di Randall Shelden e William B. Brown
[da http://www.zmag.org]

jailapart.jpgI detenuti moderni occupano, e hanno sempre occupato, i gradini più
bassi della scala sociale. Il sistema carcerario moderno (comprese le carceri
locali) è un insieme di ghetti e di ospizi, riservati soprattutto ai
non specializzati, agli ignoranti e agli incapaci. In misura crescente questo
sistema è riservato alle minoranze razziali, soprattutto ai neri, motivo
per cui lo chiamiamo la nuova apartheid americana. Questo è lo stesso
segmento di società americana, che ha fatto l’esperienza di una
delle più drastiche riduzioni di reddito e che è stato bersagliato
per il suo coinvolgimento nella droga e la conseguente violenza, che viene dalla
mancanza di mezzi legittimi per il conseguimento dello scopo.

Un motivo potrebbe essere il fatto che nella società americana i neri,
specialmente i maschi, sono inutili e valgono assai poco (cioè non contribuiscono
direttamente ai profitti delle grandi aziende).

Con il ridimensionamento aziendale e la deindustrializzazione degli ultimi
due decenni è venuta l’eliminazione di milioni di posti di lavoro,
che prima aiutavano le minoranza a tenersi fuori dalla miseria. Per controllare
le frustrazioni umane conseguenti alla diminuzione delle opportunità
di lavoro, si sono ritenuti necessari specifici apparati di controllo sociale.
Il sistema della giustizia criminale è stato scelto come il principale
apparato per applicare i meccanismi di controllo sociale sui non specializzati,
sugli ignoranti, sugli incapaci e sulle minoranze etniche.

Mentre la segregazione residenziale continua senza diminuire, a essa si vengono
affiancando in maniera crescente politiche, che puzzano di apartheid. È
evidente che il sistema di giustizia criminale è stato impegnato in un
attacco sistematico ai neri e che andare in carcere o prigione è diventato
un evento normale nella vita di milioni di persone appartenenti alle minoranze
razziali. Il moderno sistema penale produce la “nuova apartheid americana”.

Lo riaffermano i dati più recenti sulle incarcerazioni. Alla fine del
2002 i neri costituivano il 45,1% del totale della popolazione carceraria (con
un tasso di carcerazione più di sette volte più alto di quello
dei bianchi), i latinoamericani costituivano il 18% e i bianchi solo il 34%.
In altre parole, le minoranze razziali ammontano ai due terzi della popolazione
carceraria. Ciò in diretto contrasto con quanto avveniva negli anni 1930,
quando i bianchi erano la stragrande maggioranza dei carcerati, costituendo
circa il 70% della popolazione carceraria.

Anche nelle percentuali di incarcerazioni inferiori a un anno sono evidenti
le differenze razziali. Negli ultimi due decenni, di conseguenza, i neri si
trovano in una percentuale di carcerazione almeno cinque volte superiore a quella
dei bianchi. Nel 2002 la percentuale di carcerazione per i neri era di 740,
contro solo 147 per i bianchi e 256 per i latinoamericani.

Dai dati relativi agli arresti e al carcere è ovvio che i gruppi, che
sono maggiormente presi di mira dal sistema della giustizia criminale, provengono
in maniera sproporzionata dalle popolazioni più marginalizzate. Sono
particolarmente vulnerabili i neri, soprattutto maschi. Per esempio, secondo
il Sentencing Project di Washington, DC, circa un terzo del totale dei neri
maschi fra i 20 e i 29 anni erano, in un giorno qualsiasi del 1995, o arrestati,
o in prigione, o in libertà vigilata o in libertà sulla parola,
una percentuale superiore al 25% del 1990. In alcune città queste percentuali
erano persino più alte, come a Washington, D.C., dove la quota era del
60%. Per fare un confronto, i dati dei primi anni 1990 hanno rivelato che i
maschi neri era di gran lunga più probabile fossero in prigione o arrestati,
che al college! Nei primi anni 1990, in California, i neri incarcerati erano
1.951 su 100.000, contro 215 bianchi. (Per questa fascia di età non sono
disponibili dati più recenti, ma andate a vedere nella seconda parte
di questo saggio la discussione sulle possibilità di andare in prigione
nel corso della vita).

Studi recenti hanno ulteriormente approfondito l’impatto negativo delle
politiche di controllo criminale sulla popolazione nera. Ad esempio, uno studio
del sociologo Bruce Western e di altri suoi colleghi ha esaminato la relazione
fra l’incarcerazione (arresto o prigione), l’educazione e l’occupazione.
Fra il 1980 e il 1999, la percentuale di maschi bianchi dai 18 ai 65 anni, finiti
in prigione o arrestati, è aumentata di meno dell’1% (dallo 0.4%
all’1%); per i neri la percentuale è salita del 4,4% (dal 3,1 al
7,5%). Per i giovani maschi adulti (dai 22 ai 30 anni), la percentuale, di arrestati
o in prigione, è salita dello 0,9% per i bianchi (dallo 0,7% all’1,7%);
ma per i neri è aumentata del 6,2% (dal 5,5% all’11,7%). Se si
considera la percentuale dei giovani maschi adulti, che si sono ritirati dalla
scuola superiore, la percentuale che finisce arrestata o in prigione, è
passata dal 3,15 al 10,3% per i bianchi (+7,2%), ma fra i neri è salita
dal 14% al 41,2% (un aumento del 27,2 %). In altre parole, più di quattro
giovani neri su dieci, ritiratisi dalla scuola superiore, è finita agli
arresti o in prigione. (Molteplici sono le ragioni, ma una è che molti
giovani neri e latinoamericani vengono immessi nel sistema della giustizia giovanile
per mezzo della detenzione in età precoce. Vedere la terza parte del
saggio).

Inoltre, fra gli uomini nati fra il 1965 e il 1969, il 22,3% di tutti i neri,
e solo il 3,2% di tutti i bianchi, è finito almeno una volta in prigione
dal 1999. Fra quanti si sono ritirati dalla scuola superiore, queste percentuali
salgono rispettivamente al 12,3% e al 32,1%. Fra quanti hanno conseguito un
diploma di scuola superiore o hanno superato il test GED (General Educational
Development: test dello sviluppo educativo generale), solo il 4,3% dei bianchi
e il 23,5% dei neri è finito in prigione. Per quelli che hanno almeno
frequentato il college, queste percentuali sostanzialmente crollano: solo l’1,1%
dei maschi bianchi e l’8,6% dei maschi neri sono finiti almeno una volta
in prigione dal 1999. Mentre l’istruzione ha un’incidenza evidente,
le differenze fra neri e bianchi rimangono elevate.

Lo stesso studio ha rivelato che nella definizione delle numero ufficiale dei
disoccupati il governo omette di includervi i carcerati (curiosamente, il dipartimento
per il censimento aggiunge i carcerati a molte piccole città in tutto
il paese e lo stato di povertà di questi carcerati viene sommato al tasso
complessivo di povertà per queste stesse città, col risultato
di autorizzare un finanziamento federale aggiuntivo). Lo studio di Western ha
messo a confronto anche la situazione occupazionale per quelli che sono stati
e per quelli che non sono stati in prigione. Non è sorprendente che,
quando comprendono la popolazione incarcerata, i numeri cambino drammaticamente
per i maschi neri. Per esempio, nel 1999, un terzo della popolazione maschia
nera era disoccupato (contro il 16% dei bianchi maschi). Fra quanti, nella fascia
fra i 22 e i 30 anni, si sono ritirati dalla scuola superiore questa percentuale
cambia drammaticamente: un sorprendente 70% dei maschi neri erano disoccupati
(compresi quelli arrestati o in prigione), contro il 27% dei maschi bianchi.

Avere una fedina penale sporca, specialmente se si è stati in prigione,
è sempre stata una barriera per cercare di reinserirsi nella società.
Negli ultimi anni è diventato ancor peggio, a causa delle molte leggi,
passate nell’ultimo decennio, che finiscono, fra gli altri impatti negativi,
col negare l’abitazione pubblica, i vantaggi del welfare e la possibilità
di ricevere istruzione. Queste leggi colpiscono, secondo stime recenti, milioni
di persone; circa 13 milioni di Americani o scontano una pena o sono stati riconosciuti
colpevoli in passato. Inoltre, un totale di circa 47 milioni (un quarto della
popolazione adulta) ha una segnalazione criminale di qualche tipo archiviata
presso un’agenzia federale o statale di giustizia criminale.

Il criminologo Jeremy Travis paragona ciò a una forma di “esilio
interno”, l’equivalente nazionale di quei condannati esiliati nelle
colonie americane (e anche in Australia) nel XVII e XVIII secolo. Comunque,
in questi due casi, una volta che avevano scontato la sentenza, avevano pochi
ostacoli a partecipare alla vita delle colonie. Questa è diventata oggi,
per adoperare le parole di Travis, una forma di “esclusione sociale”.
Tale esclusione ha aumentato ancor più la distanza fra “loro”
e “noi” e, inoltre, Travis nota che:

“La principale nuova forma di esclusione sociale è stata di rifiutare
ai criminali i benefici del welfare. E il principale nuovo protagonista in questo
dramma è stato il Congresso degli stati Uniti. In epoca di riforma del
welfare, quando il Congresso smantellava il diritto dei poveri, vecchio di sessant’anni,
a una rete di sicurezza, i poveri con dei passati criminali venivano ritenuti
meno meritevoli degli altri … si è esitato poco ad usare gli aiuti
federali per aumentare le pene o i fondi federali per incoraggiare gli stati
a nuove sanzioni criminali”.

Ad avvertire la violenza maggiore di questa esclusione sono gli ex criminali
delle minoranze razziali. Un altro criminologo, Todd Clear, ha rilevato che
in molti quartieri urbani poverissimi almeno un quarto dei residenti maschi
adulti, nel corso dell’anno, o è in prigione o arrestato.

Una parte dei metodi di controllo della sovrappopolazione consiste nella legislazione,
che definisce che cos’è un “reato” e, inoltre, attraverso
la struttura delle sentenze, definisce quali siano i reati “gravi”.
Molte strutture di sentenze hanno un pregiudizio di classe e razziale innato.
Questo è il caso in particolare delle leggi sulla droga, che hanno sempre,
storicamente, preso di mira le droghe usate dalle minoranze e dai poveri.

La nuova apartheid americana.

L’apartheid è una politica che produce la segregazione o la discriminazione
razziale sistematica ed è solitamente associata al Sud Africa di prima
di Mandela. La parola apartheid è stata introdotta nel mondo nel 1948
dal Sud Africa. Questo termine deriva dall’olandese “aapart”
(che in italiano si traduce “a parte”) e “heid” (che
corrisponde al suffisso italiano “ità”). Il termine fu adottato
per attenuare l’immagine delle dure politiche di segregazione razziale
praticate dal governo sudafricano. L’attenzione del mondo era puntata
sulle pratiche di segregazione razziale del Sud Africa e si pensò che
sostituendo alla parola segregazione la parola apartheid, l’attenzione
del mondo sarebbe stata distolta dalle sue pratiche discriminatorie. Subito
dopo l’adozione del nuovo termine, il mondo si rese conto che, in realtà,
nulla era cambiato relativamente al trattamento dei neri in Sud Africa.

Sembra che sia il modello delle contraddizioni degli Stati Uniti, relativamente
a quella che si sostiene sia la linea politica e a quanto è effettivamente
sostenuto dal governo USA. L’America è stato sempre un paese, che
sostiene di tenere in gran conto i bambini. Tuttavia, nel 1989, gli Stati Uniti
si rifiutarono di sostenere la Risoluzione $$/”% dell’Assemblea
Generale [dell’ONU], che era il prodotto della Convenzione per i Diritti
del Bambino. Questa risoluzione era a favore dell’adozione dei diritti
fondamentali dei bambini, come il diritto alla vita. Ad ulteriore prova del
fatto che gli Stati uniti tendono a differenziare fra atteggiamento pubblico
e voto effettivo a livello globale, gli Stati Uniti proclamano di essere a favore
del perseguimento dei criminali internazionali. Eppure l’America si è
rifiutata di ratificare il recente tentativo delle Nazioni Unite di creare un
Tribunale Criminale Internazionale. Di fatto, prima di votare, gli USA hanno
richiesto un voto non verbalizzato sulla questione dell’adozione dello
Statuto che istituisce la Corte Criminale Internazionale. Parlando più
nello specifico di apartheid, nel 1973, la Convenzione Internazionale per l’Eliminazione
e la Condanna del Reato di Apartheid, discusse la questione dell’apartheid
come reato contro l’umanità e, quindi, stabilì che l’apartheid
dovesse essere trattata come un crimine contro l’umanità, un reato
internazionale. Ad oggi, gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato questa
risoluzione.

L’apartheid americana è viva e vegeta, giacché la segregazione
razziale rimane una caratteristica comune praticamente di ogni città
americana. Le principali città ospitano oggi l’80% della popolazione
urbana non bianca e un terzo della popolazione urbana nera risiede nelle dieci
più grandi città del paese. Ci sono stati tentativi simbolici
di ridurre la segregazione razziale nelle città americane. Usiamo il
termine “simbolici”, perché questi tentativi spesso o sono
stati politicamente strumentalizzati o deviati per servire gli interessi dell’elite,
oppure perché questi tentativi sono stati grossolanamente finanziati
in maniera inadeguate, per assicurarsi il loro fallimento.

Ad esempio, gli Housing Acts (leggi sulla casa) del 1949, del 1954 e del 1965
prescrivevano il finanziamento federale alle autorità locali per l’acquisto
di case nei quartieri poveri e l’inizio del risanamento delle case acquistate.
Perché i finanziamenti federali fossero autorizzati, i governi locali
dovevano assicurare che alle famiglie trasferite dalle zone di risanamento fosse
fornita una sistemazione abitativa decente. Il procedimento utilizzato era comunemente
conosciuto come rinnovamento urbano e talvolta voleva dire “sgombero dei
negri”. La soluzione è stata l’edilizia pubblica ad alta
densità. Oggi questi progetti di edilizia pubblica spesso sono considerati
come “progetti”. La bonifica delle aree nei quartieri poveri e la
costruzione di edilizia pubblica spesso si sono risolte in una riduzione generale
degli alloggi. In uno studio sulle ganga giovanili di Detroit, è stato
sottolineato che per quella città fra il 1980 e il 1987 c’è
stata una perdita netta di 31.000 appartamenti. Oggi, molti meri si ritrovano
nuovamente coinvolti in un programma di “rimozione di negri”: ma,
invece che essere trasferiti da un’area povera interna alla città
in un’area povera a più alta densità, si vedono allontanati
del tutto dall’interno delle città e rinchiusi nell’industria
americana delle prigioni.

La maggior parte delle differenze sopra elencate, e anche la drammatica crescita
nell’insieme delle percentuali di incarcerazione, possono essere spiegate
con la “guerra alla droga”, che è stata intensificata a metà
degli anni 1980, proprio nel momento in cui la popolazione delle prigioni ha
iniziato la sua rapida crescita. La seconda parte esamina questo argomento.

Razza e guerra alla droga

C’è ora un piccolo dubbio sul fatto che ci sia una stretta relazione
fra la “guerra alle droghe” (e alle “gangs”) e la crescita
del complesso industriale carcerario. Questa “guerra” è stata
dichiarata ufficialmente dal presidente Reagan a metà degli anni 1980,
quando promise che la polizia avrebbe aggredito il problema della droga “più
ferocemente che mai”. Quello che non disse, comunque, era che l’applicazione
delle nuove leggi sulla droga “si sarebbero concentrate quasi esclusivamente
contro i piccoli spacciatori dei quartieri abitati dalle minoranze”. A
dire il vero, la polizia scopriva questi spacciatori in queste aree, soprattutto
perché quello era il posto dove li cercava, piuttosto che, ad esempio,
nei campus universitari. I risultati furono immediati: le percentuali di arresti
di neri accusati di reati di droga ebbero un’impennata drammatica alla
fine degli anni 1990 e, poi, negli anni 1990. In effetti, mentre i neri costituiscono
solo circa il 12% della popolazione USA e circa il 13% di tutti i consumatori
abituali di droga (e la loro percentuale di uso illegale di droga è grosso
modo lo stesso di quello dei bianchi), rappresentano il 35% degli arrestati
per possesso di droga e il 74% dei condannati al carcere per reati collegati
alla droga.

La prova della sproporzione razziale nella guerra alla droga è chiarissima.
Per esempio, le percentuali di arresti per le minoranze è passato dai
600 su 100.000 nel 1980 a oltre i 1.500 nel 1990, mentre per i bianchi sono
rimaste essenzialmente le stesse. Gli studi dei singoli stati rivelano quanto
siano aumentate le condanne al carcere. Per esempio, nel North Carolina fra
il 1980 e il 1990 le percentuali di incarceramento in prigione per i non bianchi
è balzato da circa 500 su 100.000 a quasi 1.000, mentre in Pennsylvania
i condannati per reati di droga fra maschi e femmine sono aumentati rispettivamente
del 1613% e del 1750%; in Virginia la percentuale di carcerazioni per reati
di droga per le minoranze è passato da poco meno del 40% nel 1985 a circa
il 65% nel 1989, mentre per i bianchi la percentuale è scesa da poco
meno del 60% nel 1983 a circa il 30% nel 1989.

Ampiamente documentato da numerose fonti, c’è stato un drammatico
incremento nel numero assoluto e nella percentuale dei neri, che sono stati
incarcerati nelle prigioni americane. Si stima che le condanne per droga incidano
per quasi la meta quasi la metà (il 47,5%) sulla crescita totale, fra
il 1995 e il 2000, dell’incarcerazione nel sistema federale. Una stima
recente valuta che i condannati per droga abbiano costituto quasi la metà
dell’incremento dei carcerati nelle prigioni di stato, nel corso degli
anni 1980 e dei primi anni 1990. Secondo gli ultimi dati delle prigioni federali
(fine 2002), i condannati per droga ammontano al 55% del totale.

Può darsi che questo sia principalmente un risultato delle “conseguenze
indesiderate” della guerra contro la droga, attualmente in corso nella
società americana. D’altro canto, poiché la guerra alla
droga va avanti almeno dall’inizio degli anni 1980, siamo preoccupati
che la ragione dell’aumento del numero di neri incarcerati sia ben più
sinistra, piuttosto che semplicemente il risultato del fallimento della guerra
alla droga e di discutibili leggi razziste (ad esempio quella sul crack e la
cocaina in polvere). È plausibile sostenere che la “guerra alle
droghe” (e la “guerra alle gangs”) hanno davvero avuto “successo”,
se il loro scopo era il controllo della sovrappopolazione, soprattutto nera.
Noi suggeriamo che questo evidente violento attacco possa effettivamente essere
attribuito a pratiche di segregazione istituzionale e di apartheid. La “guerra
alla droga” ha cominciato ad avere i suoi effetti sulla popolazione arrestata
e incarcerata a partire dalla fine degli anni 1980 e l’inizio degli anni
1990.

I dati sulle detenzioni nelle prigioni di stato, nel corso degli anni 1980
e all’inizio degli anni 1990, mostrano chiaramente i drammatici cambiamenti
dovuti a reati di droga. Fra il 1980 e il 1992 le condanne per reati di droga
sono aumentate di più del 1000%. Al contrario, c’è stato
un più modesto incremento del 51% di reati violenti. La razza, in questi
incrementi, ha giocato un ruolo chiave, specialmente alla fine degli anni 1980
e all’inizio degli anni 1990, quando il numero dei neri condannati al
carcere per reati di droga è aumentato di più del 90%, almeno
tre volte di più dei condannati bianchi. Fra il 1985 e il 1995 il numero
dei carcerati neri, che erano stati condannati per reati di droga, è
aumentato del 700%.

Non solo i neri condannati per reati di droga sono di più, ma la durezza
delle loro condanne è cresciuta rispetto a quella delle condanne dei
bianchi. Nel 1992 nel sistema federale, la condanna media per i condannati per
droga neri era di circa 107 mesi, a fronte dei 74 mesi per i condannati per
droga bianchi. Se si confrontano le condanne per cocaina in polvere e crack,
nel sistema federale c’è una forte discrepanza. Nel 1995, per esempio,
i neri hanno costituito uno straordinario 88% dei condannati per crack, a fronte
del 30% dei condannati per cocaina in polvere.

Nel sistema federale, le condanne per reati di droga nell’ultimo mezzo
secolo rivelano cambiamenti sorprendenti. Fra il 1945 e il 1995, la proporzione
di tutti quelli, che sono finiti in prigione per un reato qualsiasi, è
salita dal 47% al 69%, contro una diminuzione di quelli, cui è stata
concessa la condizionale (dal 40% al 24%), mentre la media delle condanne è
aumentata del 300%. I cambiamenti nelle condanne per la violazione delle leggi
sulla droga sono i più drammatici. Mentre nel 1945 la percentuale dei
colpevoli di reati di droga, che finiva in prigione, era abbastanza alta, al
73%, dal 1995 a finire in prigione era non meno del 90%! E la media delle condanne
per casi di droga è passata dai soli 22 mesi nel 1945 ad almeno i 90
mesi nel 1995, un aumento del 300%! Infine, mentre nel 1980 il reato più
grave, per gli incarcerati nelle prigioni federali, era nel 13% dei casi un
crimine violento e in appena un quarto dei casi un reato di droga, dal 1992
in quasi la metà dei casi (il 48,8%) il reato più grave è
legato alla droga, a confronto di quelli legati a crimini violenti con l’8%
dei casi. Nel frattempo, la media massima di condanna per reati violenti è
diminuita (dai 125 agli 88 mesi) e per i reati di droga è aumentata (da
47 a 82 mesi).

I dati più recenti mostrano che, nel 2002, più della metà
(il 55%) dei carcerati nelle prigioni federali sconta pene per reati di droga,
a fronte di un 16% nel 1970 (un aumento del 244% fra il 1970 e il 2002) e di
un 25% del 1980; di tutti i maschi neri incarcerati nelle prigioni federali
il 60% è dentro per reati di droga, contro un 51% dei maschi bianchi;
attualmente i neri costituiscono il 46% di tutti i condannati per droga nel
sistema carcerario federale. È interessante notare che la proporzione
che la proporzione relativa alle donne bianche e nere, condannate per droga,
è all’incirca la stessa: il 67% delle donne bianche e il 65% delle
donne nere sono dentro per droga.

Per quanto datata, una delle fonti più recenti di dati su casi giudiziari
viene da un rapporto del Dipartimento di giustizia, che ha preso in esame gli
imputati delle 75 contee più grandi nel 1994. Qui possiamo vedere gli
effetti della “guerra alle droghe” e del suo impatto sul sistema
giudiziario nazionale; possiamo anche vedere chiaramente gli effetti razziali.
L’accusa più seria in poco più di un terzo (34,6%) dei casi
è stata un reato di droga, seguita da vicino da reati contro la proprietà
(31,1%), con circa un quarto (25,7%) per reati violenti, prevalentemente aggressioni
(che costituiscono il 45% dei reati violenti). Nel corso dell’anno fiscale
2001, nelle Corti Distrettuali USA ci sono stati 24.299 condannati per reati
di droga. La droga più comune –e non è una sorpresa- è
stata la marijuana (un terzo di tutti i casi). I bianchi erano solo il 26%,
mentre i latinoamericani sono arrivati al 43% e i neri erano il 31%.

Non sorprende che la razza abbia pesato fortemente nei casi esaminati dallo
studio del 1994. I neri costituivano più della metà (56%) di tutti
gli imputati e il 62% degli imputati accusati di reati di droga. Un altro studio
ha rivelato che quasi tutti (il 99%) degli imputati di traffico di droga fra
il 1985 e il 1987 erano neri. In alcune città, la percentuale di imputati
di reato neri era particolarmente alta. Per esempio i neri costituivano il 93%
di tutti gli imputati nella Contea di Wayne (Detroit), il 90% a Baltimora e
l’85% nella Contea di Cook (Chicago) e nella Contea di Kings (Seattle).

Un normale esempio dei pregiudizi razziali nelle leggi sulla droga è
il “crack”. La pena per il possesso e/o la vendita di cocaina sotto
forma di “crack” è di gran lunga superiore di quella per
la varietà di cocaina in polvere. Accade proprio che il crack venga associato
verosimilmente con i neri. Nessuna meraviglia che l’imposizione delle
leggi sulla droga sia stato la principale ragione dell’aumento della popolazione
carceraria negli ultimi anni. nell’anno fiscale 2001, di tutti i condannati
per crack, detenuti nelle prigioni federali, l’83% era di neri, contro
solo il 7% di bianchi e il 9% di latinoamericani. Per la cocaina in polvere,
le discordanze non sono affatto così drastiche: metà dei condannati
per questa droga erano latinoamericani, mentre solo il 31% erano neri e il 18%
bianchi. Mettetela come volete: di tutti i neri condannati nelle prigioni federali
per droga, il 59% è stato condannato per crack; per questa droga è
stato condannato solo il 5,5% di bianchi.

Andare in prigione diventa la norma per neri e latinoamericani.

Per la maggior parte dei giovani delle minoranze, che crescono nelle aree urbane,
c’è l’assunto generale che prima o poi finiranno o arrestati
o in prigione. Dopo tutti, moltissimi di loro vedono, quasi tutti i giorni,
i membri delle loro famiglie, amici e parenti, avvicinati dalla polizia, ammanettati
e messi nel carcere locale. Le cifre, che seguono, rafforzano, soprattutto fra
i giovani neri, questa percezione. Nel 1999 erano in prigione il 9,4% di tutti
i maschi neri fra i 25 e i 29 anni, contro solo il 3,1% dei maschi latinoamericani
e appena l’1,0% dei maschi bianchi. Ma la cosa più importante,
comunque, è che finire in prigione o in carcere sembra essere diventata
la caratteristica normale della vita di neri e latinoamericani.

Un metodo per misurare l’ampiezza dell’incarcerazione delle minoranze
razziali è dare uno sguardo alla percentuale della popolazione adulta
incarcerata almeno una volta nella vita. Secondo uno studio del Dipartimento
di Giustizia, nel 1970 meno dell’1% di tutti i bianchi aveva fatto l’esperienza
di un carcere federale o statale, contro il 4,5% dei neri e l’1,3% dei
latinoamericani. Circa dieci anni dopo (nel 1986) i bianchi che andavano in
prigione erano ancora meno dell’1%, ma i neri erano più del 5%
e i latinoamericani il 2%. Nel 29001, secondo la stima disponibile più
recente, i bianchi avevano ancora una bassa percentuale di persone finite in
prigione (1,4%) ma vi erta finito quasi il 9% dei neri e il 4% di latinoamericani.

Ancor più rivelatrici sono le statistiche relative alle possibilità
di finire in prigione nel corso della propria esistenza. Secondo uno studio
del Dipartimento di Giustizia, i neri nati nel 1974 avevano una percentuale
del 7% di finire prima o poi in prigione nel corso della propria esistenza,
contro l’1,2% della totalità dei bianchi. Per i maschi bianchi
nati nel 1974 la possibilità di finire in prigione era di solo il 2,2%,
ma era del 13,4% per i maschi neri e del 4% per i maschi ispanici. Diciassette
anni dopo, con la guerra alla droga in vigore, queste percentuali sono cambiate
in modo drammatico: per la totalità dei neri nati nel 1991 c’era
una possibilità di finire in prigione del 16,5%, a fronte di una del
2,5% dei bianchi; tuttavia le possibilità di finire in prigione per i
maschi neri erano più che raddoppiate, salendo al 29%, con una crescita
più modesta per i maschi bianchi, saliti al 4,4% (tecnicamente la percentuale
dei maschi bianchi era raddoppiata, ma la percentuale iniziale era così
bassa, da renderla insignificante rispetto a quella dei maschi neri). Forse
il cambiamento più drammatico, e passati largamente inosservati sulla
stampa e negli ambienti dei criminologi, era dato dal fatto che le possibilità
di finire in prigione per i maschi latinoamericani era quadruplicata, passando
dal 4% al 16,3%. Nel 2001, un bambino maschio nero nato in quell’anno
aveva quasi una possibilità su tre di finire in prigione, contro appena
meno del 6% per un bambino maschio bianco e un 17,2% di possibilità per
un bambino maschio latinoamericano.

Il fatto, che negli ultimi anni tanti neri siano stati mandati in prigione,
ha un impatto significativo sui loro diritti elettorali. Uno studio recente
ha rivelato che a fronte di un 2% di adulti, privati del diritto di voto perché
colpevoli di reato (per lo più per droga), ne è stato privato
il 13% di tutti i neri uomini! In sei stati la percentuale di uomini neri privati
del diritto di voto è del 25% o superiore, raggiungendo il livello più
alto in Alabama e Florida (e noi tutti sappiamo cosa è successo in Florida
nel 2000). [Probabile allusione al depennamento di neri dalle liste elettorali
che ha consentito a Bush di essere eletto. Nota del traduttore]

Non abbiamo bisogno di approfondire ulteriormente ciò, che risulta ovvio,
dato che rimane il fatto che la “guerra al crimine” prende di mira
in maniera del tutto sproporzionata le minoranze razziali, che si ritrovano
in misura allarmante sempre più dietro le sbarre e sono abitualmente
soggetti all’azione di controllo del sistema della giustizia criminale.
Probabilmente questa situazione non è destinata a migliorare, specialmente
fino a quando i governi federali, statali e locali continueranno a incrementare
il denaro, usato per l’industria della custodia criminale, invece che
per la prevenzione. Aumentando la nostra attenzione al crimine, diminuisce l’attenzione
data alle cause che sono alla base del crimine, col solo risultato di aggravare
ulteriormente il problema.

Comunque la si consideri, finire in prigione è diventata, per le minoranze
razziali, un’esperienza molto comune. E queste cifre non comprendono la
possibilità che hanno di essere arrestati e finire in carcere o in un
centro di detenzione, nel caso di un minore. Nella terza parte di questo saggio
esamineremo due esempi della nuova apartheid americana: l’incarceramento
dei giovani e delle donne delle minoranze.

L’incarceramento dei minorenni delle minoranze

All’interno del sistema della giustizia minorile si ritrova un numero
sempre maggiore di giovani afro-americani. Hanno più probabilità
dei loro coetanei bianchi di essere detenuti, di dover affrontare un processo,
di essere messi da parte per il sistema giudiziario adulto e di essere istituzionalizzati.
Come sottolineato da molti studi, i giovani neri hanno più possibilità
dei giovani bianchi di essere detenuti, indipendentemente dal reato addebitato.

In effetti, secondo i dati ufficiali del 2001, i giovani neri e latinoamericani
hanno più probabilità dei bianchi di essere arrestati, non importa
quanto grave sia il reato per cui gli accade di esserlo. Per i neri la percentuale
d’arresto per tutti i reati è quasi cinque volte superiore a quella
dei bianchi e il doppio di quella dei latinoamericani. Per i crimini contro
la persona , la percentuale di arreso dei neri è più di cinque
volte superiore a quella dei bianchi, mentre quella dei latinoamericani è
superiore del 2,5%. Ma la differenza maggiore è per gli imputati di reati
di droga: i giovani neri hanno una possibilità di essere arrestati sette
volte maggiore dei loro coetanei bianchi. Non può essere negata l’importanza
di essere arrestati, dato che studi hanno dimostrato che, chi è arrestato,
ha molte più probabilità di vedersi comminare la pena finale più
pesante. Questo ultimo punto è ulteriormente confermato dalle percentuali
di incarcerazione delle prigioni giovanili (dati del 2001).

Esaminando le percentuali di arresto, scopriamo che le differenze razziali
sono simili ai tassi di incarcerazione. Scopriamo che:

La percentuale complessiva dei giovani neri è quattro volte superiore
a quella dei bianchi; i latinoamericani sono una volta e mezzo i bianchi;

Anche considerando i reati, queste percentuali rimangono in ogni caso superiori
per i giovani neri, con i latinoamericani al secondo posto;

Nel caso di reati di droga, le probabilità per i giovani neri di essere
incarcerati è sei volte superiore a quella dei bianchi e i latinoamericani
hanno il doppio di probabilità dei bianchi di essere incarcerati.

La graduatoria delle percentuali di arresto o di incarceramento –primi
i neri, secondi i latinoamericani e i bianchi ultimi per ogni tipo di reato-
ci ricorda una frase, sentita ripetutamente al tempo del movimento per i diritti
civili: “Se sei bianco, sei a posto; se sei scuro, non allontanarti; se
sei nero, sta dietro”.

È comprovato come evidente che i centri di detenzione e gli istituti
“di correzione” per giovani sono diventati parte della “nuova
apartheid americana”. Quello, che si dovrebbe sottolineare in particolare,
sono le differenze di percentuale per i reati di droga. Parte di queste debbono
essere spiegate attraverso l’esame di chi viene preso di mira per l’arresto
nella guerra alle droghe. Chiaramente, come per i corrispettivi adulti, i giovani
neri sono quelli ad essere presi più pesantemente di mira. Uno sguardo
comparativo lo conferma. Mentre nel 1972 i giovani bianchi avevano una percentuale
di arresti per droga più alta di quella dei neri, dall’inizio degli
anni 1980 (approssimativamente all’inizio della “guerra alle droghe”)
la differenza si era rovesciata. Nel 1995 il cambiamento era incredibile: la
percentuale di arresti per i giovani neri era quasi tre volte superiore di quella
dei bianchi. Nel periodo 1972-1995 c’è stato un aumento di arresti
di giovani neri con imputazioni di droga di più del 400%.

Come ha dimostrato la ricerca di Jerome Miller (pubblicata nel suo libro “Search
and Destroy”, Cerca e distruggi), i giovani maschi neri hanno subito l’attacco
delle iniziative dell’autorità giudiziaria di “trattare più
severamente le droghe”. Nota che a Baltimora, per esempio, gli afroamericani
sono stati arrestati in una percentuale sei volte superiore a quella dei bianchi
e che più del 90% è stato arrestato per possesso.

Nello studio su Baltimora Miller ha scoperto che nel 1981 erano stati arrestati
per reati di droga solo 15 giovani bianchi, contro 86 neri; nel 1991, tuttavia,
il numero dei bianchi arrestati scendeva a solo 13, mentre il numero dei neri
saliva vertiginosamente a uno strabiliante 1.304, cioè un aumento del
1.416%! Il rapporto fra giovani neri e bianchi passava da 6 a 1 a 100 a 1.

Un altro studio ha scoperto che “i giovani neri sono molto più
spesso accusati di reato, quando [la] trasgressione potrebbe essere considerata
un’infrazione”. Inoltre, questi casi, attribuiti al tribunale “si
ritiene debbano essere perseguiti formalmente più frequentemente, se
vi sono implicati giovani neri”. Quando contro i bianchi son presi provvedimenti,
tali “provvedimenti” sono molto spesso “sedute di gruppo a
casa o trattamenti per droga, mentre per le minoranze nere sono strutture residenziali
pubbliche, comprese quelle statali che prescrivono il più stretto confinamento”.
Un altro studio ha dimostrato il sostanziale aumento dei giovani delle minoranze
deferiti ai tribunali minorili, quindi l’aumento della possibilità
di essere incarcerati. Ma, tuttavia , gli arresti, i ricorsi e i provvedimenti
nei confronti delle minoranze sono molti di più, di quanto ci si dovrebbe
aspettare sulla base dell’aumento delle trasgressioni di riferimento.
C’è stato un aumento del trattamento formale dei casi di droga,
che si è trasformata in uno svantaggio per le minoranze. Questo studio
concludeva che: “Dato il carattere attivo della normativa sulla droga,
questi risultati hanno posto domande fondamentali su quali siano gli obiettivi
delle indagini e hanno destato apprensione a proposito della recente guerra
alle droghe”. Come rilevato in uno studio sul giro di vite sulle droghe
in Georgia, la percentuale di arresti più alta di neri è stata
attribuita a un singolo fattore: “è più facile compiere
eseguire arresti per droga nei quartieri a basso reddito. In Georgia molti arresti
per droga riguardano spacciatori e acquirenti di basso livello e avvengono in
zone abitate da minoranze a basso reddito. In questi quartieri la vendita al
minuto di droga avviene frequentemente nelle strade e fra spacciatori e compratori
che non si conoscono. Molti di questi spacciatori sono neri. Al contrario, gli
spacciatori di droga bianchi tendono a vendere al coperto, nei bar, nei clubs
e nelle case private, e a compratori più ricchi, anch’essi principalmente
bianchi”.

Una recente pubblicazione dell’Ufficio per la Giustizia e per la Prevenzione
della Delinquenza Giovanile, intitolato “Minori in Case di Correzione”
ha reso noto che nel 1999 si stimava che, in tutto il paese, le minoranze fossero
il 65% di quelli destinati agli istituti correzionali privati per giovani e
il 55% di quelli destinati agli istituti correzionali pubblici. Per traffico
di droga, i giovani neri nelle case correzionali venivano stimati il 65%, a
fronte del solo 18% dei latinoamericani e al 16% dei bianchi. Le percentuali
di incarceramento sono state fornite per singolo stato e c’erano grandi
differenze. Per l’insieme degli Stati Uniti la percentuale di incarceramento
per i giovani neri era di 1.004 su 100.000, a fronte di una percentuale di 212
per i bianchi e di 485 per i latinoamericani. In altre parole i giovani neri
erano tenuti in custodia (in strutture di detenzione o in istituzioni correzionali)
in percentuale cinque volte superiore a quella dei bianchi e più che
doppia di quella dei latinoamericani. Le percentuali di detenzione per i neri
vanno da un massimo di 2.908 su 100.000 in South Dakota a un minimo di 87 nelle
Hawaii.

Una cosa, che spesso è sfuggita alla discussione di queste tendenze,
è l’impatto che queste politiche “acchiappa banditi”
e la “guerra alle droghe” hanno avuto sulle donne. Il prossimo paragrafo
passerà in rassegna alcune preoccupanti tendenze all’incarcerazione
di donne.

La crescente incarcerazione di donne nere

Nell’analisi del caso delle donne non ci si può lasciar sfuggire
una cosa: il crimine e la giustizia criminale cono in correlazione reciproca
con la classe e la razza. In realtà,la grande maggioranza delle criminali,
soprattutto di quelle che finiscono in prigione, provengono dai ceti più
bassi e appartengono alle minoranze razziali.

Un esempio specifico del ruolo della classe e della razza è presentato
da uno studio molto dettagliato su un campione di donne ritenute colpevoli in
una struttura giudiziaria di New Haven, nel Connecticut. Da un campione più
ampio di 397 casi, questo studio ha approfondito un campione minore di 40 uomini
e 40 donne, che sono state condannate al carcere (cioè, che sono passate
attraverso tutte le fasi del processo di giustizia criminale). Delle quaranta
donne, ventiquattro (il 60%) erano nere, cinque (il 12%) erano portoricane e
le rimanenti (il 28%) erano bianche. Metà delle donne erano cresciute
in famiglie con un solo genitore, e solo due delle donne erano descritte come
cresciute in “famiglie della middle class”. Molte di queste donne
sono state descritte come cresciute in famiglie, “le cui condizioni economiche
erano precarie”, mentre in quasi i due terzi dei casi i loro padri biologici
erano “tagliati fuori” dalla loro crescita, Solo un terzo aveva
completato la scuola superiore o aveva ottenuto l’equivalente del GED
(General Educational Diploma: Diploma d’Istruzione Generale) Due terzi
“avevano un curriculum lavoro precario o non retribuito” e più
dell’80%, al momento del loro ultimo arresto, erano disoccupate.

Gli esempi più drammatici della mancanza di cavalleria nei confronti
delle donne nere e appartenenti alle minoranze provengono dall’esame della
tipologia di donna, che finisce in prigione. E questo, negli ultimi anni, è
stato il risultato della “guerra alle droghe”. Come abbiamo già
sottolineato, c’è una stretta relazione fra razza e uso illecito
di droga, benché neri e latinoamericani abbiano di gran lunga le probabilità
maggiori di finire arrestati e di essere messi in prigione. Per le donne, vengono
prescelte, in generale, le povere e., in particolare, le nere.

Mentre le donne costituiscono circa il 20% di tutti gli arrestati e solo circa
il 6% di quelli in prigione, le cifre assolute e le percentuali della loro incarcerazione
negli ultimi vent’anni sono cresciuti drammaticamente. Infatti il 31 dicembre
2002 nelle prigioni federali e statali c’erano 97.491 donne (contro solamente
le 8.850 del 1976), che costituivano il 6,8% di tutti i detenuti, contro il
3,6% del 1976. Queste ultime cifre rappresentano un incredibile aumento numerico
di circa l’800% e la loro proporzione fra tutti i detenuti, nell’ultimo
quarto di secolo, è aumentata di più del 75%. Inoltre la percentuale
di donne detenute è passata da 8 su 100.000 nel 1975 a 60 su 100.000
nel 2002, con un aumento del 650%.

Ma c’è di peggio: un’ampia percentuale di donne condannate
al carcere per violazione della libertà provvisoria non hanno commesso
alcun reato, ma vi sono piuttosto tornate per non aver passato il test delle
urine. Inoltre la proporzione delle donne condannate detenute nelle prigioni
federali è bruscamente cresciuta a causa dei reati di droga. Nel 1989,
nelle prigioni federali per droga era detenuto il 44,5% delle donne. Questa
cifra in appena due anni è salita al 68%. (Più di un terzo delle
donne detenute per reati di droga sono state condannate per possesso di stupefacenti)
Circa vent’anni fa quasi due terzi delle donne condannate, per reati di
droga dai tribunali federali, usufruivano della sospensione condizionale della
pena. Nel 1991 erano solo il 28%. Inoltre, la media della carcerazione per le
donne condannate per reati di droga è passata dai 27 mesi del 1984 ai
67 mesi del 1990.

In generale, la percentuale di donne detenute per crimini di droga è
passata dal 12% del 1986 al 32,8% nel 1991. Di fatto, l’aumento percentuale
delle donne condannate per droga è stato molto più alto di quello
degli uomini condannati per lo stesso tipo di reato. Ad esempio, fra il 1987
e il 1989 nello stato di New York il numero delle donne condannate per droga
è aumentato del 211%, a fronte di un aumento dell’82% per gli uomini.
In Florida, negli anni 1980 gli ingressi in carcere per droghe aumentò
di un enorme 1.825%; ma per donne condannate questo aumento fu di uno stupefacente
3.103%!

Gran parte dell’aumento delle donne detenute deriva dall’impatto
delle leggi a condanna vincolante, approvate nel corso dell’inasprimento
contro il crimine. In conformità con molte di queste leggi sono concesse
raramente le circostanze attenuanti (come, avere figli, avere nessuna o poche
condanne, avere reati non violenti). Una recente inchiesta ha scoperto che più
della metà (51%) delle donne nelle prigioni statali erano alla prima
condanna o ne avevano avuto precedentemente una sola, contro un 39% dei detenuti
maschi.

Quindi i recenti tentativi della società di usare il pugno di ferro
nei confronti del crimine ha avuto un impatto molto negativo sulle donne condannate,
dal momento che sempre più imboccano la strada che le porta nel sistema
carcerario nazionale. È un dato di fatto che, soprattutto per la guerra
alle droghe, negli ultimi anni è drammaticamente cresciuto il numero
delle nuove prigioni per donne. Mentre fra il 1940 e la fine degli anni 1960sono
state costruite solo 12 nuove carceri, negli anni 1970 ne sono state costruite
in tutto 17 e negli anni 1980 (ultimi dati disponibili) sono state costruite
34 nuove prigioni.

Questi aumenti non corrispondono agli aumenti della criminalità femminile,
misurata dagli arresti, a meno che non consideriamo l’impatto della “guerra
alle droghe” prestando maggiore attenzione alla violenza domestica. In
questo periodo c’è stato un cambiamento molto rilevante della risposta
del sistema di giustizia criminale sia all’uso della droga da parte delle
donne (come per chiunque) sia alla violenza domestica. In quest’ultimo
caso tale accresciuta attenzione alla violenza domestica ha determinato un aumento
degli arresti di donne per aggressione aggravata e “aggressione d’altro
tipo”.

La parte finale di questo saggio sarà dedicata all’esame dell’impatto,
sulle famiglie e sulle comunità, dell’alto tasso di detenzione
delle minoranze razziali.

L’impatto sulle famiglie e le comunità nere.
Sebbene sia difficile che emergano dati precisi, dalla discussione delle prime
tre parti di questo saggio possiamo facilmente inferire che gli sviluppi recenti
hanno avuto un impatto negativo sulle comunità nere in generale e sulle
famiglie in particolare. I centro città americani sono stati colpiti
molto negativamente da questi cambiamenti. Il movimento di capitali fuori dai
centro città ("fuga di capitali") è corrisposto al fenomeno
della "fuga dei bianchi" e all’esodo del ceto medio delle minoranze,
con la diminuzione della base fiscale e la concentrazione crescente dei poveri
in queste aree. C’è stato anche contemporaneamente una diminuzione
del finanziamento federale per programmi sociali, in particolar modo di quello
destinato alle classi sociali urbane più povere. Questo è avvenuto,
per lo più, negli anni 1980 con l’inizio di un processo di "privatizzazione",
un sistema mirato a sostituire l’assistenza federale con i metodi di soluzione
dei problemi urbani, tipici del settore privato. Fra i programmi specifici a
essere danneggiati sono stati l’aiuto ai distretti scolastici disagiati,
l’assistenza residenziale, l’aiuto finanziario ai poveri, l’assistenza
legale ai poveri e, in generale, i servizi sociali nelle aree urbane.
C’è stato un deciso declino delle possibilità di lavoro,
in maniera particolare per le minoranze. Molte attività sono slittate
nelle periferie, così come molti servizi di base e anche la base tributaria.
Di solito era normale che molti giovani appartenenti alle minoranze riuscissero
a trovare lavori non specializzati o semi-specializzati. Oggi questi lavori
stanno scomparendo e vengono rimpiazzati o da lavori a bassa retribuzione nei
servizi o da lavori ad alta retribuzione, che richiedono specializzazioni e
istruzione avanzate. Negli anni 1960 e nei primi anni 1960, i giovani dei centro
città erano presi di mira per l’arruolamento militare. Questo era
visto da molti come un mezzo per sfuggire a un’esistenza fatta di povertà.
Oggi, i giovani dei centro città è molto probabile che abbiano
un curriculum criminale, che ne proibisce l’uscita dalla povertà
attraverso le forze armate.
Uno sviluppo assolutamente relativo è stato descritto come femminilizzazione
della povertà. Questo è dovuto all’aumento delle famiglie
con a capo una donna, che hanno maggior probabilità di vivere in povertà.
Ciò è vero, in maniera particolare, per le donne nere, dal momento
che -secondo il censimento del 2000, il 48% di tutte le famiglie nere aveva
a capo le donne (contro il 43% del 1990) e il 40% di queste famiglie vivono
sotto il livello di povertà, il 14% in più delle corrispondenti
bianche. Dai primi anni 1990 la percentuale generale dei minori di 18 anni,
che vive sotto il livello ufficiale di povertà, è calata. Perciò,
secondo l’Istituto per la Giustizia Giovanile e la Prevenzione della Delinquenza,
mentre nel 1992 viveva in povertà il 46,6% dei bambini neri (contro il
17,8% di bambini bianchi e il 40% di bambini latinoamericani), nel 2000 la percentuale
era scesa al 31% (13% per i bambini bianche e 28% per i bambini latinoamericani).
Tuttavia, le percentuali dei neri e dei latinoamericani sono più che
doppie di quelle dei bianchi. Secondo studi recenti, i confronti internazionali
mostrano gli Stati Uniti al primo posto dei paesi industrializzati in termini
di percentuale generale di povertà infantile. Alcuni singoli stati hanno
percentuali di povertà infantile eccessivamente alte, con quello di New
York in testa col 26,3%, seguito dalla California col 25,7%.
Il Centro Giuridico Nazionale delle Donne ha recentemente reso noto che: "Mentre
la percentuale delle famiglie che vivono in povertà dal 1997 al 1998
sia diminuito e sia ora al suo livello più basso dal 1978, quasi 4 famiglie
su 10, con a capo una donna, vivono ancora in povertà". Ha ulteriormente
osservato che nel 1998, delle famiglie con bambini con a capo una donna nera,
il 47,5% vivevano in povertà, mentre le corrispondenti famiglie latinoamericane
per metà erano sotto il livello di povertà.
Un recente studio del Centro Nazionale per i Bambini in Povertà ha rivelato
che: "Negli Stati Uniti più di un terzo dei bambini vive in famiglie
a basso reddito, cioè i loro genitori guadagnano fino al doppio di quello,
che viene considerato il livello di povertà di questo paese. Il livello
federale di povertà per una famiglia di quattro persone (nel 2004) è
di 18.850 dollari". Lo studio ha rivelato anche che:
• Il 16% dei bambini americani – più di 11 milioni – nel 2002 viveva
in famiglie povere, cioè il reddito dei loro genitori arrivava al massimo
al livello federale di povertà. Questi genitori sono normalmente incapaci
a provvedere alle necessità fondamentali delle loro famiglie, come a
un alloggio stabile e una sicura assistenza pediatrica.
• Il 37% dei bambini americani -più di 26 milioni- nel 2002 viveva
in famiglie a basso reddito. I loro genitori hanno guadagnato meno del doppio
del livello federale di povertà. Queste famiglie spesso si trovano ad
affrontare difficoltà materiali e pressioni finanziarie simili a quelle
delle famiglie, che sono classificate ufficialmente povere.
• Dopo un decennio di diminuzione, la percentuale di bambini che vivono
in famiglie a basso reddito è di nuovo in crescita, una tendenza iniziata
nel 2000.
Per quanto riguarda la razza il Centro Nazionale per i Bambini in Povertà
ha rivelato che: "Mentre il gruppo più consistente di bambini di
famiglie a basso reddito è bianco, bambini neri e latinoamericani hanno
di gran lunga maggiori probabilità di vivere in famiglie a basso reddito
e si prevede la loro crescita fra i bambini a basso reddito". (Il "basso
reddito" è definito, in questo rapporto, come il doppio del livello
federale di povertà, cioè 37.700 dollari per una famiglia di quattro
persone). Inoltre, nel 2002, il 58% di tutti i bambini neri (+4% rispetto al
2001) e il 62% dei bambini latinoamericani (+1% rispetto al 2001), a fronte
di solo il 25% dei bambini bianchi, viveva in famiglie a basso reddito (-2%
rispetto al 2001). [Si consulti il sito: www.nccp.org]
Secondo uno studio condotto dal Centro sulle Priorità Politiche e di
bilancio, fra il 1995 e il 1997 il reddito del 20% più povero delle famiglie
con a capo una donna con bambini è diminuito in media di 580 dollari
per famiglia. Anche includendo i vari "benefici" (ad esempio i buoni
cibo, i sussidi per la casa, il credito fiscale per i redditi da lavoro), queste
famiglie hanno redditi al di sotto dei tre quarti della soglia "ufficiale"
di povertà (che, come è stato sottolineato da molti critici, è
datato e necessita di revisione). Degli studi hanno anche rivelato che le madri
single sotto assistenza trovano raramente impieghi a tempo pieno, permanenti
e ben retribuiti. Mentre la recente legislazione assistenziale si è concentrata
sul rafforzamento del sussidio all’infanzia, il pagamento del sussidio
all’infanzia costituisce una piccola parte del costo totale per l’educazione
di un bambino.
Lo studio ha rivelato anche che circa il 39% delle famiglie condotte da una
donna con bambini vivevano in stato di povertà. Il rapporto faceva, inoltre,
notare che nel 2001 i poveri erano 1,3 milioni in più del 2000. 32,9
milioni contro 31,6 milioni. Il numero delle famiglie povere è salito
dai 6,4 milioni del 2000 (cioè l’9,7% di tutte le famiglie, la
percentuale più bassa mai registrata) a 6,8 milioni (cioè il 9,2%)
Per i bianchi la percentuale di povertà è salita dal 7,4% nel
2000 al 7,8% nel 2001, ma la povertà "è rimasta a livelli
storicamente bassi per i neri (22,7%) e per i latinoamericani (21,4%)"
Fra questi gruppi, hanno visto una crescita del numero dei poveri solamente
i bianchi (di 905.000 per un totale di 15,3 milioni) e i latinoamericani (di
250.000 per un totale di 8 milioni).
È significativo il peggioramento della condizione sociale ed economica
dei neri, soprattutto se si fa riferimento ai giovani maschi neri, che un autore
ha definito una "specie in via d’estinzione". L’impatto
su una città particolare, Louisville, è stato descritto da due
criminologi, che hanno rilevato che le classi sociali più povere in questa
città sono "composte in larga parte dalle minoranze, che sono sempre
più ai margini dell’economia cittadina. I quartieri abitati dalle
classi sociali più povere sono caratterizzati da alti tassi di criminalità,
di instabilità istituzionale e di famiglie impoverite con a capo una
donna. La nuova povertà urbana di Louisville è aggravata dalle
pesanti dislocazioni dei settori manifatturieri e industriali dell’economia
regionale". Il tasso di disoccupazione fra i neri di Louisville è
cresciuto dal 6,9% del 1970 a più del 20% della fine degli anni 1980.
Inoltre, mentre nel 1970 i nati da donne nere al di fuori del matrimonio erano
il 40%, nel 1988 la loro percentuale era del 70%.
Non molto difficile addossare la responsabilità della devastazione delle
povere comunità nere al sistema di giustizia criminale e a coloro, che
ne delineano le politiche. Un recente studio di uno dei coautori di questo saggio,
William Brown, sottolinea questo punto. Brown ha intervistato alcune famiglie
di elementi appartenenti alle gang di Detroit, per individuare non solo alcuni
degli effetti della partecipazione alla vita delle gang, ma anche la ricaduta
sulle famiglie, quando un appartenente a una gang finisce in prigione. Tutte
queste famiglie sono nere, la maggior parte povere (anche composte di poveri
senza lavoro).
Secondo lo studio di Brown le famiglie non godono di alcun lusso "materiale".
Un padre di quattro figli, che porta su di sé le ferite del rifiuto e
dell’umiliazione, ha detto:
"Non abbiamo molto, ma forse siamo più fortunati di qualcuno, penso.
Ho lavorato per otto anni alla Chrysler, ma mi hanno sbattuto fuori quattro
anni fa. Non ci hanno più riassunto. Ho provato a cercare un altro lavoro
come quello, ma non l’ho trovato. Non ce n’è proprio nessuno.
Ora io sono buono a lavorare, penso".
Tenendo sua moglie per mano (lei lavora in una lavanderia al minimo salariale)
ha alzato gli occhi e ha detto: "Io e questa vecchia donna siamo ormai
consumati". Sua moglie nel tentativo di illustrare l’argomento e dare ispirazione
al marito, ha detto: "Quando costruiranno il nuovo stadio [lo stadio di
baseball dei Tigers di Detroit], allora si potrà fare qualche soldo".
"Ma va’ – ha replicato lui – assumeranno proprio noi negri per i lavori
da fare! non stare a contare che il nuovo stadio ci sia di qualche aiuto!"
Il padre di un altro appartenente a una gang ha due lavori a tempo pieno al
minimo salariale. Sua moglie lavora a part time. Hanno tre figli. "Ho provato
a trovarmi un lavoro a tempo pieno," ha detto lei, "ma qui intorno
non ce ne sono. Abbiamo solo un’automobile e la prende lui (il marito), perché
il suo secondo lavoro è molto lontano dal luogo del primo".
Una madre di quattro figli, il cui marito ha abbandonato lei e i bambini diversi
anni fa, vive in un appartamento di due camere con riscaldamento insufficiente.
Durante una visita Brown ha sentito dei colpi d’arma da fuoco molto vicini e
ha subito guardato alla finestra. Naturalmente abituata a quel rumore lei non
si mosse mai. Cominciarono a parlare sull’argomento della "speranza".
Questa donna rivelò:
"Ero solita pensare tutto il tempo al futuro; era prima che mio marito
perdesse il lavoro. Cominciò a bere alla grande, visto che non riuscì
a trovare alcun lavoro. Poi, un giorno, ha preso e ha lasciato me e questi bambini.
Talvolta ero solita pensare che avrei avuto una casa e avrei tirato su un giardino.
Mi piacciono i pomodori freschi. Volevo che i miei bambini avessero quello che
io non ho mai avuto: una casa loro e una buona istruzione. Beh, ora questo tempo
è finito. Non penso molto a quello che non hanno, perché la preoccupazione
maggiore è soltanto dare loro da mangiare e avere un posto da dormire
per loro. Benché ce la facciamo, non è per nulla facile. Chiedo
ogni giorno aiuto a Dio. Credo che mi ascolti, perché abbiamo ancora
un tetto sulla nostra testa e qualcosa da mangiare".
C’è, quindi, un senso di rassegnazione e la sensazione che la sua vita
potrebbe essere peggiore. Alla domanda del perché non avesse mai abbandonato
il quartiere, rispose:
"Dove vuole che vada a vivere? Non ho altro posto in cui vivere. Non ho
alcuna specializzazione per prendere un lavoro, almeno uno per pagare i conti.
L’unico vero lavoro, che abbia mai avuto una volta, era di lavorare in centro,
ma il centro ora non c’è più: Conosce qualcuno che aiuterebbe
una vecchia nera ignorante con quattro figli? Sono sicura di no. Vivo qua, perché
è tutto quello che c’è".
Dieci appartenenti a gang vivono in famiglie in cui la principale fonte di reddito
proviene dal nonno. In otto di questi casi, la maggior parte del reddito familiare
viene dalla sicurezza sociale e/o da pensioni molto modeste. I vecchi non vengono
assistiti dai loro figli, ma, al contrario, molti nonni si trovano in una condizione
in cui devono tirare su una seconda famiglia. Una vecchia donna, che aveva abitato
per più di 40 anni nello stesso quartiere, divide la sua casa con due
vani letto con la nuora, tre nipoti e "Boot", il felino della famiglia.
Degli stracci sono ficcati intorno alle cornici delle finestre a tappare le
aperture, che fanno salire "alle stelle" la bolletta del riscaldamento.
Lo scalino che conduce alla porta d’ingresso è rotto. Lei si appoggia
a una sedia piena di roba, che un tempo apparteneva a suo marito, morto più
di dieci anni fa, e si è messa a parlare dei suoi "ragazzi",
che sono entrambi in prigione.
"Entrambi i miei ragazzi sono in prigione e la moglie e i bambini di Bobby
stanno qui con me, perché non possono vivere da nessun’altra parte. Cosa
faranno? Io non posso lavorare più, perché ho una gamba malconcia,
e poi, chi assumerebbe comunque una vecchia nera? Io prendo il mio assegno [della
sicurezza sociale]. Kathy prende qualche soldo dallo stato; sicuramente non
molto. Non può lavorare, perché ha da prendersi cura di questi
bambini. Io l’aiuto ad accudirli, ma sono vecchia e non posso farlo solamente
io. Poi non c’è nessun lavoro qui intorno e noi non abbiamo l’automobile.
Facciamo quello che possiamo. Non so cosa ci accadrà. Engler [il governatore
del Michigan al tempo dell’intervista] dice che taglierà ulteriormente
l’assistenza. Se lo fa, non so cosa ci accadrà.

Fonte: tradotto e pubblicato on line da http://www.zmag.org/Italy/