di Enzo Di Mauro

“Lemebel non ha bisogno di scrivere poesia per essere il miglior poeta della mia generazione” – Roberto Bolaño
ACF15B2.jpg8871683927.jpgQuesto Ho paura torero (traduzione di M.L. Cortaldo e G. Mainolfi, Marcos y Marcos “Gli alianti”, pp. 202, euro 13,00) del cileno Pedro Lemebel dimostra, come meglio non si potrebbe, la felice, incomparabile duttilità della scrittura romanzesca, beninteso non esclusi l’errore, la debolezza di tenuta, il ricorso ad andature corrive, l’ingenuità di fondo, l’esibito sentimentalismo. Eppure, questo cinquantenne che si guadagnò l’ammirazione e l’affetto del coetaneo Roberto Bolaño (il robusto maestro scomparso prematuramente lo scorso anno), ci consegna un efficace ordigno a orologeria fatto esplodere, a imperitura infamia, contro i generali e le loro bande di seviziatori che a lungo umiliarono vita e giovinezza di un popolo.


E, nel caso di Lemebel, poi, la conclamata, esibita diversità e la combattiva militanza nel movimento gay. L’attività di fotografo, di cineasta, di performer. Il travestitismo. Il suo romanzo è figlio di una tradizione
(soprattutto sudamericana, ma non solo) che non necessariamente sente di dovere esprimere la propria critica del presente nella maniera frontale e pugilistica del corpo a corpo. Egli pensa che si possa anche essere a tal punto esorbitanti da inventariare la tragedia sotto forma di farsa o di pochade o di satira o, insomma, nei modi della più scavezzata e dolente allegoria, cosicché il qui-e-ora (specie se criminale e abietto e totalitario) ne risulti infine annichilito, quasi cancellato ­ eppure vivo e sbalzato agli occhi del lettore.
Lo strappo oppositivo, la contrapposizione, la denuncia, lo smascheramento si esercitano piuttosto e di preferenza mediante una ascesi del grottesco come trabocchetto o come arma per dare scacco alla realtà quando essa si mostri insopportabile da smarrire ogni connotato di credibilità, di affidamento, si direbbe di pertinenza alla nicchia e al rifugio dell’umano.
Ho paura torero fa ricorso al sarcasmo, alla comicità, al donchisciottismo straccione e picaresco, alla sfrenata e provocatoria alchimia dei colori ­ sete e tele e fiori si accampano a coprire il “corpo del reato” dei
cospiratori nella povera casa della Fata ­ a creare un esplosivo corto circuito, laddove il realismo si accende svaporando verso uno sfondo fantastico e tuttavia laconico, affermativo, verticale. Di fatto, nel racconto di questa vicenda nella quale si intrecciano amore, travestitismo, emulazione da set hollywoodiano, canto e discanto popolare e, non da ultimo, vocazione sovversiva, il lettore non perde nulla in quanto ad allucinata crudezza. Il camp, in altri termini, incontra qui l’attivismo rivoluzionario.
Siamo nel 1986, l’anno del fallito attentato ad Augusto Pinochet. A Santiago. Una Santiago di “mezza tacca”, disoccupata e affamata, sporca e polverosa. La Fata ricama e aspetta, la “testa di uccellina ossigenata” china e intenta al cucito e ai sogni ­ mentre fuori dalla stanza spari e cortei, rumori di ferraglia, tamburi battuti al ritmo della rabbia e della disperazione, blindati che avanzano, camion pieni di torturatori in borghese e fumo acre di lacrimogeni segnalano il tempo dell’abominio, della violenza, della censura, del terrore. La Fata ama le canzoni più sentimentali e ascoltandole si commuove fino alle lacrime. Ha arredato la casa pensando alle dive americane, in primo luogo a Jane Mansfield perché a lei vorrebbe assomigliare. Possiede un cappello giallo, guanti a pois gialli e occhiali con la montatura seminata a brillantini. E, felice come una diva, li indosserà quando il rivoluzionario Carlos la inviterà per un picnic in campagna, all’aperto, su una collina sopra la città. O, almeno, lei così crede, mentre l’uomo conosce la vera ragione di quel sopralluogo.Come un agrimensore egli misura i passi del Dittatore, ne segue i percorsi e gli spostamenti. Lo vuole stanare e uccidere. Eccolo il mélo al servizio della giustizia proletaria.
La fantasia screanzata di Lemebel non ci risparmia i dialoghi surreali tra Pinochet e la logorroica, vanitosa, vacua consorte che vorrebbe svecchiarlo almeno nell’abbigliamento, magari cercando di convincerlo a indossare coloratissime magliette cubane. Mentre lui preferisce, nel suo parossistico “nirvana hitleriano”, ascoltare le più celebri marce militari, chiuso a pensare come frantumare i nemici che vogliono frantumarlo. La Fata di politica non sa nulla, ma è pronta a servire alla causa del macho Carlos, incontrato per caso in un emporio, la “bocca di giglio bagnato”. Lui comincia ad affidarle casse su casse ­ misteriosissime ­ e strani arnesi tubolari che lei trasforma (ignara dapprima e poi consapevole come una sposetta) in altari floreali su cui spicca il color fucsia. Sembra giunto il momento della gloria amorosa, per lei, figlia di un fascista costituzionale che non sopportava il suo passo fru fru. Lei ora “così immobile e silenziosa, così Cleopatra superba di fronte a Marco Antonio. Così Salomè coperta di veli per il Battista”. La sua casa d’angolo, nella Santiago incendiata di quei giorni, diventa il luogo cruciale di una cospirazione destinata a fallire benché di poco. Ed è lei il motore (la vestale) di questo romanzo rivoltoso e scomposto, irritato e doppiamente ferito e nutrito di strepitosa iattanza politica.
Prima,­ avverte Lemebel,­ “c’erano venti pagine scritte alla fine degli anni Ottanta, rimaste a lungo confuse tra ventagli, calze di pizzo e cosmetici che hanno macchiato di rosso la calligrafia romanzesca delle loro parole”.
Dalla dura sfera di quel presente annegato nel sangue e nel silenzio senza fine dei desaparecidos, rotto solo dall’urlo delle madri e delle mogli irriducibili, ecco che quel mucchietto di fogli dimenticati rivede la luce e prende forma e si dilata finché può, senza dimenticare ovviamente fard e rossetti e sottovesti e mutande e le salette dei cinematografi di periferia, tra merda e sperma, dove mani abili o incerte si cercano e bocche si chinano sulla patta del vicino di posto. Lemebel getta in faccia all’eterno fascismo anche questa seconda forma di cospirazione clandestina e di resistenza, a suo modo eroica. Sotto questo aspetto, vertiginosa è la scansione parallela delle ore che precedono l’attentato. Mentre Carlos se ne sta sulla collina, con i compagni, appostato e pronto a colpire l’auto del dittatore, la Fata ormai consapevole, in un miserabile caveau dell’amore a pagamento, stringe il cazzo di un ragazzino. E se l’attacco armato di Carlos manca il bersaglio, quello schizzo bianco va a segno e colpisce in pieno volto il generale assassino. Ho paura torero immortala, nel segno del camp più svergognato e selvaggio, la figura di una rediviva Didone en travesti.
Come una salamandra, la Fata attraversa due fuochi, quello della passione impossibile e quello della dittatura. Ne esce certo ammaccata, benché incolume. Ma “ogni aristocratico vero possiede, in sommo grado, il senso dell’economia che è quanto dire della praticità”: queste parole antiche di Giacomo Debenedetti (in Profeti) bene si adattano a descrivere chi ha dato prova di “grande speditezza e snellezza e disinvoltura”, chi insomma si è impegnato in “cose necessarie”. “Raramente ­ annotava il grande critico ­voi vedrete un aristocratico che si mette a fare l’utopista…”.

da Alias, supplemento de il manifesto