confessocheho.jpg a cura di Luigi Ananìa e Silverio Novelli
prefazione di Luigi Veronelli
DeriveApprodi, pp. 235, € 13,50

di Libero Dionisi

Piace il vino e piace scrivere, ai trentuno autori (ventisette uomini, compreso il prefatore-affabulatore Luigi Veronelli, e quattro donne), nati e viventi in Enotria. Ecco perché deve essere venuto su da un buon terroir questa bevibile antologia di racconti, polifonia da cantina e da osteria.
Su come, da quando e perché questi individui bevano non abbiamo né, in fondo, ci interessa avere notizie. Forse, tra loro, “ve ne sono che, di sbornia, ne hanno presa una sola, ma gli è durata tutta la vita” (Baltasar Gracián). Forse qualcuno, più lucido e selettivo, sottoscriverebbe l’ammissione di polpa (d’acino) di Guy Debord, che nel suo Panegirico confessava (anche lui confessa, come i trentuno): “Fra il piccolo numero di cose che mi sono piaciute, e che ho saputo ben fare, bere è senza dubbio quella che ho saputo fare meglio”.

Forse qualcun altro ha preso a bere forte ma avanti negli anni; oppure ha cominciato prestissimo, magari poco più che bambino, complice la malizia di qualche nonno, ma poi ha trasformato il vino in ospite abitudinario e discreto, da accogliere a tavola soltanto per le feste comandate. Forse che sì, forse che no: che importa? Sul piede franco della cultura italica il grappolo di uva da vino si è perpetuato per millenni, marchiando goccia a goccia la doppia elica del DNA di Greci, Romani, Germani, Bizantini, Normanni, Arabi e finalmente Italiani di tutti i campanili e di tutte le fedi. Così, eccoli qua, i trentuno fenotipi enocompatibili, torchiatori e torchiatrici del proprio sangue idroalcolico fermentato. Colpisce, notavo, che come Debord anche Veronelli, Guccini, Benigni, Mura, Lolli, Nori, Mancassola, Voltolini, Melik, Mazzucco, Cornia e drinking camerades, in modo più o meno esplicito, d’aver bevuto il sangue di Bacco confessino. Pensano che il bere sia una colpa? Pesa la reprimenda cattolica d’ogni vizio? Nonno Noè li disgusta ancora, strabico di sbronza e lascivo? Ma no: un conto è la sbronza (soltanto una delle fattispecie sottospecie), un conto è il bere. E poi: andiamoci a rileggere il Cantico dei Cantici. E il Cristo non è vigna, oltre che vaso, di sapienza? Ho sotto mano un libro recente, pubblicato dalla ortodossa Biblioteca Carità Politica, che s’intitola L’Angelo della Temperanza: il bere moderato. Il vino non porta colpa.
Il fatto è che questi trentuno non rei confessi ci sembrano laici, post-moderni e post-ubriachi come tanti. Oltre tutto, provatevi voi a scrivere qualcosa di degno sotto ciucca. Bukowski scriveva dopo o senza. Non durante. Il battello, sulla pagina, sarà pure ebbro, ma di memorie, visioni, fantasmatiche proiezioni. Soltanto quelle. Le derive e gli approdi sono finzionali. Ananìa, Antonelli, Giusti, Maja, Laurenti, Berardi, Lemme, Iovinelli, Urbani, Rainone e accoliti alcolici lo sanno bene, lo sanno bere e lucidamente si abbeverano al proprio sangue enoico, lo distillano in parole. Allora. La confessione d’aver bevuto è un calco metaforico della confessione d’aver vissuto. Allora. Il ricalco parodico su Neruda — il quale al vino, guarda caso, dedicò una sensualissima ode — non funziona solo come spiritosa (sempre spirito, sempre spirits) trovata da copy. Allora. Chi confessa d’aver bevuto e vissuto, parla – e parla agli altri e a sé stesso. E racconta. Magari per iscritto. Prisma dalle rifrazioni plurime (un suo goccio non contiene forse più di seicento differenti sostanze?), il vino è simbolo e veicolo di dismorfie umorali e di diatesi morali che tracciano traiettorie centrifughe: la gioia dell’amore e la solitudine dell’abbandono; il piacere del godimento e la tensione a un’alchemica conoscenza; la dignità d’essere terra e radici e la perdizione dell’alienarsi da sé… Alcune delle possibili antinomie fuse nel nucleo archetipico del vino ed espresse con il vino e attraverso il bere sono state trascelte dai curatori, che le hanno elette a contenitori-partizioni dei racconti: Piacere o Conoscenza, Italiano o Forestiero, Amore o Abbandono, Vignaiolo o Vinatiere, Dignità o Perdizione. Teobaldi, Baroni, Alasia, Leotta, Giartosio, Novelli, Villa, Salbitano, Vuoto, Turi e gli altri clerici scribentes consegnano ai lettori, più che un libro corale sul vino, un cuore di vino bevuto (vissuto) (raccontato) (scritto) in trentuno modi diversi. Tutti, di là dagli esiti — mediamente DOC, con punte DOCG -, concordano su un fatto: il vino non va vissuto come un feticcio modaiolo, la vita non va bevuta come un tavernello triscount.