di Gaspare De Caro e Roberto de Caro

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Ogni uscita della rivista culturale Hortus Musicus rasserena: indica infatti che persino nell’Italia di oggi esiste spazio per l’intelligenza e l’approfondimento. Dal n. 20 (ottobre-dicembre 2004), appena uscito nelle librerie, riprendiamo un articolo che commemora a modo suo Cristoforo Colombo. E’ tratto da un interessante e articolato Dossier Argentina contenuto nella rivista. Motivi di spazio ci hanno obbligato a sopprimere le note.

Cada vez que se habla de ayudar a los pobrecitos indios temblamos. Porque casi siempre quieren ayudarnos, pero nos destruyen.
(Eulogio Frites, indio colla, 1984)

Come narrano i manuali di Storia, la caduta di Costantinopoli nel 1453 e la conquista ottomana dei Balcani, oltre ad essere cagione di grande stupore e preoccupazione tra i cristiani, sancirono sia la fine dell’epoca delle crociate — nonostante le future illusioni imperiali di Carlo V e la nostalgica ostinazione di qualche papa — sia il definitivo controllo islamico sui commerci con l’Oriente: la «grande pianura d’acqua», il Mare nostrum, si trovava ora sostanzialmente in mano loro. Si impose la ricerca di una nuova rotta per le Indie. Il messaggio d’amore evangelico che da quel momento si propagò insieme al vaiolo per tre continenti causò un’ecatombe mai vista, tanto che se l’Unione Europea non fosse la cosa ingrata che è inserirebbe senz’altro nella propria carta costituzionale un accenno alle radici cristiane, per rammentarne la natura storicamente genocidiaria.


Buscar el Levante por el Poniente, con questo programma Colombo partì da Palos qualche mese dopo che i Re Cattolici avevano decretato a Granada l’espulsione dalla Spagna di ebrei e musulmani, i primi stanziali da quindici secoli, i secondi artefici dello splendore andaluso. Il genovese approdò nell’isola di Guanahani, alle Bahamas, il 12 ottobre 1492 e senza remore la ribattezzò San Salvador. 160 anni dopo, secondo alcune stime, dei circa 70-80 milioni di nativi americani ne rimanevano tre e mezzo. Comunque sia, «tenuto conto dei morti nelle epidemie, il massacro degli indiani dell’America centrale e dell’America del Sud tra il XV e il XVIII secolo rimane il più grande nella storia dell’umanità». Ma si continuò: spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi, russi, svedesi, olandesi — cattolici, protestanti, ortodossi, anglicani —, la croce in una mano nell’altra il paradiso, cancellarono in quattro secoli 500 popoli dalla faccia del continente: il Mundus novus era nato.

Pure in Argentina l’incontro con lo «huinca», l’uomo bianco, fu fatale agli aborigeni. Culture millenarie furono distrutte, popoli interi soggiogati e sterminati spesso fino all’estinzione, anche se occorse più tempo che nei grandi imperi dell’America centrale, che scontarono tragicamente l’efficienza di un’organizzazione statale di per sé dedita al dominio, allo sfruttamento, al monopolio della forza e della religione. Come nelle immense pianure del Nord America, i popoli guerrieri del Chaco, delle pampas e della Patagonia, privi di soffocanti strutture gerarchiche, resistettero all’invasore per quasi tutto l’800. Non fu possibile piegarli al nuovo dio, né infliggere loro il «castigo biblico» del lavoro, soprattutto all’indio australe, tanto che quando l’Assemblea costituente del 1813 ratificò il «Decreto contro la schiavitù» emanato due anni prima dalla Giunta Grande (che comprendeva le nazioni emancipate dal colonialismo spagnolo), esso venne tradotto in quechua, guaranì e aymara, ma non in araucano, la lingua del Sud: i nomadi delle pampas erano liberi, «non avevano bisogno della protezione legale degli uomini della Rivoluzione di Maggio». Fu proprio l’irriducibilità al culto del trabajo, alla logica del diritto di proprietà sulla terra e sugli armenti bradi, al giogo della mansuetudine cattolica a segnare il loro destino. Ne fecero presto esperienza i francescani, che nel 1600 fondarono la reducción di Pago de la Magdalena, tra Buenos Aires e il Río Salado, frontiera naturale con i territori liberi: «i religiosi si scontrarono con l’intolleranza dei Pampa verso ogni pur minima forma di disciplina, con la loro incostanza, la loro insofferenza per gli spazi circoscritti», invero del tutto ragionevole data l’enorme quantità di terra a disposizione. Poi toccò ai domenicani, «costretti a rinunciare a causa, come dissero, dell’alterigia dei Pampa». Ci provarono anche i gesuiti. Uno di loro, l’italiano Nicola Mascardi, assicurava che nel 1670, al ritorno da una sfortunata spedizione alla ricerca della mitica Ciudad de los Césares, già che c’era aveva battezzato «non meno di 40.000 aborigeni». Difficile a credersi. È certo invece che cinque anni dopo ripassò di là e trovò il martirio. Analoga sorte venne riservata ad altri membri della Compagnia di Gesù per tutto il Settecento. Così l’odio dei catechizzatori per i Pampa crebbe e trovò conforto in una dotta tradizione cinquecentesca. Ci si ricordò degli ammonimenti del domenicano Tomás Ortiz, che nella sua Relación curiosa de vida, leyes, costumbres y ritos que los indios observan en su política, religión y guerra (1525-27) negava a quanti si mostravano refrattari alla conversione «ogni barlume di umanità», classificandoli nella «categoria delle bestie, del legno, delle pietre» e giudicandoli, con parole di Aristotele, «servi e schiavi per natura»; e dell’umanesimo teologico di Celio Calcagnini, che dalla corte estense suppergiù nello stesso periodo affermava assolutorio: «Gli indios si possono cacciare come le fiere se, pur essendo nati per servire, si rifiutano di farlo». Il suggerimento sarà scrupolosamente seguito. Nel 1820, solo sette anni dopo la legge sull’abolizione della schiavitù — che dichiarava per gli indios «vigenti gli stessi princìpi di uguaglianza pertinenti alle altre classi dello Stato» e li definiva «vittime sfortunate dell’ambizione», costretti «a saziare con il loro sudore la cupidigia e il lusso degli oppressori» —, il governatore di Buenos Aires, Martín Rodriguez, nel Diario de la expedición al desierto annotava: «L’esperienza di quanto avvenuto ci insegna come trattare con questi uomini: ci porta alla convinzione che la guerra con loro deve essere portata avanti fino allo sterminio». Charles Darwin, che visitò quei luoghi tra il 1831 e il 1835, nel Naturalist Voyage round the World racconta del governatore di Santa Fé Estanislao López, conosciuto nel 1833, la cui «occupazione favorita» era «quella di dare la caccia agli indiani; poco tempo prima ne aveva uccisi quarantotto e ne aveva venduto i bambini a un prezzo medio di tre o quattro sterline l’uno», a misura anche dell’efficacia del provvedimento abolizionista. Ancora lui riferisce di una spedizione punitiva in termini illuminanti della moderna consapevolezza genocida dell’esercito: «Gli indiani, uomini donne e bambini erano circa centodieci e furono quasi tutti presi o uccisi, perché i soldati uccidono chiunque […] conturbante è il fatto incontrovertibile che tutte le donne che dimostrano di avere più di vent’anni sono uccise a sangue freddo! Quando osservai che ciò mi sembrava inumano, [il mio informatore] mi rispose: “Che fare? Sono così prolifiche!”». L’Argentina è sempre stata terra fertile per i militari: «Si trovano più generali nelle Province del Plata che non nel Regno Unito», testimonierà Darwin. Alla matanza parteciparono anche reduci delle guerre napoleoniche, fuoriusciti dalla Francia dopo la caduta dell’Empereur, latori del necessario know-how. Per esempio i cavalieri del «Primo Reggimento Ussari», con a capo un prussiano, adottavano la tattica usata contro i cosacchi: dopo aver respinto a fucilate gli attacchi dei Pampa li inseguivano fino ai villaggi e uccidevano tutti gli abitanti che trovavano.
Negli anni tra il 1835 e il 1879 — data di inizio della definitiva «Conquista del Desierto» da parte del futuro presidente Julio Argentino Roca e della spedizione nel Chaco guidata dal colonnello Manuel Obligado — i popoli delle pampas, stretti in confederazione e guidati dal grande cacicco mapuche Calfucurà, sconfissero ripetutamente «los huincas». I 182.655 chilometri quadrati che la Provincia di Buenos Aires occupava nel 1833 si ridussero a 86.668 nel 1855. La situazione, giudicata intollerabile dai proprietari terrieri e dalla popolazione, impose un’immediata risposta, ma l’esercito del generale Manuel Hornos — 3.000 soldati, dodici cannoni, duemila cavalli di rimpiazzo — cadde in una trappola e 270 uomini perirono nelle sabbie mobili di un guadal. La disastrosa sconfitta riportò la frontiera Sud al Río Salado, dov’era nel 1810. Nel 1858 il colonnello Emilio Mitre, dopo un primo scontro favorevole con il cacicco Coliqueo, si spinse oltre avido di imprese, ma «in totale ignoranza del territorio». Dopo due settimane di cammino non trovò né indios né cibo né acqua: 5.000 cavalli morirono di sete e i soldati dovettero tornare a piedi. Molti non sopravvissero. La frontiera a Nord tornò quella del 1826. Le vittorie degli indios non devono però trarre in inganno. Le ragioni della lunga teoria di insuccessi degli eserciti argentini sono essenzialmente due: da una parte in quei decenni la Repubblica era continuamente attraversata da sanguinosi conflitti interni e da guerre con gli stati confinanti; dall’altra la sottovalutazione razzista del nemico aveva indotto i comandanti militari a non curarsi a sufficienza né degli indispensabili strumenti topografici, né della formulazione di piani adeguati. Consolidato lo Stato e aggiustato il tiro strategico, fu questione di un attimo: in sei anni, dal Río Bermejo alla Terra del Fuoco, l’ancestrale civiltà aborigena delle sconfinate distese australi era finita per sempre.

Dopo il 1885 non solo il genocidio continuò, ma non ci furono più ostacoli all’escalation dell’etnocidio: a prigione, confino, internamento in colonie, marce forzate, schiavitù domestica, lavoro coatto, smembramenti familiari, epidemie si unirono le politiche di sradicamento e di repressione di ogni forma di riaffermazione della cultura e dei costumi indigeni. Il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica fu decisivo, anche se il monopolio venne infranto nel 1934, quando nel Chaco si installò la prima missione anglicana, seguita dai mennoniti e dai pentacostali, il cui capo, il pastore John Lagar, disprezzava profondamente gli indios e li chiamava «ubriaconi, assassini, ladri e bastonatori di mogli». Gli evangelizzatori non si limitarono a infierire personalmente sui poveri resti di una civiltà stremata, fecero di più: stabilirono un modello mentale di riferimento per l’intera società argentina, che del resto non necessitava di molto aiuto per rinvigorire un razzismo di cui aveva dato prove reiterate. In realtà ciò che di veramente prezioso venne fornito per i decenni a venire al «ser nacional», all’Argentinidad, fu un grande alibi: se le più alte autorità morali del paese ostracizzavano gli indios e praticavano apertamente l’etnocidio por algo será, qualche motivo c’era. Fu così che insieme all’orgoglio patrio per la terra strappata alla «barbarie» si consolidò nel sentimento comune il diritto/dovere all’oblio, la certezza dell’eterogeneità aborigena, la rimozione profonda dell’eccidio pristino e del furto.
Nel secondo dopoguerra qualcosa cominciò a cambiare, almeno nella mentalità della classe politica, che però, anche nel migliore dei casi, non abbandonò mai l’atteggiamento paternalistico e autoritario dei filantropi. Molto più incisivo fu il risveglio di coscienza degli indios, che cominciarono a coltivare progetti di riscatto e parteciparono attivamente alle rivolte degli anni ’60 e ’70. Nel 1972 venne fondato a Neuquén il «Primer Gran Parlamento Indígena Argentino», con 51 delegati di 5 gruppi etnici, che diedero vita a commissioni per l’«Organización de Comunidad y Obras Públicas, Tierras, Educación, Asuntos Laborales y Previsionales, Sanidad». L’America Latina era in fermento e la teologia della liberazione non aveva ancora pagato fino in fondo il coraggioso tentativo di reale partecipazione alle lotte contadine e operaie e la radicalità della critica alle strategie di dominio delle gerarchie ecclesiastiche. Fu in questo clima che tra il 25 e il 30 gennaio 1971, durante i lavori del «Simposio sobre la fricción interétnica en América del Sur», undici antropologi designati l’anno prima dal Congresso Internazionale degli Americanisti stilarono la Declaración de Barbados — por la liberación del indígena, «pietra miliare nel trattamento della questione da parte dei non indigeni». Il documento — presentato «nel corso dell’incontro organizzato dal Dipartimento di Etnologia dell’Università di Berna, sotto gli auspici del Programma di Lotta contro il Razzismo del Consiglio Mondiale delle Chiese […] viene considerata la base per la nascita dei movimenti indigeni nel continente latinoamericano». Al di là della sua importanza storica, politica, metodologica la Declaración de Barbados è anche una notevole riflessione sul concetto di cultura e sulla responsabilità intellettuale: in tempi di conformistiche e devastanti deleghe del pensiero politico, riteniamo utile riproporlo in traduzione ai lettori di Hortus Musicus.

DICHIARAZIONE DI BARBADOS (25-30 gennaio 1971)

Gli antropologi partecipanti al Simposio sul conflitto interetnico in America del Sud, riuniti alle Barbados dal 25 al 30 gennaio 1971, dopo aver analizzato le relazioni presentate sulla situazione delle popolazioni indigene tribali di vari paesi dell’area, hanno concordato l’elaborazione di questo documento e la sua presentazione all’opinione pubblica, nella speranza che contribuisca al chiarimento di questo grave problema continentale e alla lotta di liberazione degli indigeni.
Gli indigeni d’America continuano ad essere soggetti a una relazione coloniale di dominio che ha avuto origine al momento della conquista e non si è interrotta in seno alle società nazionali. Tale struttura coloniale si manifesta nel fatto che i territori occupati dagli indigeni vengono considerati e usati come terre di nessuno, aperte alla conquista e alla colonizzazione. Il dominio coloniale sulle popolazioni aborigene fa parte della situazione di dipendenza esterna in cui in generale si conservano i paesi latinoamericani rispetto alle metropoli imperialiste. La struttura interna dei nostri paesi dipendenti li induce ad agire nelle forme del colonialismo nel loro rapporto con le popolazioni indigene e questo assegna alle società nazionali il duplice ruolo di sfruttatrici e sfruttate. Nasce di qui una falsa immagine delle società indigene e della loro prospettiva storica, così come un’autocoscienza deformata della società nazionale.
Questa situazione si esprime in ripetute aggressioni alle società e alle culture indigene, sia attraverso iniziative ipoteticamente protettive sia nei casi estremi di massacri e trasferimenti coercitivi, cui non sono estranee le forze armate o altri organi governativi. Le stesse politiche indigeniste dei governi si orientano alla distruzione delle culture aborigene e sono usate per la manipolazione e il controllo dei gruppi indigeni a beneficio del consolidamento delle strutture esistenti. Un atteggiamento che nega la possibilità che gli indigeni si liberino del dominio colonialista e decidano del proprio destino.
In questa situazione gli Stati, le missioni religiose e gli scienziati sociali, soprattutto gli antropologi, debbono assumersi le ineludibili responsabilità di una iniziativa immediata per porre fine a tale aggressione, contribuendo così a propiziare la liberazione degli indigeni.

Responsabilità dello Stato
Non è possibile impostare iniziative a favore degli indigeni che non si propongano la rottura radicale della situazione attuale: liquidazione delle relazioni coloniali esterne e interne, cessazione del sistema classista di sfruttamento e di dominio etnico, trasferimento del potere economico e politico da una minoranza oligarchica alle masse maggioritarie, creazione di uno Stato autenticamente multietnico, nel quale ciascuna etnia abbia diritto all’autogestione e alla libera scelta di alternative sociali e culturali.
L’analisi che abbiamo compiuto ha dimostrato che la politica indigenista degli Stati nazionali latinoamericani è fallita tanto per azione quanto per omissione. Per omissione, in ragione della sua incapacità a garantire a ciascun gruppo indigeno la specifica protezione che lo Stato gli deve; per azione, in conseguenza della natura colonialista e classista delle sue politiche indigeniste.
Questo fallimento attribuisce allo Stato responsabilità diretta o connivenza in molti crimini di genocidio e etnocidio che possiamo constatare. Tali crimini tendono a ripetersi e la responsabilità ricadrà sullo Stato che non ottemperi ai seguenti requisiti minimi:
1) lo Stato deve garantire a tutte le popolazioni indigene il diritto ad essere e rimanere se stesse, vivendo secondo i propri costumi e sviluppando la propria cultura, in quanto costituiscono entità etniche specifiche;
2) le società indigene hanno diritti anteriori ad ogni società nazionale. Lo Stato deve riconoscere e garantire a ciascuna delle popolazioni indigene la proprietà del suo territorio, registrandola debitamente e in forma di proprietà collettiva, continua, inalienabile e sufficientemente estesa da assicurare l’incremento delle popolazioni aborigene;
3) lo Stato deve riconoscere il diritto delle entità indigene a organizzarsi e governarsi secondo la propria specificità culturale; questo in nessun caso può limitare ai loro membri l’esercizio di tutti i diritti di cittadinanza, ma li esime invece dall’adempimento degli obblighi che siano in contraddizione con la loro cultura;
4) lo Stato ha il dovere di offrire alle popolazioni indigene la stessa assistenza economica, sociale, educativa e sanitaria del resto della popolazione; ma inoltre ha l’obbligo di provvedere alle carenze specifiche che derivano dal loro assoggettamento alla struttura coloniale e, soprattutto, ha il dovere di impedire che siano oggetto di sfruttamento da parte di qualunque settore della società nazionale, inclusi gli agenti della protezione ufficiale;
5) lo Stato deve essere responsabile di tutti i contatti con gruppi indigeni isolati, in vista dei pericoli biotici, sociali, culturali ed ecologici costituiti per loro dal primo impatto con gli agenti della società nazionale;
6) i crimini e le offese che conseguono al processo espansivo della frontiera nazionale sono di responsabilità dello Stato, anche quando non siano commessi direttamente dai suoi funzionari civili o militari;
7) lo Stato deve definire l’autorità pubblica nazionale specifica che avrà a proprio carico i rapporti con le entità etniche che sopravvivono nel suo territorio, compito non trasferibile né delegabile in nessun momento e in nessuna circostanza.

Responsabilità delle Missioni Religiose
L’opera di evangelizzazione delle missioni religiose in America Latina è conforme alla situazione coloniale imperante, dei cui valori è impregnata. La presenza missionaria ha significato l’imposizione di criteri e patroni estranei alle società indigene dominate, i quali sotto la veste religiosa ricoprono lo sfruttamento economico e umano delle popolazioni aborigene.
Il contenuto etnocentrico dell’attività di evangelizzazione è una componente dell’ideologia colonialista; i suoi fondamenti sono:
1) il suo carattere essenzialmente discriminatorio, originato da una relazione ostile con le culture indigene, interpretate come pagane e eretiche;
2) la sua natura vicaria, che asseconda la reificazione dell’indigeno e la sua sottomissione, in cambio di futuri compensi soprannaturali;
3) il suo carattere spurio, in quanto i missionari cercano in tale attività una relazione personale, sia materiale sia spirituale;
4) il fatto che le missioni si sono convertite in una grande impresa di ricolonizzazione e di dominio, in connivenza con gli interessi imperialistici dominanti.

In virtù di questa analisi la nostra conclusione è che la cosa migliore per le popolazioni indigene, e anche per preservare l’integrità morale delle stesse chiese, è che si ponga fine ad ogni attività missionaria. Fino a che non si raggiunga questo obiettivo le missioni possono avere un ruolo nella liberazione delle società indigene a patto che si attengano ai seguenti requisiti:
1) superare l’assimilazionismo intrinseco all’attività di catechizzazione, in quanto meccanismo di colonizzazione, europeizzazione e alienazione delle popolazioni indigene;
2) assumere una posizione di autentico rispetto di fronte alle culture indigene, ponendo fine alla lunga e vergognosa storia di dispotismo e intolleranza che ha caratterizzato il lavoro dei missionari, i quali raramente hanno mostrato sensibilità per i valori religiosi indigeni;
3) porre fine al furto delle proprietà degli indigeni da parte di missioni religiose che si appropriano del loro lavoro, delle terre e di altre risorse naturali e non essere più indifferenti di fronte alla costante espropriazione della quale sono oggetto da parte di terzi;
4) abolire lo spirito suntuario e faraonico delle missioni, che si materializza in forme molteplici, però quasi sempre sulla base dello sfruttamento dell’indio;
5) porre fine alla concorrenza tra confessioni e agenzie religiose per le anime degli indigeni, che molte volte dà luogo a operazioni di compravendita di catecumeni e che, instaurando nuove lealtà religiose, li divide e li induce a lotte intestine;
6) cessare le pratiche secolari di rottura della famiglia indigena attraverso l’internamento dei bambini in orfanotrofi dove sono imbevuti di valori opposti ai loro, trasformandoli in esseri emarginati, incapaci di vivere sia nella società nazionale sia nelle loro comunità originarie;
7) rompere con l’isolamento pseudomoralistico imposto da un’etica falsa, che inabilita l’indigeno alla convivenza con la società nazionale; un’etica, d’altra parte, che le chiese non sono state capaci di imporre alla società nazionale;
8) rinunziare alle procedure ricattatorie consistenti nell’offrire agli indigeni beni e favori in cambio della loro totale sottomissione;
9) sospendere immediatamente ogni pratica di trasferimento o concentramento delle popolazioni indigene a fini di catechizzazione o assimilazione, pratiche che si riflettono nell’immediato aumento della morbilità, della mortalità e della decomposizione familiare delle comunità indigene;
10) abbandonare la pratica criminale di servire come intermediari per lo sfruttamento della mano d’opera indigena.

Nella misura in cui le missioni non assumono questi obblighi minimi, esse incorrono nel delitto di etnocidio o di connivenza con il genocidio.
Riconosciamo infine che recentemente elementi dissidenti all’interno delle chiese stanno assumendo una chiara posizione di autocritica radicale dell’azione evangelizzatrice, denunciando il fallimento storico dell’attività missionaria.

Responsabilità dell’Antropologia
1) Sin dalla sua origine l’Antropologia è stata strumento della dominazione coloniale: ha razionalizzato e giustificato in termini accademici, apertamente o surrettiziamente, la situazione di dominio di alcuni popoli su altri e ha apportato conoscenze e tecniche di azione che servono a conservare, rafforzare e mascherare la relazione coloniale. L’America Latina non ha fatto eccezione e con frequenza crescente programmi nefasti di azione sui gruppi indigeni e stereotipi e distorsioni che deformano e nascondono la vera situazione dell’indio pretendono di avere il loro fondamento scientifico nei risultati del lavoro antropologico.
2) Una falsa coscienza di questa situazione ha indotto molti antropologi a posizioni errate. Queste possono essere classificate nei seguenti tipi:
a) lo scientismo, che nega ogni nesso tra l’attività accademica e il destino dei popoli che sono oggetto di questa medesima attività, eliminando la responsabilità politica che la conoscenza comporta;
b) l’ipocrisia, che si esprime nella protesta retorica sulla base di principi generali, ma che evita accuratamente qualunque impegno in situazioni concrete;
c) l’opportunismo, che, pur riconoscendo la penosa situazione attuale dell’indio, nega la possibilità di trasformarla, mentre afferma la necessità di «fare qualcosa» all’interno dello schema vigente, il che in ultima istanza si traduce in un rafforzamento del medesimo sistema.
3) L’Antropologia che si richiede oggi in America Latina non è quella che considera le popolazioni indigene come meri oggetti di studio, ma quella che le vede come popoli colonizzati e si impegna nella loro lotta di liberazione.
4) In tale contesto è funzione dell’Antropologia:
— da un lato apportare ai popoli colonizzati tutte le conoscenze antropologiche tanto relative a loro stessi quanto alla società che li opprime, al fine di collaborare con la loro lotta di liberazione;
— d’altro lato ristrutturare l’immagine distorta esistente nella società nazionale rispetto ai popoli indigeni, smascherando il suo carattere ideologico colonialista.
Ai fini della realizzazione dei suddetti obiettivi, gli antropologi hanno il dovere di profittare di tutte le circostanze che si presentino nell’attuale sistema per intevenire a favore delle comunità indigene. Spetta all’antropologo denunziare con tutti i mezzi i casi di genocidio e le pratiche che portano all’etnocidio, così come rivolgersi alla realtà locale e teorizzare a partire da essa, al fine di superare la condizione subalterna di semplici esemplificatori di teorie altrui.

Gli indigeni come protagonisti del proprio destino
1) È necessario tener presente che la liberazione delle popolazioni indigene è una loro realizzazione o non è liberazione. Quando elementi a loro estranei pretendono di rappresentarle o di prendere la direzione della loro lotta di liberazione si istituisce una forma di colonialismo che espropria le popolazioni indigene del loro diritto inalienabile ad essere protagoniste della propria lotta.
2) In questa prospettiva è importante apprezzare in tutto il suo significato storico la dinamizzazione osservabile oggi nelle popolazioni indigene del continente, che le sta portando a prendere nelle proprie mani la difesa contro l’azione etnocida e genocida della società nazionale. In questa lotta, che non è nuova, si osserva oggi l’aspirazione a realizzare l’unità panindigena latinoamericana, e, in alcuni casi, un sentimento di solidarietà con altri gruppi oppressi.
3) Riaffermiamo qui il diritto delle popolazioni indigene a sperimentare i propri schemi di autogoverno, sviluppo e difesa, senza che queste esperienze debbano adattarsi o sottomettersi a schemi economici o sociopolitici predominanti in un determinato momento. La trasformazione della società nazionale è impossibile se queste popolazioni non sentono di avere nelle proprie mani la creazione del proprio destino. Inoltre, nell’affermazione della loro specificità culturale, nonostante la loro ridotta dimensione numerica le popolazioni indigene stanno chiaramente presentando strade alternative a quelle già percorse dalla società nazionale.

Miguel Alberto Bartolomé, Guillermo Bonfil Batalla, Victor Daniel Bonilla, Gonzalo Castillo Cárdenas, Miguel Chase-Sardi, Georg Grünberg, Nelly Arvelo de Jiménez, Esteban Emilio Mosonyi, Darcy Ribeiro, Scott S. Robinson, Stefano Varese