donne, uomini, libri, opere d’arte, a cui abbiamo assistito nella storia, a tutti gli episodi in cui la furia distruttiva di un’umanità senza coscienza della propria identità e dei poli del proprio conflitto interiore, crede di intravedere salvezza e liberazione in un’amputazione interna: nel rinnegamento di una parte di sé (che in questo caso è anche il genere femminile in quanto tale), nella cancellazione di un passato scomodo in nome di un nuovo avvenire salvifico. Un errore compiuto a ripetizione, da una parte e dall’altra. Vengono in mente tutti gli episodi in cui la tirannia uccide il rivoluzionario credendo di uccidere la rivoluzione, e la rivoluzione uccide il sovrano credendo di uccidere la tirannia. Nella scena in cui, nel libro, la mano di Adriano Petta descrive con avvincente maestria l’assalto dei cristiani al Serapeo e l’abbattimento della statua del dio Serapide, si respira la barbarie che nel corso dei secoli si è fatta protagonista di innumerevoli simili abbattimenti. Quante “statue del dio Serapide” sono state rovesciate dai loro altari nell’insensata, idiota convinzione di iniziare un nuovo capitolo!
E non è forse una “guerra di simboli” quella a cui ancora oggi siamo costretti ad assistere, dopo secoli di una storia che avrebbe dovuto insegnarci qualcosa sugli errori compiuti? Il mio crocifisso contrapposto al tuo velo, e così via… Una guerra in cui non sono i simboli a morire, come forse dovrebbero, ma le persone. Simboli che duellano, vincitori e vinti, più preziosi della vita stessa, della persona! Simboli che perdono la loro unica vera funzione: quella di chiavi di lettura di una realtà, e acquistano invece il valore di un Assoluto. Simboli la cui valenza è divenuta potere sulle menti, un potere che il simbolo mai dovrebbe avere, in quanto esso stesso prodotto di una mente che, così come lo ha generato, dovrebbe essere in grado di utilizzarlo, indagarlo, elaborarlo e trasformarlo, una mente che mai dovrebbe essere dominata da esso. In nome di Dio o dei suoi sostituti di turno (nient’altro che “parole-simbolo”) si uccide ancora l’uomo, e con esso Dio (quello reale). E il vuoto di vita trionfa su un pianeta svalutato del suo unico valore: la vita.
Proprio il potere indagatore e creatore di un intelletto libero da catene ideologiche di sorta è l’etica su cui si imposta il grande cenacolo di menti illuminate che ruota intorno alla figura carismatica di Ipazia. Pare proprio che la passione e l’amore con cui gli autori ci accompagnano lungo tutto il filo del racconto, attingano a quella stessa “sorgente di emissione continua” di cui parlava Luzi, concretizzatasi nell’esperienza Ipazia.

1) Philip Sherrard,The Rape of Man and Nature [La violazione dell’uomo e della natura], Golgonooza Press, Londra