di Valerio Evangelisti

Cesaresulta.jpgAnche ammesso che il processo che ha portato alla condanna di Cesare Battisti sia stato viziato su irregolarità e imperniato sulle deposizioni di un pentito poco credibile, è certo che Battisti ha potuto difendersi nei successivi gradi di giudizio.

Non è così, almeno per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, che modificò la sentenza di primo grado e lo condannò all’ergastolo. Battisti era allora in Messico e ignaro di ciò che avveniva a suo danno in Italia.


Il magistrato Armando Spataro ha detto che, per quanto sfuggito di sua iniziativa alla giustizia italiana, Battisti poté difendersi in tutti i gradi di processo attraverso il legale da lui nominato.

Ciò è vero solo per il periodo in cui Battisti si trovava ormai in Francia, e dunque vale essenzialmente per il processo di Cassazione che ebbe luogo nel 1991. Non vale per il processo del 1986, che sfociò nella sentenza della Corte d’Appello di Milano del 24 giugno di quell’anno. A quel tempo Battisti non aveva contatti né col legale, pagato dai familiari, né con i familiari stessi.

Questo lo dice lui.

Be’, lo dice anche l’avvocato Giuseppe Pelazza di Milano, che si assunse la difesa, e lo dicono i familiari. Ma certamente si tratta di testimonianze di parte. Resta il fatto che Battisti non ebbe alcun confronto con il pentito Mutti che lo accusava. Si era sottratto al carcere, d’accordo; però il dato oggettivo è che non poté intervenire in un procedimento che commutava la sua condanna da dodici anni di prigione in due ergastoli, e gli attribuiva l’esecuzione di due omicidi, la partecipazione a svariato titolo ad altri due, alcuni ferimenti e una sessantina di rapine (cioè l’intera attività dei PAC). Questo era ed è ammissibile per la legge italiana, ma non per la legislazione di altri paesi che, pur prevedendo la condanna in contumacia, impone la ripetizione del processo qualora il contumace sia catturato.

Riferisce Armando Spataro che la Corte dei Diritti umani di Strasburgo ha giudicato garantito l’imputato nella prassi italiana del processo in contumacia.

Vero. Ma il magistrato Spataro si riferisce a una sola sentenza, e dimentica tutte quelle in cui la stessa Corte ha raccomandato all’Italia di adeguarsi alle norme vigenti nel resto d’Europa in tema di contumacia. D’altra parte è giurisprudenza costante della Corte dei Diritti umani ritenere legittimo il processo in contumacia solo se l’imputato è stato portato a conoscenza del procedimento a suo carico. Ciò nel caso di Cesare Battisti non è dimostrabile. E non basta nemmeno che il suo avvocato sia stato avvisato. Secondo l’art. 42 del codice di deontologia della Corte di Strasburgo, l’avvocato rappresenta effettivamente il cliente solo se 1) il primo si conforma alle decisioni del secondo circa le finalità del mandato a rappresentarlo; 2) l’avvocato si consulta col cliente circa i modi per perseguire tali finalità. Il punto 2), per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, non è sicuramente stato applicato, e anche il punto 1) è dubbio. Nulla dimostra che Battisti abbia avuto notizia del processo che lo riguardava, e gli elementi esistenti tendono a provare il contrario.

Questi sono cavilli che non dimostrano nulla, e che dimenticano la sostanza della questione seppellendola sotto forme giuridiche.

Ma Battisti non è tenuto a provare nulla! L’onere della prova spetta a chi lo accusa. Quanto alla sostanza della questione, vediamo di ricapitolarla: 1) un’istruttoria che nasce da confessioni estorte con metodi violenti; 2) una serie di testimonianze di elementi incapaci per età o facoltà mentali; 3) una sentenza esageratamente severa; 4) un aggravio della stessa sentenza dovuta all’apparizione tardiva di un “pentito” che snocciola accuse via via più gravi e generalizzate. Il tutto nel quadro di una normativa inasprita e finalizzata al rapido soffocamento di un sommovimento sociale di largo respiro, più ampio delle singole posizioni.

Ma tutto ciò non può interessare la giustizia francese, chiamata a decidere sull’estradabilità di Cesare Battisti.

Infatti non la interessa. I temi in discussione in Francia sono altri: quello generale del rispetto della cosiddetta “dottrina Mitterrand”, che concedeva diritto d’asilo ai rifugiati italiani ricercati per terrorismo purché rinunciassero a ogni velleità eversiva; quello, peculiare nel caso Battisti, della liceità per una Corte francese di riformare una decisione di diniego dell’estradizione già pronunciata; quello di ordine morale sulla consegna alle carceri italiane di persone, tra cui Battisti, che per tredici anni si sono fidate delle promesse ricevute e hanno completamente cambiato vita.

La “dottrina Mitterrand” non escludeva dall’asilo politico gli autori di fatti di sangue?

Così hanno sostenuto il solito Spataro, altri magistrati e vari giornalisti, tra cui la francese Marcelle Padovani. E’ un errore grossolano. Tutti costoro si basano sull’originale colloquio tra Mitterrand e Craxi che fondò la “dottrina” (in realtà non un dispetto della Francia all’Italia, bensì una mano tesa per aiutarla a uscire dagli “anni di piombo”), ma dimenticano come tale “dottrina” si precisò successivamente. Anzitutto con un intervento dello stesso Mitterrand al 65° congresso della Lega dei Diritti dell’Uomo, nel 1985, in cui ribadì la concessione dell’ospitalità ai circa 300 rifugiati politici italiani in Francia, ricercati per reati anteriori al 1981, senza distinguere tra “delitti di sangue” e altri. Poi — anzi, in parallelo — con l’istituzione di un gruppo di lavoro composto da consiglieri dell’Eliseo e del governo, alti ufficiali di polizia, magistrati e avvocati, incaricati di dare corpo alle indicazioni del presidente della Repubblica francese. In un’intervista apparsa su Libération il 6 aprile scorso, uno dei componenti la commissione, l’avvocato Jean-Pierre Mignard, ha testimoniato che non si operò alcuna distinzione circa il tipo di crimine, anche perché i fascicoli giunti dall’Italia erano inquinati da procedure lacunose, contraddizioni e prevenzioni ideologiche da parte dei magistrati. Ciò fu anche alla base del rigetto della prima domanda di estradizione di Battisti, nel 1991.

Armando Spataro afferma invece che il rigetto fu di natura tecnica. I magistrati francesi respinsero la richiesta italiana di estradizione di Battisti sulla base degli atti istruttori (ciò in relazione all’istruttoria “del processo Torregiani” iniziata dal sostituto procuratore Forno nel 1979), mentre si riservarono una pronuncia definitiva nel momento in cui le sentenze fossero divenute definitive.

Il magistrato Spataro ha ammesso (dialogando per iscritto con suoi colleghi del Movimento per la Giustizia) di avere cercato una soluzione al fatto che la magistratura francese fosse chiamata a pronunciarsi una seconda volta su uno stessa richiesta di estradizione; e, dopo avere vagliato varie soluzioni (sembra di capire), di essersi attestato su questa. Se così è, si tratta di un comportamento piuttosto insolito, per chi si voglia spassionato ricercatore della verità. A parte questo, la tesi di Spataro non si evince né dal testo della sentenza emessa nel 1991 dai magistrati francesi, né dai ricordi di chi partecipò alla seduta. Non dimentichiamo, poi, che alla fine del 2003 il Procuratore Generale della Corte d’Appello di Parigi notificò al guardasigilli francese che non si era ritenuto di dare corso all’ennesima domanda di estradizione di Battisti pervenuta dal governo italiano. Evidentemente non riteneva che, rispetto al 1991, qualcosa fosse mutato. Il caso Battisti si è riaperto solo perché l’esecutivo francese, su pressione italiana, ha proceduto all’arresto dello scrittore.

Il ministro italiano Castelli, secondo Armando Spataro (ma anche secondo l’ex magistrato Luciano Violante), non ha fatto che il suo dovere, premendo per l’arresto di Battisti e di altri rifugiati in Francia.

L’impressione è che la volontà di giustizia del ministro Castelli sia, per così dire, selettiva. L’accanimento che mostra nei confronti di militanti di estrema sinistra a riposo da decenni non è pari a quello esercitato nei confronti degli ex militanti di estrema destra in latitanza. Del resto ciò non può stupire, visto lo slittamento ideologico del partito cui Castelli appartiene, la Lega Nord. Un partito che oggi affida la propria scuola quadri ad Alain De Benoist, che consacra pagine del proprio organo a Davide Beretta (ex appartenente alle Squadre d’Azione Mussolini, responsabili di circa 80 attentati), che cerca di sedurre gli aderenti ad Alleanza Nazionale in nome di una “continuità” che Fini avrebbe tradito, che manifesta solidarietà al partito razzista belga Vlaam Blok, che riempie di riferimenti a Julius Evola le colonne culturali dei propri organi giovanili. Per non parlare delle recenti prese di posizione sul diritto all’autodifesa e sulla tortura. Luciano Violante non sembra scorgere una continuità tra simili prese di posizione e la caccia accanita all’ “estremista rosso” che da vent’anni vivacchia in altre parti del mondo. Peccato per lui. Non sa distinguere la giustizia dalla vendetta.

Ciò non toglie che gran parte della sinistra sia compatta nel sostegno a un magistrato come Armando Spataro.

Questo è un problema della sinistra, appunto. C’è da chiedersi se sia a conoscenza di ciò che non il solo Spataro, ma altri magistrati che come lui furono tra i protagonisti della repressione dei movimenti degli anni ’70 e dei primi anni ’80, pensano dei casi di Adriano Sofri o di Silvia Baraldini. Immagino — o forse spero — che non pochi esponenti della “sinistra” (chiamiamola così) ne resterebbero un po’ scossi.

Inutile menare il can per l’aia. Cesare Battisti non ha mai manifestato pentimento.

Il diritto moderno — l’ho già detto – reprime i comportamenti illeciti e ignora le coscienze individuali. Reclamare un pentimento qualsiasi era tipico di Torquemada o di Vishinskij.

Ha persino esultato quando è stato liberato.

Non è un comportamento così bizzarro. Nella foto che correda questo articolo, Battisti esulta. Stava forse inneggiando alla giustizia proletaria e ai tribunali del popolo? No, stava semplicemente uscendo da un’osteria. Figurarsi come può esultare all’uscita da una prigione, e per il rinvio di una trasferta forzata verso il carcere a vita. Ne sa qualcosa Paolo Persichetti, che da quando è stato estradato viene sbattuto da un penitenziario all’altro, e si è visto persino negare gli strumenti per scrivere.

Non si può liquidare così, in una battuta, un problema più complesso.

Esatto. Non si può liquidare così il problema più generale dell’uscita, una buona volta, dal regime dell’emergenza, con le aberrazioni giuridiche che ha introdotto nell’ordinamento italiano. Ma ciò può essere oggetto di altre FAQ, che prescindano dal caso specifico fin qui trattato.