THE FOG

di Danilo Arona

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Nell’estate del ’95, quando il termine “Padania” non aveva ancora assunto nel collettivo immaginario italico la sua ben nota valenza politica, accadde che il regista Pupi Avati, invitato al Mystfest di Cattolica, designasse un particolare spezzone della sua filmografia come un concreto, funzionale esempio di “gotico padano”. Pupi, ovviamente, faceva riferimento ad alcuni, indimenticabili titoli quali La casa dalle finestre che ridono (in primo luogo), Le strelle nel fosso e Zeder, opere che per delimitazione ambientale e un forte radicamento nella realtà contadina del nord aprivano una via originale quanto autoctona al cinema di tensione.

Chissà quanto e se consapevole, in pratica Pupi innestò dieci anni fa uno di quei tormentoni critici molto “parlati” ma pochissimo approfonditi nei documenti ufficiali, almeno per quel che ne so io. Soprattutto perché, se ancora si continua a discutere dentro e fuori gli ambiti accademici su cosa sia esattamente il gotico, figuriamoci cosa può risultarne se c’infiliamo a corollario il termine “padano”. Eppure la proposta di Pupi aveva senso. E un narratore quanto mai in tema come Eraldo Baldini lo avrebbe da lì a poco dimostrato con i suoi deliziosi racconti in chiave, appunto, “gotico rurale”. Se la cosa, però, finisse qui, altro non sarebbe che una delle tante bagattelle della critica, disancorate dalla realtà — come spesso capita per certe correnti letterarie — perché della realtà che ci circonda ne vogliono essere mimesi e interpretazione. A farla breve, il gotico padano come pura astrazione, quasi una moderna versione di un’impossibile corrente fantasy che certa politica in camicia verde sogna di riscrivere tra le leggende di fondazione.
E’ ovvio che ignoro a cosa pensasse Pupi quando ne parlò al Mystfest, anche se un sospetto ce l’ho. Però il Piemonte lo conosco bene. E, come qualcuno avrà capito, Bassavilla non è solo una città, ma è soprattutto i suoi dintorni. Allora, oltre la letteratura e la fiction, e oltre risaputi riferimenti (atmosfera, clima, clin-d’oeil), sono pressoché certo che da queste parti, e di sicuro anche dalle parti di Avati e di Baldini (in Romagna), il gotico padano è concreto quanto l’antico sudore del contadino e non si presenta come presuntuosa elucubrazione letteraria.
Mi colpì nel ’97 una frase che captai in una puntata di una mediocre trasmissione di Italia 1, Alex — Indagine su mondi segreti, che intendeva scimmiottare gli X Files di Mulder & Scully, senza mai sapere che direzione veramente prendere. Oscillando tra il reportage giornalistico e la finzione, una piacevole Romina Mondello degna di miglior cornice indagava sui misteri italiani con l’ausilio di un enigmatico compare che le si manifestava solo per via informatica e i consigli telefonici di un bizzarro professore interessato alle scienze occulte (lampanti espedienti da budget risicato). La puntata in questione presentava Alex lanciata alla ricerca di un grande tempio di Satana che doveva trovarsi proprio nei paraggi di Bassavilla. Per pura cronaca, aggiungo che il sito in questione veniva poi identificato nella rinomata centrale nucleare di Trino Vercellese, le cui conseguenze sull’ecosistema circostante sono ben più che sataniche. Ma arrivo al dunque. A un certo punto gli autori fanno dire alla Mondello, mentre passeggia per le colline del Monferrato, la seguente frase: “Queste sono terre cupe e quasi disabitate, la cui solitudine è interrotta soltanto dai resti di qualche vecchia cascina e i cui rari passanti sussurrano con terrore nomi sinistri”. E’ la fiction, direte voi. No, anche perché avevo letto qualche mese prima alcune interviste rilasciate dalla troupe mentre giravano, appunto, dalle parti di Trino, più o meno sul confine provinciale tra Vercelli e Bassavilla. Loro, metropolitani milanesi e/o romani francamente non ricordo, andandosene a zonzo per queste pianure e colline (che sempre più attraggono i tedeschi, ma il termine “Goto” indica un antico ceppo germanico…), si sentivano proiettati in qualche preambolo in stile Hammer.
Avete presente quando Jonathan Harker entra in una taverna transilvanica e chiede agli astanti del castello di Dracula? Così, e sui giornali se ne lamentavano. “Mai visto un pezzo d’Italia dove sembra di essere veramente in un film horror”. Okay, anche se ci sarebbe da aggiungere che, da queste parti, non conoscono rivali sulla presa per i fondelli del prossimo. Però, sostanzialmente, la sensazione del forestiero è verità. E ricordo che, addirittura, verso il finale, gli autori tiravano in ballo il “pensiero laterale” di Edward L. Bono che — semplificando di molto — attesta che “non tutto ciò che si vede è come ci si aspetta di vederlo”. Così il Piemonte, così Bassavilla. Di sicuro così somigliante alla Romagna: quelle nebbie, quelle storie, quella che Avati battezzò dieci anni fa come “sindrome della luce e del silenzio” (la pianura che fa paura, la follia, le antiche favole che si fondono con la cronaca).
Sto girando a vuoto? Non proprio, sto girando “a spirale”. E del resto la paura, quella almeno che c’interessa, è sempre un preambolo in levare. Ma Bassavilla — che vuol essere anche una presuntuosa sintesi di tante altre “città gemelle di provincia” sparse per lo stivale — si offre come dimostrazione tangibile che le paure della cosiddetta finzione letteraria non sono il parto fantastico di autori più o meno geniali. Paure che sono vita, ne più né meno, in grado di fecondare e nutrire l’unica corrente genuinamente realistica di cui disponiamo. Ah, Bassavilla e dintorni, naturalmente. Soprattutto i dintorni.
Ve ne fornirò degli esempi. Alcuni ve li ho già forniti, se avete letto bene fra le righe delle sette puntate precedenti (Nadia al Luna Park è un modello esemplare e terribile come lo è quel The Ring in Val Cerrina). Ne arriveranno degli altri. Forse serviranno a cambiare qualche punto di vista, di quelli accademici e scontati. Nel frattempo vi lascio con un altro frammento sul “marchio della città” teorizzato da Ben Hecht, quando scrive che le città di pianura, vicine all’acqua, spesso avvolte nella nebbia, sono incomprensibili, e il primo indizio del fatto che ti trovi in una di queste città è proprio il non capire dove ti trovi.
Qui abbiamo due fiumi, l’uno ci taglia in mezzo e l’altro ci lambisce di lato. La nebbia, a volte, entra in centro, e non vedi il palazzo di fronte. Se fa buio, alla luce occasionale dei fanali, profili e volti emergono dal nulla. Qui spesso sono le rappresentazioni mentali e le costruzioni dell’immaginario a determinare i comportamenti sociali. Qui il reale può allora configurarsi come prodotto del fantastico. Qui, e nei dintorni.