di Federica Vicino

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Io odio la Ribellione. La odio tanto quanto il Sistema; tanto quanto odierei qualsiasi regime, tanto quanto odio la guerra.
Dovrei attaccare così. E i ragazzi (mi pare di vederli!) sgranerebbero tanto d’occhi. Qualcuno direbbe che mi sono bevuto il cervello. Finalmente. Mi degraderebbero. Mi metterebbero a riposo forzato.
Non serve a niente… loro, lì, pronti, schierati, disposti a dare la vita; io sul mio merdoso podio, che armo gli animi e infondo coraggio. Alla malora! Non serve a niente. Questo direi. Non c’è nulla di abbastanza prezioso su questa terra da meritare il sacrificio di una sola vita. Fossanche la vita di un cane. Questo direi. Nessuno dovrebbe mai dare la vita. Nessuno dovrebbe mai morire.


Mi sento così ogni volta che parte una squadra; ogni volta che coordino una missione. I ragazzi fanno richieste su richieste: per stare con me, almeno una volta in missione con me. Per combattere con il Capitano. Così mi chiamano: il Capitano. La gerarchia non è militare, da noi. Si diventa “capitani” per elezione. E lo stesso vale per le cariche a seguire: “capo”, e la più prestigiosa, la più ambita: “capo ideologico”. Non aspiro a tanto. Mi considerano un leader in forza del mio eroico passato. Quello che ho fatto, le cose che mi sono capitate… La Ribellione è parte di me. Io sono la Ribellione.
Eppure la odio.
Questi sono i pensieri che mi affollano la mente, prima di un’azione.
Guerriglia urbana non violenta — la chiamano. Io dico quel che realmente è. Carneficina.
Loro sono tanti, feroci, bene equipaggiati, addestrati, inquadrati. Noi pochi, eccetera… li guardo, i miei ragazzi. E inizio a snocciolare le direttive. Parlo come un automa. Dove si va; cosa si occupa; cosa si fa quando la Polizia carica; in che direzione si scappa; dov’è il punto del rendez vous. Mi auguro che stavolta non si arrivi oltre i lacrimogeni. Mi auguro che i militari del Sistema non abbiano ricevuto l’ordine di evacuare e basta, evacuare ad ogni costo, sgombrare il campo, e in fretta, riportare tutto alla normalità, mettere a tacere la protesta, togliere di mezzo i manifestanti. Le idee rischiano di trasformarsi così nella mia testa in un bollettino di guerra. Per loro, militari, sarebbe nient’altro che normale amministrazione. Combattono per la pulizia ideologica. A modo nostro, anche noi. Lo leggo sui volti dei miei ragazzi: bravi ragazzi, pronti a tutto, anche ad andare al macello. Morire — si legge nei loro occhi vitrei — per una giusta causa. Auguro la buona fortuna a tutti con il solito groppo in gola. Una giusta causa…
Lei morì in pochi giorni. Pochi giorni bastarono a separarci per sempre. Morì a causa della Ribellione (una giusta causa). Poi anche lui morì, per gli stessi motivi, nello stesso modo. E io, che allora avevo 17 anni, e non capivo niente (ma proprio niente!) rimasi a guardare. Lei si chiamava Julia Parker, e sul suo conto quasi non so altro: era andata con i ribelli, dopo che il Sistema le aveva confiscato i beni e chiuso la sua attività commerciale: una libreria. Una storia che somigliava molto alla mia. Anche alla mia famiglia il Sistema aveva confiscato i beni, ma delle reali proporzioni di questa tragedia non mi ero reso conto subito. Iniziai a comprendere solo tre mesi più tardi, quando incontrai Julia e il suo compagno, El Blanco.
Facevano all’amore, una notte, in una delle palazzine del sobborgo 29, appena evacuato. S’erano infilati in un appartamento al pian terreno, avevano acceso delle candele ed ora li si sentiva ansimare. Era da un po’ che li seguivo; dal tardo pomeriggio, per la precisione, e per un solo motivo: avevo capito che avevano del cibo.
Cibo. Non mangiavo da tre giorni, e non capivo più niente, se non che avevo fame. Fame. Una fame indescrivibile, insopportabile… per fame avrei ucciso, o mi sarei fatto ammazzare. Così saltai dalla finestra dentro l’appartamento — ed ero pronto a tutto. Lei gridò; lui mi puntò in faccia una pistola. Rimasi immobile… e in silenzio — credevo — ma in realtà parlai, eccome se parlai! Le mie labbra parlavano; il terrore parlava, non ero più io, non mi accorsi di farlo, ma parlai. Dissi:
– Ho fame. Fame, solo fame.
Non so quante volte l’ho ripetuto.
Loro due si scambiarono un’occhiata: si scongelò un ghiacciaio, e tornai cosciente. Mi accorsi che erano seminudi, mi accorsi di lei, che si rivestiva senza fretta, sorridendomi, e della canna gelida della pistola, che ancora mi sfiorava il sopracciglio. Vidi finalmente l’interno di quella bettola, già devastata dagli sciacalli. Della cena c’erano solo gli avanzi, ma bastarono. Mangiai con loro due che mi guardavano.
– Si sta bene qui. — provai a dire.
– Sì, ma solo per stanotte. — El Blanco grugnì. Aveva ancora in mano la pistola. La ripose con un sospiro, e concluse — Domattina ci saranno i fuochi d’artificio, qui.
Sapevo a cosa alludeva. Per l’indomani era previsto l’inizio dei lavori di risanamento anche nel sobborgo 29: tabula rasa in meno di 12 ore, a colpi di dinamite, ruspe e colate di cemento. La stessa sorte era toccata qualche giorno prima al sobborgo 27: il mio.
– E di tutte le persone evacuate stamattina, neanche l’ombra. — sospirò ancora El Blanco.
Gli era tornata la fame. In un supermercato si era fregato un salame: lo affettammo e lo divorammo in tre, con un solo tozzo di pane equamente suddiviso, mollica su mollica. Sapore indimenticabile. Durissimo, cazzutissimo, El Blanco. Non osai chiederlo (e feci bene), ma mi pareva chiaro che il furto fosse stato uno degli elementi specialistici della sua vita passata. Idem per l’uso delle armi. Eppure sapeva essere affettuoso. Per la prima volta, dopo un mese di vita assurda e disumana, mi sentivo come a casa mia, fra gente amica. Sentivo un calore che in passato non mi ero mai sognato di apprezzare e che ora, da un mese a quella parte, rimpiangevo come il più impagabile dei tesori perduti. Il calore di casa. Julia e El Blanco dovettero accorgersi di questo, perché presero a trattarmi come un cucciolo smarrito, bisognoso di protezione e d’affetto.
Più tardi capii perché parlammo così poco di noi. El Blanco era un fuoriuscito: aveva aderito al Sistema, ma poi se ne era distaccato; era passato con i ribelli; adesso era ricercato. Sono scelte che costano.
Considerando che anche i miei genitori erano stati dichiarati “fuoriusciti”, perché qualcuno aveva colto nelle loro lezioni di storia e filosofia una vena sovversiva; considerando che erano stati arrestati e deportati; che i loro beni erano stati confiscati ed io e mio fratello dichiarati latitanti, potevo tranquillamente sentirmi parte del giro. Quanto a Julia… beh, lei non nominò mai né genitori, né figli, né mariti, né altro. Una sola volta accennò al suo passato, al giorno in cui il Sistema aveva dichiarato fallita la sua libreria, ai militari che apponevano i sigilli. Nient’altro.
Julia e El Blanco erano due persone eccezionali. Ci rilassammo attorno al piccolo falò delle candele, in quel tepore domestico così surreale; mi appisolai col sapore del pane e salame che mi coccolava le gengive. Non so se e quanto dormii, forse solo per un attimo Lei era incredibilmente bella, e io, forse, la sognai che ancora mi sorrideva. Ma fu solo un attimo. Il sogno divenne incubo: El Blanco aveva sbagliato le previsioni, aveva sbagliato a fare previsioni, perché il Sistema è imprevedibile. Bastò il rumore del motore di un’auto, inconfondibile jeep — sobbalzammo. Bastò il latrato di un cane — sobbalzammo. Non ero l’unico ad essersi appisolato… grave errore. El Blanco masticò una bestemmia. Uno sportello sbatteva, uno scalpiccio confuso rimbombava nella stradina abbandonata. Inconfondibile, tutto maledettamente inconfondibile. Il cuore mi rimbalzò in gola. La polizia, la Polizia di Regime! Passi militari, cadenzati, sibili mimetici di ordini sparati in codice, il gelido clic dei caricatori, l’ansia feroce dei cani addestrati… scappare, bisognava scappare! Di nuovo il terrore mi agguantava la gola. Ero sul punto di piangere. Scappare? Scappare ancora? E dove?
In un momento simile a quello avevo perso di vista mio fratello, e non c’eravamo più ritrovati, da 5 giorni… ero disperato, sul punto di mollare tutto, arrendermi, farmi arrestare. El Blanco mi afferrò per un braccio.
– Corri. — mi disse.
Sembrava inferocito; ma dava l’impressione di sapere esattamente che cosa fare. Io e Julia ci tenevamo per mano. Scavalcammo una finestra e ci ritrovammo tra i rifiuti, proprio nell’istante in cui una seconda jeep militare imboccava la stradina dal verso opposto. I fari tagliarono fuori la fuga del Blanco dalla corsa disperata mia e di Julia. I poliziotti saltarono giù dall’auto. Erano tre, quattro — non so. La notte, o il terrore, li rendevano più numerosi ai miei occhi. Armi puntate addosso. Fiato rotto. Eppure c’era Julia, lì accanto a me, anche lei immobile, con le mani alzate, ma c’era, e finchè ci sarebbe stata non avrei ceduto allo scoramento. Eppoi c’era El Blanco, da qualche parte, nascosto nel buio, e armato. Era lì, e prima o poi sarebbe sbucato fuori. I poliziotti ci ordinarono di metterci faccia al muro, braccia e gambe allargate – e così, chi sa perchè, ebbi meno paura. Julia c’era ancora; c’erano i suoi occhi limpidi che mi cercavano. Dovevo provare a rassicurarla; dovevo provare a sorriderle… e poi, avrei mai fatto in tempo a dirle quanto era bella?
Non mi preoccupavo più tanto per me, quanto per lei. Di lì a poco ci avrebbero perquisito: mani di maschio su corpo di maschio va bene, ma mani di maschio su corpo di donna… sul corpo di lei — Dio mio, esplodevo di rabbia al solo pensiero.
Esplose anche la furia del Blanco.
C’era una finestra proprio sopra le nostre teste: le imposte si spalancarono con un fragore assordante e comparve la sua ombra possente. Sparò all’impazzata, e con tutto il fiato che aveva in gola gridò:
– Via! Via! Scappate! Nel canaletto!
Nel canale di scarico corremmo come matti, io e Julia. Lei era angosciata, perché El Blanco non ci teneva dietro, e agli spari se ne erano aggiunti altri e il rumore aveva attirato altre jeep, altri poliziotti, altri cani, e urla e latrati avevano cancellato ogni speranza — ma ci tenevamo forte per mano e correvamo, e così rimanemmo fino all’alba: bagnati, congelati, terrorizzati, ma mano nella mano.
Julia era pallida e batteva i denti; gli occhi le si inumidivano e io pregavo in cuor mio perché non iniziasse a piangere.
– Spero che ci pensi a venire qui… – ripeteva — Ce l’ha detto lui di prendere su per il canaletto, vero? L’hai sentito anche tu, vero?
Io annuivo.
– Ci penserà che ci siamo fermati qui.
– Dove siamo? — domandai.
– A ridosso del depuratore. Non senti la puzza?
– No, non ci faccio più caso.
Mi guardò e ci venne da ridere. Era una benedizione del cielo, la mia Julia.
Spuntò un sole malaticcio, e come per incanto comparve El Blanco. Lei gli si gettò al collo e non smetteva di guardarlo e baciarlo e stringerlo forte. Poi vollero abbracciare anche me. Erano una benedizione del cielo. Mi commossi.
– Le lacrime non vanno mai sprecate. — sussurrò Julia.
Vero, pensai. Lei, alla fine, non aveva pianto. Piuttosto, c’era da trovare il modo di rimettersi in sesto e in fretta. El Blanco era ferito ad un piede e doveva medicarsi; non aveva più munizioni.
– Quanti ne hai uccisi? — chiese Julia.
Lui sospirò.
– Che importanza ha? — sussurrò.
Ci fu un lunghissimo silenzio. Uccidere un solo poliziotto significava firmare la propria condanna a morte. Rabbrividii.
Ci rifugiammo nella cucina di un ristorante: luogo ideale. Scardinammo la porta di servizio e ci barricammo dentro. Il ristorante doveva essere stato confiscato, o qualcosa di simile: trovammo del cibo ancora commestibile e medicinali per El Blanco; per asciugare i vestiti accendemmo tutti i fornelli ed appendemmo pantaloni, camicie e giacche alle cappe di aspirazione; poi, per non crepare di freddo, ci avvolgemmo nelle tovaglie e ci stringemmo gli uni agli altri. Solo allora ci ricordammo che, dalla sera prima, non avevamo ancora fatto le presentazioni.
– Julia Parker.
– El Blanco.
– Miguel Terrano.

Il corpo di Julia era caldo, premuto contro il mio; la testa sprofondata fra la mia spalla e quella del Blanko. Era un sonno così profondo e tranquillo da far tenerezza.
Già da un po’ non riuscivo a pensare ad altri che a lei, ai suoi occhi profondissimi, alle sue labbra morbide, leggere leggere, a quel corpo solido che denudava in fretta e con tanta facilità. La sua totale assenza di imbarazzo mi imbarazzava. Sicchè scoprii quasi con sorpresa di desiderarla.
El Blanco non dormiva: ci ritrovammo soli, ognuno perso nei suoi pensieri.
– Non avevo mai sparato ad un uomo, prima. — mi confessò.
Non seppi che dire, così continuò:
– Ma quelli vi avrebbero ucciso, puoi starne certo. Ne ho viste di evacuazioni notturne. Vi avrebbero puntato una pistola alla nuca e vi avrebbero ammazzati.
– Non so più niente di mio fratello — feci allora, a bruciapelo — dall’evacuazione del 27, 5 giorni fa.
– Eri al sobborgo 27?
– Sì.
– C’ero anch’io.
– Anche tu e Julia eravate lì?
– No, solo io. Julia l’ho conosciuta due giorni fa, tre con oggi.
Lo stupore si impossessò di tutta la mia attenzione; e così, mentre El Blanco ripeteva che quella del 27 era stata la più drammatica delle evacuazioni, il mio pensiero tornò a posarsi su Julia, su quell’eroico amore di favola fra lei e il fuoriuscito ricercato che avevo creduto profondo e inattaccabile e consolidato dal suggello di anni e anni trascorsi assieme, di decine e decine di mirabili avventure! Invece era stato il caso ad incatenare i loro destini; e in quel guazzabuglio di orrori che era stata l’evacuazione del sobborgo 27, mentre altri — io e mio fratello! — si perdevano definitivamente di vista, la fortuna aveva baciato sulla fronte El Blanco mettendo Julia sul suo cammino.
– E chi è tuo fratello?
– Marcus. — risposi — Marcus Terrano.
– Mai sentito: non è tra i fuoriusciti.
– No, lui no. I miei genitori lo sono. Li hanno arrestati un mese fa. Anche di loro non so più niente.
Tornava la brutale sensazione del freddo. Mi scossi.
– Ma mio fratello lo ritrovo. — affermai.
Julia si destò poco dopo, mentre in cuor mio ragionavo del fatto che avevo detto più cose sul mio conto a lei e El Blanco in 12 ore, che ai miei veri genitori in tutta la vita. Erano pensieri che mi angosciavano: mio fratello, i miei genitori… Pensare a loro e domandarsi che fine avessero fatto mi gettava in uno stato di prostrazione.
– Miguel — disse El Blanco a Julia — vuole ritrovare suo fratello. Si sono persi qualche giorno fa, al 27.
– In quell’inferno… – si limitò a mormorare lei.
– Credo — soggiunse lui — che sia il caso di dargli una mano.
– Che cosa? — protestai.
Non avevo udito in tutta la mia vita una frase che mi avesse rallegrato più di questa, ma temevo per l’incolumità di entrambi.
– Blanco, tu sei ricercato! — provai a dire — Se ti beccano…
– Se mi beccano non potrò più aiutarti. — fu la risposta.
Sorridemmo tutti. Sorridemmo e la camicia mi cadde dalla cappa sul fornello acceso, prese fuoco, tentai di raccattarla senza scottarmi, ma mi cadde a brandelli fra le mani. E così adesso ridevamo di cuore. Io, El Blanco e Julia.
Lei si era alzata: dalle tovaglie che ancora si stringeva addosso traspariva il suo corpo nudo. Ci fu un silenzio carico di sguardi: occhiate indiscrete di maschio, che sanno essere ingombranti e fare perfino rumore! Tanto che lei se ne avvide, e in un tono di sfida più eccitante che mai esclamò:
– Che vi prende?
– Sei bella, Julia. Bella. — El Blanco l’abbracciò di slancio, la sollevò fin sopra le sue stesse spalle, oltre la sua testa, in alto, in alto. Le tovaglie caddero svelando il segreto limpido dei seni — quello che non avevo smesso di sognare nemmeno per un attimo.
Julia rideva e si lasciava dondolare nell’aria, e io — che pure non ero parte di quel gioco — mi sentivo scosso da un’ebbrezza di animale selvaggio. Poi lei e El Blanco si baciarono, e io mi sentii più solo che mai. Solo come un innamorato senza speranza.

I Fuoriusciti avevano un rifugio segreto, in città. Era una vecchia rimessa di natanti, vicino allo scalo. El Blanco sprecò le sue ultime forze per condurci lì. La ferita al piede si era infettata. Di lui e di quello che aveva fatto al sobborgo 29 si sapeva già tutto. Le notizie, sul fronte della Ribellione, erano pessime: nuovi arresti, arresti eccellenti fra i Fuoriusciti. Un capo ucciso. Periferie passate al setaccio. Retate. E quanto di peggio si potesse ancora immaginare. El Blanco aveva la febbre alta e in quelle condizioni non era facile (e forse nemmeno possibile) curarlo. Trascorrevamo le giornate rintanati fra le carcasse dei mercantili in disuso; il freddo era insopportabile e l’umidità penetrava fin nelle ossa. I Fuoriusciti erano gente in gamba: medici, insegnanti, giornalisti. Stimati professionisti tutti ricercati. C’era molta solidarietà fra di loro, ma poca voglia di parlare. Il medico che curava El Blanco aveva l’aria stanca e afflitta: ogni volta che mi rivolgeva il suo sguardo pietoso, mi metteva a disagio. Accennava di no con la testa, ma senza farsi vedere da El Blanco. E quando si sforzava di sorridergli era ancora peggio. Julia insistette perché la mandassero in città (io e El Blanco eravamo contrari, ma non ci fu modo di dissuaderla): si fece dare degli abiti, pochi soldi, un foglietto dal medico, con su scritto il nome della medicina che serviva per curare il suo compagno, e un bel mattino, di buon’ora, scomparve. Scomparve per un’intera giornata: 12 interminabili ore di angoscia, nelle quali nemmeno El Blanco ebbe voglia di rivolgermi la parola. E io mi misi a pensare: pensai ininterrottamente sempre alla stessa cosa, una frase che avevo sentito dire da El Blanco, qualche sera prima. Ed era questa:
– Ho smesso di odiare il Sistema. Adesso lo adoro.
Julia, che gli stava misurando la febbre, aveva ribattuto:
– Stai delirando.
– No, sono lucidissimo. — era stata la risposta — Grazie al Sistema mi sono ritrovato accanto la donna che ho sempre desiderato e il figlio che ho sempre sognato.
“Figlio”… sentirglielo dire mi aveva improvvisamente rattristato. Quella frase avrebbe dovuto essere un complimento, ma né io né Julia lo ringraziammo. E io ripetevo in cuor mio: “figlio”, “figlio”. A distanza di giorni, ancora ripetevo: “figlio” — figlio — FIGLIO.
Anch’io, forse, avevo sempre desiderato un padre come El Blanco, ma non era quello il punto.
Il punto era che se avevo un nuovo padre — dopo il mio vero padre — correvo nuovamente il rischio di perderlo; e se Julia era la mia nuova madre — che adoravo ormai con tutte le mie forze — correvo il rischio di vedermela strappare via, senza poter fare nulla. La sola idea mi faceva impazzire. E il peggio era che questa nuova parvenza di gioia era stata effettivamente messa insieme dal Sistema. Il Sistema avrebbe potuto disporne, dividere ciò che aveva unito, distruggere ciò che aveva aggregato, dilaniare, tagliuzzare, vivisezionare. Era un pensiero che mi ossessionava, e intanto Julia continuava a tardare. El Blanco fremeva, disteso sulla sua branda; ansimava, tossiva; mi chiese di lei mille volte, ma con gli occhi, solo con gli occhi.
Io avevo preso con me un cagnolino, dell’ultima cucciolata di Asia: un mastino napoletano. I Fuoriusciti addestravano i cani perché segnalassero la presenza della Polizia di regime senza abbaiare: ne avevano decine, soprattutto boxer e mastini. E cuccioli a frotte. Avevo giocato un po’ con tutti, ma alla fine questo cucciolo aveva scelto me e mi era venuto appresso, fin nella mia stiva. Mi avevano detto che potevo tenerlo; che mi sarebbe stato utile. Era una femminuccia: la chiamai India. Fu lei a dirmi, con uno scodinzolio sommesso che Julia era tornata. Erano le 4 del mattino. Le si strinsero tutti attorno: spiegò che “sganciarsi”, giù in città, era diventato difficilissimo; aveva temuto un pedinamento; non aveva voluto correre rischi. Poi scherzò: s’era infilata in una libreria, a vedere che cosa pubblica il regime. E il tempo le era volato via. Ma prima di tutto questo, volle parlare con me, a quattr’occhi. Di sua iniziativa s’era recata nell’ufficio dell’anagrafe, per avere notizie di mio fratello e dei miei genitori. Tentai di rimproverarle la sua imprudenza: non mi lasciò nemmeno iniziare. Sorrise sottile sottile: aveva raccontato all’impiegato di essere una creditrice dei Terrano. Quello le aveva creduto. Dal computer erano saltate fuori le notizie, che io già sapevo: i miei genitori detenuti, io e mio fratello ricercati e dichiarati latitanti, con tanto di foto segnaletica. Più tardi (anni più tardi) scoprii che quella notte Julia mi aveva mentito: Marcus era stato ucciso durante l’evacuazione del sobborgo 27; mio padre era morto in carcere (il rapporto diceva per malattia polmonare). Di mia madre — della mia vera madre — non ci sono tutt’oggi notizie.
“Adorare il Sistema”… di quelle parole, ne ero certo, El Blanco si sarebbe pentito.

La Polizia di Regime fece irruzione allo scalo in pieno giorno. Circondarono la zona e dettero fuoco al canneto, tagliando così ogni via di fuga.
Il generale Kozinskij in persona diresse l’operazione.
I Fuoriusciti non erano gente abituata a combattere; la Ribellione era, allora, più un’idea che altro. E, del resto, arrivati a quel punto, retata o no, ci si sentiva ormai tutti già sconfitti. Solo El Blanco non si era mai arreso. Steso nel suo lettuccio, fradicio di sudore, divorato da dolori lancinanti, col piede ridotto ad un’ulcera purulenta, continuava a resistere. A lui andò il mio primo pensiero, quando mi accorsi di essere in trappola. Lui, inchiodato dalla malattia, era almeno due volte più in trappola di me. Fuori della nostra nave fantasma, nella calma surreale della resa, da un altoparlante echeggiava la voce tagliente di Kozinskij: “Fra poco qui brucerà tutto”.
Noi, nella nostra ombrosa stiva, ci guardavamo gli uni gli altri negli occhi, India compresa.
“Venite fuori con le mani sopra la testa, camminando lentamente e molto distanziati”.
Nemmeno uno sparo, pensavo io; ‘sti fuoriusciti sono proprio un branco di conigli!
– Il bastardo sta bluffando:— sussurrò El Blanco – non possono dar fuoco a tutto; siamo troppo vicini ai quartieri residenziali. Rischierebbero di inondare di fumo le case dei funzionari di governo; le colline sono sotto vento. Nessuno si prenderebbe una simile responsabilità.
Il ragionamento filava. E io non sarei mai riuscito a incrociare le mani sopra la testa ed uscire allo scoperto, camminando lentamente e molto distanziato dagli altri. Soprattutto non sarei riuscito a starmene immobile mentre qualcuno perquisiva, ammanettava e forse picchiava Julia e El Blanco; no, io non resistevo all’idea che qualcuno caricasse i miei genitori sopra un camion e se li portasse via chi sa dove; non avrei mai potuto assistere ad un’altra scena come quella.
Qualcosa stava cambiando. L’unico terrore che mi rimaneva era perdere i miei cari. E in questo caso il Sistema o la Ribellione si sarebbero equivalsi: due cause, uno stesso effetto: io che rimanevo solo. Di nuovo solo. Inaccettabile. Qualcosa stava cambiando. L’odio aveva cominciato a scavarmi dentro.
Aspettammo. Senza dircelo decidemmo di non cedere alla resa, di rimanere nascosti nella nostra stiva. Succeda quel che succeda, pensammo — ma senza dircelo.
La voce di Kozinskij, di fuori, finalmente tacque, e allora iniziò quella che verosimilmente sembrava un’ispezione: voci dure e passi decisi di soldato, e un continuo, incessante abbaiare di cani, il dramma di qualche attacco pieno di familiari latrati; poi gli spari, secchi nell’atmosfera plumbea del porto, e per ognuno un guaito che si spegneva in fretta. Strinsi a me India, che appariva nervosa, agitata: l’ultimo sparo e l’ultimo guaito erano stati vicinissimi a noi. Asia, pensai, con il cuore che mi batteva all’impazzata, hanno ucciso Asia. Seguirono altri guaiti, non più spari, solo guaiti, più tenui e prolungati, lamenti di cucciolo, che terminavano con un tonfo sordo nell’acqua gelida e oleosa dello scalo: uno, due, tre… fino a sette. Con India che ormai si dibatteva. Era l’ottava della cucciolata.
Dio, che pensiero orribile! — Mi sfuggì di mano.
No, brutti figli di puttana! Nemmeno il cane, non vi do nemmeno il cane!
Non ragionavo più; le corsi dietro. Mi riagguantò El Blanco, con una forza che non avevo mai neanche immaginato.
– Cazzo fai? — mi soffiò in faccia — Sei impazzito?
Non gli bastò il tempo, povero Blanco, perché non ero impazzito solo io: Julia era già in cima alle scale, già inondata dalla luce ferrigna del mattino, già affacciata per metà sul ponte dell’imbarcazione.
– Tu occupati del ragazzo — disse in fretta — io vado a riprendere il cane.
Ho ripensato un miliardo di volte a quelle parole, a quel gesto sconsiderato; un miliardo di volte ho risentito l’eco di quegli spari; un miliardo di volte le ho chiesto “perché? Perché? Perché l’hai fatto?”.
Tutt’oggi non ho risposte. Una madre certe cose le fa. Punto e basta. Di questo sono sicuro: quel che ha fatto Julia, l’avrebbe fatto anche la mia vera madre. E tutte e due non per il cane, ma per me.
– Se mi hai voluto almeno un po’ di bene, resta nella stiva e non muoverti per niente al mondo! — furono le parole del Blanco. Le ultime che gli sentii dire.
Salì gli scalini a due a due, con la caviglia spezzata e il dolore che gli traboccava assieme al pus, anche lui verso la luce, verso il mattino, verso il ponte, verso Julia, o forse verso Asia. La mia Asia. Ci fu uno sguardo, poi non so.
E io odio la Ribellione. La odio tanto quanto odio il Sistema, tanto quanto odierei qualsiasi regime, tanto quanto odio la guerra. Questo dovrei dire. Eppure, senza accorgermene, ho già iniziato a parlare, e ho iniziato così:
– Luogo: la biblioteca comunale. Modalità: si entra in silenzio; si prendono libri, ognuno un libro, e ci si siede sopra. Quindi, immobilità. E silenzio. Il silenzio deve essere assoluto. Non si risponde a nessuna provocazione, soprattutto non si risponde alla violenza, in caso di arresto si fa resistenza passiva. Nessun libro, per nessuna ragione, dovrà essere danneggiato. Nessuno dovrà mai dire il suo nome o fare il nome di qualcun altro. Nessuno dovrà mai combattere se non in nome della Ribellione.
Un nome, in realtà, lo so. Ora lo so: El Blanco si chiamava Eric. Se fosse vivo, oggi sarebbe uno dei capi, il più forte, il più popolare; più acclamato di me. Mi scuoto. Ho ancora i volti dei miei ragazzi davanti. Ultima cosa.
– Volevo ringraziarvi.
Sorridono. Ho le lacrime agli occhi e niente cuore. Il resto sarà carneficina.