ARTE E REALTA’

di Goffredo Fofi (da Film TV del 9-15 gennaio 2005)

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Anno nuovo vita nuova? Mah! Le previsioni non sbagliano mai quando annunciano morti e feriti, disgrazie e terremoti, distruzioni e guerre. Non facciamo dunque gli ipocriti, e guardiamo in faccia la realtà che, nel piccolo del cinema, annuncia le solite menate, con qualche rara o rarissima eccezione. Tra le novità e le conferme, la più fastidiosa per me è venuta, non a caso, dalla giungla cibernetica hollywoodiana. Mater et Magjstra ben più di Santa Romana Chiesa, l’assuefazione alle scene di violenza nei film, sugli schermi televisivi e, purtroppo, anche nella realtà. Tutto si tiene, e tra una cosa e l’altra c’è un rapporto molto stretto: c’è chi dice che il cinema e la Tv non fanno che “rispecchiare” la vita, e c’è chi dice che la vita non fa che imitare il cinema e la televisione? Diamo pur ragione a entrambe le correnti di pensiero, ché il risultato non cambia.

Tanti anni fa mi arrabbiavo contro il cinema horror italiano (quello statunitense mi pareva avesse più ragioni dalla sua, il nostro era più gratuito) e trattavo da “macellai” molti registi che sguazzavano nel succo di pomodoro e in succulenti pasti di carne bovina fatta passare per umana, ma quelli erano scherzi rispetto al cinema di questo presente, dove i macellai si sono fatti ipertecnologici e più che imitare la vita (cioè, correggiamo, la morte) la inventano, insaziabili come vampiri. E naturalmente trovano-e-formano masse di addicts, da loro opportunamente avviati a queste delizie.
In questo macabro gioco di rimandi tra cinema e realtà – che nella televisione si fanno tutt’uno, lo spettacolo e il vero – non ho tenuto nel dovuto conto della voga della violenza nella letteratura. Cosa distingue il noir e il poliziesco di oggi da quelli di ieri? Credo proprio la scalata della violenza, servita in cento modi ma che sempre violenza resta, e si fa “agghiacciante”, “grandiosa”, “stupefacente”, “rivelatrice”, “ironica”, “grottesca”, “rabelaisiana” negli scrittori più amati. Quasi sempre più arbitraria. Penso al più hard (esasperato fino al comico, abilmente manovrato) degli scrittori Usa, il (non a caso) texano Joe R. Lansdale, figlio diretto di Mickey Spillane, meccanico e prevedibile quanto astuto, e penso a un suo prefatore recente, che è peraltro uno scrittore assai più bravo e “autentico” dell’americano, il nostro Valerio Evangelisti (vedi L’anno dell’uragano, edito da Fanucci; gli altri romanzi del texano compaiono in Stile Libero Einaudi mentre Evangelisti lo pubblica Mondadori). Non riesco a seguire Evangelisti sulla strada, che negli ultimi romanzi ha accentuato, dello scialo magniloquente delle scene di violenza (che in lui, va riconosciuto, non sono a scapito dell’intelligenza anche se il rischio lo si va avvertendo). E non trovo così godibile l’impasto prevedibile, scontato, che ci offre Lansdale condito per di più di un turpiloquio da far figurare i nostri Monnezza e Pierino e Boldi e De Sica come angelici chierichetti. Lansdale mi sembra una parodia costruita in un laboratorio robotizzato, e certo fa meno paura di Schwarzenegger, ma di qui a farlo passare come ribaltatore di convenzioni, disvelatore di turpitudini e addirittura “uomo di sinistra” ce ne corre. E se fosse che la sinistra la si può ancora distinguere dalla destra proprio nel rapporto con la violenza, il suo uso, i suoi feticci, le sue rappresentazioni? Diventare “come loro” è, ne sono convinto, la fine del “noi”, di qualsiasi pretesa di diversità e di qualsiasi legittimità alternativa. Dalla critica della violenza al gusto della violenza ce ne corre, in cinema, come in letteratura. Il gusto accomuna.