Una riflessione personale su etnicità e classe sociale
di Rudolph J. Vecoli
rv_sml.jpg[Rudolph J. Vecoli (a sin.) insegna
Storia alla University of Minnesota.
Ha fondato e dirige lo Immigration
History Research Center di St. Paul,
Minnesota. Il presente saggio, Italian
Immigrants and working-Class
Movements in the United States: A
Personal Reflection on Class and
Ethnicity
è apparso sul “Journal of
the CHA/Revue de la SHC (1993). Riprendiamo la traduzione fattane da Martino Marazzi e pubblicata sul numero di 5 della rivista ÁCOMA, ora edita da ShaKe]

italianworker.jpgEtnicità e classe sociale sono state, nell’America del ventesimo secolo,
tra le fonti più significative di identità e solidarietà di gruppo. Com’era
logico attendersi, questi concetti sono serviti come categorie interpretative
fondamentali del comportamento umano per gli storici del
lavoro e dell’immigrazione. Nella maggior parte dei casi, è stato un
punto di vista marxista, secondo il quale la classe costituisce la base
della realtà sociale e l’etnicità una forma di falsa coscienza, a dominare
il lavoro degli storici del lavoro; le differenze culturali e razziali sono
state interpretate come una delle principali cause della frammentazione
esistente tra i lavoratori americani, e in quanto tali come ostacoli
a una coscienza di classe operaia.


D’altra parte l’etnicità, intesa come
“senso di appartenenza a un popolo” — secondo la definizione semplice
ma utile di Milton Gordon — è stata utilizzata dagli storici come
un concetto chiave nell’interpretazione dell’esperienza degli immigrati.
La formazione delle identità di gruppo e la creazione di infrastrutture
istituzionali sono così diventate temi centrali della storia
dell’immigrazione, trascurando in gran parte gli aspetti di classe. A
partire dagli anni Sessanta, gli studi sull’immigrazione e sul lavoro,
come due navi incrociantisi nella notte, si sono mossi su rotte parallele
ma opposte, nonostante che il loro oggetto di ricerca sia spesso lo
stesso: i lavoratori immigrati, o gli immigrati lavoratori.
Questo articolo si propone di dimostrare che, in entrambe le discipline,
i lavori più interessanti e rilevanti sono nati proprio dall’incontrarsi
di classe ed etnicità. Per motivare questa tesi, con un’attenzione particolare
agli immigranti italiani e ai movimenti operai presenti negli Stati
Uniti, mi propongo di avvalermi delle mie esperienze di storico, di
lavoratore con un’identità etnica e della mia conoscenza della letteratura
sull’argomento.
Recenti sviluppi storici hanno messo in questione alcuni luoghi comuni
riguardanti la natura dei concetti di classe e di etnicità, e impongono
un ripensamento del significato, e addirittura della validità,
di tali concetti. Il crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi comunisti
nell’Europa dell’Est ha dato via libera ad aspirazioni etniche e nazionali e
ha scatenato rivalità che ci ricordano gli anni del primo anteguerra. Dopo
settant’anni di dominio comunista, nel corso dei quali varie generazioni
furono indottrinate secondo il modello marxista-leninista dell’homo sovieticus,
per il quale l’appartenenza alla classe costituiva l’unica fonte
di identità e solidarietà, le popolazioni dell’ex URSS sembrano letteralmente scannarsi su problemi di religione, di cultura, di lingua. Il fallimento
della versione sovietica del melting pot invita a una riflessione:
forse l’etnicità, che ha dimostrato una tale capacità di resistenza e recupero,
è davvero la base della realtà sociale.
A sua volta, negli Stati Uniti, la metafora del melting pot, avanzata la
prima volta da Israel Zangwill, è stata guardata con sempre maggiore
scetticismo, dal momento che il suo messaggio profetico è contraddetto
dalla persistenza innegabile della diversità nella società americana. Un
“nuovo pluralismo” ha preso corpo in campo politico e culturale, e “etnicità”
è diventato un termine comune sia del dibattito accademico che
del linguaggio corrente. A partire dagli anni Ottanta si è sviluppato un
dibattito, che ha assunto toni sempre più aspri, tra i sostenitori del multiculturalismo
e i guardiani dell’identità nazionale americana. Muovendosi
con eclettismo tra teorie postmoderne, poststrutturaliste, semiotiche
e femministe, il multiculturalismo statunitense, nelle sue versioni più estreme,
si propone la trasformazione radicale delle scelte e dei programmi
universitari e di altre istituzioni culturali. Coerentemente al loro progetto
di decostruzione delle fondamenta ideologiche di maschilismo,
razzismo e capitalismo, visti come il segno del predominio euroamericano,
i multiculturalisti privilegiano (per adottare uno dei loro termini
preferiti) le letterature, le storie e le culture dei “popoli di colore” e del
Terzo Mondo. E poiché per definizione gli euroamericani sono stati e
sono tuttora gli oppressori, la loro specifica etnicità viene considerata con
sospetto, come una copertura ideologica del “razzismo bianco”.
Un tale attacco frontale contro il canone e altre venerate tradizioni ha
prodotto la stizzita reazione degli accademici neonazionalisti e di altre
figure di prestigio. Lanciando strali contro “il culto della political correctness”,
costoro si sono precipitati a difendere le “verità eterne” e la civiltà
occidentale. Temendo la “disunione dell’America”, denunciano l’enfasi
posta su identità di gruppo molto particolaristiche; classe ed etnicità, sottolineano,
devono essere subordinate all’unità e all’armonia nazionali.
Viene riproposto il melting pot sia come mito, sia come realtà.
Senza entrare nel merito di queste polemiche, è ovvio che esse sono
significative per gli storici che riflettono sui concetti di classe e di etnicità.
In tutta onestà, devo confessare che trovo entrambi gli schieramenti,
nelle loro ali più estreme, noiosi e deprimenti. Come autore di un contributo
risalente al 1969 sull’etnicità come dimensione dimenticata della
storia americana, e come studioso e insegnante che si è concentrato sul
pluralismo degli Stati Uniti, mi oppongo all’enfasi dei neonazionalisti
sull’unità, carica di accenti sciovinisti. Al tempo stesso, provo un moto
di disgusto di fronte al dogmatismo e all’intolleranza dei più ardenti
multiculturalisti. Sia chiaro: le mie critiche non sono rivolte ai cultural
studies, che hanno prodotto molti lavori innovativi e mi hanno spinto a
considerare nuove idee. La mia obiezione riguarda una formulazione del
concetto di multiculturalismo che relega gli americani di origine europea
nella categoria dei “bianchi” (o persone non di colore) privi di etnicità
e che sottovaluta il significato della classe nella società. Al contrario, i
concetti di classe e di etnicità devono essere salvati e rimessi in funzione come categorie utili per l’analisi storica, sottraendoli alla rovina del
marxismo-leninismo sovietico e alla cacofonia delle “guerre culturali”
americane.
Per definire la mia posizione ritengo fruttuoso considerare tanto la
mia stessa esperienza di vita, quanto la produzione scientifica. Propongo
quindi alcune riflessioni riguardanti il mio rapporto personale e di storico
con le questioni della classe e dell’etnicità. Cresciuto in una cittadina
operaia del Connecticut durante la Grande Depressione, ho conosciuto
la realtà della classe e della lotta di classe prima ancora di aver mai sentito
parlare di Karl Marx. E crescendo in una famiglia di immigrati, ho
conosciuto la realtà dell’etnicità e dei conflitti etnici prima di aver mai
sentito nominare Max Weber. Nel corso degli anni Trenta, Wallingford
ebbe i suoi scioperi, e rimangono vividi nella mia memoria l’eccitazione
e la rabbia provate osservando i picchetti, le risse, le pietre e le imprecazioni
lanciate contro i crumiri. Non avevo dubbi su da che parte stare:
eravamo classe operaia. Mio padre era operaio edile, mia madre operaia
tessile. Al tempo stesso, sapevo che eravamo italoamericani. I miei
genitori erano immigrati decenni prima da Camaiore, in provincia di
Lucca: ma casa nostra aveva un carattere decisamente italiano (o piuttosto
lucchese), nella lingua, nel cibo, nei modi. Wallingford presentava
una complessa realtà etnica: gli yankees nelle grandi case sulla collina, gli
irlandesi e i tedeschi a metà, i polacchi, gli ungheresi e gli italiani (Polacks,
Hunkies, and Wops) nel fondovalle (e al fondo della piramide etnica e di
classe).
In politica, la nostra famiglia non aveva posizioni radicali. Mio padre
era membro di un piccolo gruppo di compaesani socialisti, la cui sede era
nota come Il Piccolo Kremlino; ma il suo giornale era “Il Progresso Italo-
Americano”, di orientamento filofascista. Mia madre, donna religiosa,
aveva un acuto senso della giustizia e uno spirito combattivo. Facevano
parte della Società Libero Pensiero; ho tra i miei ricordi più antichi i picnic,
i balli, i giochi nella sala riunioni della comunità italiana. Non ricordo
discorsi o scritti di carattere anticlericale o radicale; ma c’era nella sala
un ritratto di Giordano Bruno. A quel tempo non avevo idea di chi fosse.
Anni più tardi, a Roma, ho visitato Campo dei Fiori, dove i liberi pensatori
gli hanno eretto una statua. In politica, eravamo democratici che
parteggiavano per il New Deal, e al tempo stesso filofascisti, in linea
con la nostra doppia identità etnica e di classe. Ascoltavamo i discorsi
al caminetto di F.D. Roosevelt, ma anche i discorsi del Duce a Piazza
Venezia. Insieme alle mie sorelle, ebbi esperienza diretta della dolorosa
marginalità delle seconde generazioni: eravamo sia italiani sia americani.
Il mio programma radiofonico preferito era “Jack Armstrong, the All-
American Boy” (allora non sapevo che la voce di Jack era quella di Don
Ameche, italoamericano come me). Come la maggior parte dei figli di
immigrati operai, vissi un periodo in cui cercavo di fuggire dalle mie
vergognose origini straniere e di classe; senza successo. E dopo aver servito
nella Marina statunitense e nel Dipartimento di stato, dopo gli studi
universitari e quarant’anni di insegnamento e di ricerca storica, sono e
rimango, fondamentalmente, un italoamericano di classe operaia.
Questa digressione autobiografica è giustificata dal mio tentativo
di giungere a capire (e a comunicare) gli influssi formativi che hanno
contraddistinto il mio lavoro di storico, e in particolare il mio atteggiamento
nei confronti dell’identità etnica e di classe. Grazie a Eric
Hobsbawm, Stuart Hall e altri, abbiamo imparato a pensare all’identità
non come qualcosa di dato e originario, ma come un’invenzione, costruita
e contrastata. Un simile concetto storicizzato di identità può valere,
da un punto di vista euristico, per il nostro studio su classe ed etnicità.
Tuttavia, mi distacco da quei pensatori postmoderni che considerano
queste identità come pure invenzioni, come miti fabbricati da ideologi
che conquistano le masse corpo e anima in virtù del potere delle parole,
dei simboli e dei rituali. A mio parere, la coscienza, etnica o di classe,
si fonda sulle memorie, tradizioni ed esperienze personali e di gruppo.
Marx e Weber mi hanno fornito vocabolario e teorie con cui interpretare
e articolare le mie esperienze, le quali però sono state mie e sono state
reali. Riflettendo sulle molteplici fonti della mia identità, mi rendo anche
conto che classe ed etnicità non sono depositate in compartimenti stagni,
non sono stratificate nella mia psiche, ma coesistono in una interrelazione
continua: a volte confluendo, altre volte rafforzandosi l’un l’altra,
spesso in conflitto tra loro. Insieme italiano e americano, appartenente
alla classe operaia e alla classe medio-alta, storico e attivista, mi sono
sforzato per tutta la vita di trovare una mediazione e di conciliare questi
aspetti molteplici della mia identità.
Consentitemi di proseguire ancora un po’ in questa vena retrospettiva.
Negli anni Cinquanta, l’università non costituiva un ambiente congeniale
per una persona con le mie idee. In fuga da una Washington in
preda al maccartismo, orfano dei miei ingenui ideali americani, trovai
un’oasi all’Università del Wisconsin, e un maestro in Merle Curti (forse
la scelta di studiare con il professor Curti fu in parte dettata dal mio
subconscio, perché si trattava, a quel tempo, di uno dei pochi storici il
cui nome terminava con una vocale). E anche se su Bascom Hall aleggiavano
ancora i fantasmi di Frederick Jackson Turner e di Charles Beard,
l’interpretazione “consensuale” della storia americana fu ineludibile, anche
in Wisconsin. Curti, che in The Growth of American Thought (1943)
aveva considerato le idee come un elemento determinante delle lotte
sociali, negli anni Cinquanta era impegnato nello sforzo di definire il
carattere nazionale statunitense. Negli anni in cui fui al suo fianco come
assistente, stava scrivendo una storia del filantropismo americano coi
fondi generosi della Ford Foundation.
La storia dell’immigrazione e del lavoro non erano di moda, negli
anni di Eisenhower, quando si preferiva porre l’accento su ciò che gli
americani avevano in comune, e non sulle differenze o sui conflitti. Etnicità
e classe non erano argomenti di discussione nelle educate conversazioni
tra accademici. Ricordo la sensazione che sollevò all’Università
del Wisconsin Howard K. Beale, un distinto studioso della vecchia scuola
storica e tenace sostenitore delle libertà civili, quando, con un atto di
non comune coraggio, invitò lo storico marxista Herbert Aptheker a tenere
una lezione sulle rivolte degli schiavi. Eppure proprio gli storici formatisi in quegli anni, allievi perlopiù di Oscar Handlin e di Merle Curti,
sarebbero diventati gli studiosi più in vista in quei campi (penso, tra
gli altri, a John Higham, Herbert Gutman, Moses Rischin, David Brody,
Charlotte Erikson, Rowland Berthoff, Arthur Mann, David Montgomery
e A. William Hoglund). Insomma, qualcosa stava senza dubbio “soffiando
nel vento”.
Quando si trattò di scegliere un argomento per la mia tesi, le mie
identità nascoste vennero allo scoperto cogliendo un soffio di quel vento.
Evitai una borsa di studio sulla storia della filantropia e scelsi una ricerca
di storia del movimento operaio con Selig Perlman, allora nella fase conclusiva
della sua carriera, che era stato allievo di John R. Commons e suo
successore alla testa della “Scuola del Wisconsin”. Ebreo russo, Perlman
aveva preso parte alla rivoluzione del 1905 prima di fuggire in Italia,
dove era stato “scoperto” dall’esponente socialista americano William
English Walling, che l’aveva mandato a studiare con Commons in Wisconsin.
Qui Selig insegnò marxismo al suo maestro. Ma fu Perlman, infine,
a convertirsi all’interpretazione commonsiana della storia del movimento
operaio negli Stati Uniti. Secondo questa interpretazione, il sindacalismo
di mestiere si addiceva al contesto americano in quanto i lavoratori
statunitensi non avevano coscienza di classe, ma una forte “coscienza
del posto di lavoro” (job consciousness). Nel suo A Theory of the Labor
Movement
(1928), Perlman rifletteva sulle cause dell’eccezionalismo statunitense:
la frontiera, l’immigrazione, il suffragio ai maschi bianchi, il
potere del capitalismo. Nelle sue lezioni, in cui risuonava il suo forte
accento, Perlman faceva continuamente riferimento al lavoratore-tipo,
identificato nella triade “Tom, Dick, and Harry”, il che non mancò, in
seguito, di colpirmi, in quanto tra gli operai americani erano molto più
comuni nomi come Isadore, Giuseppe e Katerina. In ogni caso, questo
consente di farsi un’idea della visione che Commons e Perlman avevano
dei lavoratori come uomini “economici” (le donne non entravano a far
parte della loro storia) senza cultura o comunità, cioè senza etnicità, ma
anche senza solidarietà di classe. Perlman condivideva poi l’antipatia di
Samuel Gompers per gli intellettuali, visti come traditori dei lavoratori.
Il fallimento di organizzazioni operaie come il Socialist Labor Party e gli
Industrial Workers of the World era attribuito agli intellettuali radicali
che spingevano i lavoratori a seguire i loro progetti sballati e utopici. Ma
quello che avevo imparato a Wallingford su etnicità e classe faceva sì che
mi opponessi alla teoria di Selig Perlman.
Forse fu proprio l’anti-intellettualismo che pervadeva la scuola di
Commons e Perlman, in strana sintonia con il maccartismo, a stimolare il
mio interesse nel ruolo degli intellettuali all’interno del movimento dei
lavoratori, portandomi al Brookwood Labor College (BLC). La personalità
di spicco nella scuola, inaugurata negli anni Venti per “addestrare”
lavoratori di base al ruolo di leader, era A. J. Muste, pastore della Chiesa
Riformata, nato in Olanda, pacifista durante la prima guerra mondiale,
quindi passato al marxismo. Avrei incontrato nuovamente Muste
quando mi trovai a scrivere sullo sciopero di Lawrence del 1919, evento
del quale egli era stato uno dei maggiori protagonisti. Dopo un intenso lavoro iniziale di ricerca, scoprii che gli archivi del College si trovavano
nella cantina di Mark Starr, già insegnante a Brookwood, e quindi
responsabile educativo dell’International Ladies’ Garment Workers’
Union. Temendo che il materiale potesse essere utilizzato contro ex studenti
del College, nel frattempo assurti a posizioni di rilievo nel movimento
sindacale (era ancora in corso la caccia alle streghe contro i comunisti),
Starr rifiutò di farmi consultare il materiale. E ciò pose termine al
mio primo tentativo di trovare un argomento di tesi.
A questo punto uscì allo scoperto un altro aspetto della mia identità;
decisi di condurre una ricerca sull’immigrazione italiana, in particolare
sugli italiani di Chicago. Dal momento che a quel tempo la storiografia
sull’argomento era del tutto inesistente, ebbi la fortuna e l’emozione di
scoprire molte cose nel corso della ricerca. La prima, che in verità non
mi sorprese, fu che la grande maggioranza degli immigrati italiani era
composta da lavoratori dipendenti, spesso occupati ai gradini più bassi.
Un’altra, che invece mi sorprese, fu il livello del loro attivismo politicosindacale.
Già nel corso della Esposizione colombiana del 1893, gli stuccatori
italiani avevano dato vita a un sindacato, la Società degli Stuccatori
e Decoratori Italiani di Chicago, e avevano lottato con successo per
l’aumento dei salari. Sindacati di lavoratori italiani erano stati costituiti
non solo tra i mosaicisti e altre maestranze specializzate, ma anche tra
manovali muratori e scavatori. Ai primi del Novecento avevano fatto la
loro comparsa a Chicago anarchici e socialisti italiani. Giuseppe Ciancabilla,
uno degli anarchici più feroci, pubblicava “La Protesta Umana”,
sulle cui colonne vennero celebrati gli assassini del re Umberto e del
presidente William McKinley. La Federazione Socialista Italiana, affiliata
all’American Socialist Party, aveva il suo quartier generale a Chicago,
dove il suo leader, Giuseppe Bertelli, aveva pubblicato sin dal 1908
“La Parola dei Socialisti” (di cui sono riuscito a recuperare in un garage
l’unica collezione sopravvissuta). Quando, nel 1910, ebbe luogo un
grande sciopero nell’industria tessile, che si concluse con la fondazione
dell’Amalgamated Clothing Workers of America, Bertelli, ex ufficiale di
cavalleria e giornalista toscano, insieme a Emilio Grandinetti, giornalista
e socialista calabrese, si affermarono come leader dei lavoratori italiani.
Ebbi la fortuna di intervistare Grandinetti, il quale mi spiegò come, trovandosi
a tradurre il discorso di un attivista IWW ai sarti italiani, l’avesse
reso conforme alle sue posizioni politiche.
Nel corso delle mie ricerche a Chicago, mi imbattei nella storia sommersa,
a dire il vero soppressa, della sinistra italoamericana. Avevo trovato
un argomento che coincideva con le due fonti principali della mia
identità: la storia della classe operaia italoamericana, che mi tenne occupato,
a fasi alterne, per i successivi trent’anni.8 Imparai ben presto
che era difficile attingere alle fonti per una ricerca sull’immigrazione
di sinistra. Le maggiori istituzioni non avevano collezioni delle numerose
pubblicazioni radicali; numeri a caso erano sopravvissuti fortunosamente
in biblioteche americane e italiane. Ho avuto la sola collezione
esistente del giornale sindacalista rivoluzionario e IWW “Il Proletario”
da uno dei suoi ultimi redattori, Mario De Ciampis. Grazie allo storico
dell’anarchismo Max Nettlau, la stampa anarchica italiana venne sistematicamente raccolta e depositata nell’International Institute of Social
History, di Amsterdam. Oggi, microfilm di queste pubblicazioni e della
maggior parte degli altri giornali operai italiani sono disponibili presso
l’Università del Minnesota, all’Immigration History Research Center
(IHRC). Le ricorrenti ondate repressive, le Red scares, e le conseguenti
paure di possibili deportazioni e incarceramenti, portarono alla distruzione
degli archivi delle organizzazioni e delle carte personali. Carlo
Tresca raccomandava ai suoi compagni di bruciare la corrispondenza;
ne consegue che solo poche delle sue lettere sono giunte sino a noi. Ma si
conservano alcune commoventi lettere d’amore indirizzate a Elizabeth
Gurley Flynn, tra le carte della destinataria alla Tamiment Institute Library
della New York University.
Ciò nonostante importanti raccolte sono tornate alla superficie in
anni recenti. Il già ricordato IHRC, per esempio, conserva le carte di
Nino Capraro, il quale non buttò via mai niente, che documentano il suo
percorso radicale di anarchico, leader operaio e comunista, come pure
materiali attinenti alle attività di altri socialisti, sindacalisti, antifascisti.9
Ad Amsterdam è possibile trovare le rare lettere di anarchici come Luigi
Galleani, o la vasta produzione di Erasmus Abate (alias Hugo Roland),
un protagonista del movimento anarchico italoamericano dal 1910 al
1980. Tra le fonti più ricche di documentazione sui movimenti operai
italoamericani vanno comunque ricordati gli archivi nazionali italiani
e statunitensi. Il Secret Service, in un primo tempo, e quindi il Bureau
of Investigation (più tardi FBI), continuarono a sorvegliare anarchici e
“rossi”. I loro casellari comprendono corrispondenza intercettata, copie
di pubblicazioni, rapporti di informatori (questi ultimi di dubbia attendibilità).
Da parte sua, anche il governo italiano teneva d’occhio l’attività
di questi “sovversivi pericolosi” attraverso i suoi consolati. Il Casellario
Politico Centrale conserva dossier su migliaia di italiani negli Stati Uniti:
per alcuni si tratta di un solo foglio di carta, per altri, come Carlo Tresca,
il fascicolo può avvicinarsi a un metro di lunghezza. Materiali di altra
natura (lettere intercettate, pubblicazioni, ecc.) possono essere reperiti
nell’Archivio Centrale dello Stato e nell’Archivio Storico del Ministero
degli Affari Esteri. In breve, nonostante le distruzioni e l’oblio, è giunta
sino a noi una documentazione straordinariamente ricca sulle organizzazioni
operaie italiane negli Stati Uniti.
La ricerca e scoperta della documentazione ha rappresentato per me,
nel corso di alcuni decenni, una fonte di particolare soddisfazione. Mi
sono sentito nella posizione di un archeologo i cui scavi portino alla luce
civiltà sepolte. Nel mio caso, tuttavia, il radicalismo italoamericano era
stato deliberatamente “seppellito” dalle istituzioni ufficiali, le quali, attraverso
l’effettiva distruzione o la scarsa cura dei documenti, avevano
cercato di cancellare dalla storia americana questo capitolo della lotta etnica
e di classe. Inoltre, la storia di questi movimenti di operai immigrati
era stata “dimenticata” anche dagli stessi italoamericani — un esempio di
“amnesia storica” che conferma l’osservazione freudiana secondo cui il
dimenticare è l”’evitare il dolore del ricordo”. Sottoposti alle pressioni
derivanti dall’Americanismo al cento per cento e dalla “caccia ai rossi”
(non ci siamo ancora resi pienamente conto dell’impatto sulla psiche
collettiva degli italoamericani dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti: una
persona mi riferì un giorno che quando vennero giustiziati sulla sedia
elettrica, le luci si abbassarono anche a Wallingford, Connecticut), gli
italoamericani furono corresponsabili nella cancellazione del radicalismo
dalla loro storia.
Per fare un esempio: all’inizio del secolo il paese di Barre, nel Vermont,
era stato teatro di vigorosi movimenti socialisti e anarchici di matrice
italiana, e anche di scontri sanguinosi tra loro. Luigi Galleani, uno
dei leader internazionali degli anarchici antiorganizzativisti pubblicò
qui la sua “Cronaca Sovversiva”, dal 1903 al 1910. Eppure, quando
visitai Barre nel 1989, seguendo le tracce di Galleani, nessuna delle persone
che intervistai (compresi alcuni ottuagenari) lo ricordava; pochi
avevano voglia di parlare del passato radicale di Barre. Dei più di
quattrocento numeri della “Cronaca Sovversiva”, solo uno era riuscito
a raggiungere la Aldrich Public Library. A Barre come altrove, ho incontrato
persone che negavano che i loro padri fossero stati anarchici o
socialisti, oppure che rifiutavano categoricamente di parlarne con me.
Le conseguenze psicologiche sui figli di famiglie considerate “rosse”
devono essere state particolarmente gravi.
Nonostante questo muro di silenzio, un argomento come quello dei
movimenti di classe italoamericani, che decenni fa era ancora del tutto
sconosciuto e che a dire il vero appariva un oggetto impossibile di ricerca,
è diventato ora un campo aperto agli studiosi. Eppure pochi ricercatori
americani hanno mostrato di saper cogliere questa opportunità,
questa sfida. La bibliografia degli studi italoamericani, negli ultimi
vent’anni, si è enormemente accresciuta: ma il suo oggetto preferito resta
lo studio delle comunità, che tende a concentrarsi sullo studio dei modelli
di insediamento, delle istituzioni, della mobilità sociale, prestando
poca o nessuna attenzione ai movimenti o alle lotte di classe. Il fatto che
gli storici italoamericani abbiano prestato così scarsa attenzione a questa
dimensione dell’esperienza italoamericana solleva alcune interessanti
domande. È significativo che l’argomento abbia ricevuto una maggiore
attenzione da parte degli studiosi italiani, e non solo a causa della reperibilità
delle fonti in Italia. Ad esempio, gli italiani hanno utilizzato
la documentazione dell’IHRC più dei loro colleghi italoamericani.
Come si spiega questa anomalia? Mi vengono in mente parecchie possibili
spiegazioni. In quanto membri di un gruppo etnico che è riuscito
solo da poco nell’impresa di “farcela”, gli italoamericani sono rimasti
bloccati all’idea fissa dell’assimilazione e della mobilità sociale; e ritengo
che a un certo livello essi temano le stigmate delle simpatie radicali, una
condanna così radicata nella psiche americana. Da parte loro, invece, gli
storici italiani non solo sono stati influenzati dalle dominanti ideologie
della sinistra prevalenti negli ultimi decenni e da un deciso orientamento
verso un modo di fare storia “dal basso”, ma sono privi di questi particolari
complessi.
Non ho qui intenzione di ridurre l’importanza della ricerca sulla storia operaia italoamericana prodotta dai relativamente pochi studiosi statunitensi
(e italoamericani) che si sono mossi in questa direzione. Non
è possibile qui fornire una rassegna bibliografica sull’argomento; ma
vanno ricordati, in particolare, i contributi di Edwin Fenton, Paul Buhle,
Donna Gabaccia, Paul Avrich, Nunzio Pernicone e Bruno Ramirez.
Personalmente, considero uno studio come quello di Gary Mormino
e George Pozzetta, The Immigrant World of Ybor City: Italians and their
Latin Neighbors in Tampa, 1885-1985
(1987), come un modello per lo
studio dell’intreccio dei rapporti tra classe ed etnicità nella formazione
dell’identità tra i lavoratori immigrati. Mormino e Pozzetta mostrano
come i sigarai cubani, spagnoli e siciliani si siano fusi in una comune
cultura operaia “latina”. Portatori delle varie esperienze dei movimenti
socialisti dei paesi d’origine (i siciliani, ad esempio, erano stati influenzati
dal movimento dei Fasci di fine Ottocento), e destinatari dello
sfruttamento e dell’ostilità degli “Anglos”, questi lavoratori forgiarono
una più ampia solidarietà, basata sulle aspirazioni e le rivendicazioni
comuni. Una figura importante e influente era el lector, il quale leggeva ai
lavoratori i romanzi di Zola, Hugo, Cervantes, le opere di Marx, Bakunin
e Kropotkin, e la stampa radicale, fornendo in tal modo un’espressione
articolata e contenuti ideologici alla loro coscienza di classe. Ma i messaggi
ideologici suonavano veri poiché confermavano la realtà della lotta
di classe: Mormino e Pozzetta identificano nei numerosi scioperi “il
principale crogiolo della formazione culturale all’interno di Ybor City”.
The World of Ybor City serve anche da modello per studiare come i conflitti
e le affinità tra lavoratori di varie nazionalità, culture e razze abbiano
condizionato la formazione di identità etniche e di classe. Considerato
che la classe operaia negli Stati Uniti, nella stragrande maggioranza dei
luoghi e delle occasioni, è stata multietnica, si rendono necessari ulteriori
studi di questo tipo. Ed essendo uno dei temi più rilevanti della storia
dell’immigrazione e del lavoro in America quello delle contrastanti tendenze
verso la solidarietà di classe, da un lato, e la frammentazione etnica,
dall’altro, la prospettiva interetnica di Mormino e Pozzetta è irrinunciabile.
Chiudo con un ultimo aneddoto. Mio nonno materno, Luigi Palermini,
guardacaccia nella proprietà padronale, venne assassinato. Non
riuscimmo mai a scoprire l’assassino, né i motivi che portarono alla sua
uccisione, ma si può ipotizzare che un contadino povero fosse stato colto
con le mani nel sacco da “Gigi la Guardia” — com’era soprannominato
— mentre rubava. In un certo senso, mio nonno può essere considerato
come vittima di una ininterrotta guerra di classe. Mia nonna morì poco
dopo, lasciando mia madre Settima e i suoi sette fratelli e sorelle nelle
mani di un parente più anziano. Il carico della famiglia ricadde sul fratello
maggiore, Michele, che lavorava in una segheria. Il 20 maggio 1903,
mentre Michele partecipava alla festa di Sant’Eustachio a Pieve di Camaiore,
due ubriachi vennero alle mani. Quando due carabinieri intervennero
con la forza per separarli, la folla si rivoltò contro di loro; a quel
punto uno dei due militi cominciò a sparare sulla gente. Vennero ammazzate
tre persone, compreso mio zio. Michele fu un’altra vittima della
guerra di classe. La sera stessa i socialisti assediarono la caserma dei
carabinieri di Camaiore. Uno zio, che era stato nominato tutore, vendette
le terre della famiglia e fuggì in Canada, lasciando i nipoti nella miseria.
Mia madre, che allora aveva dieci anni, entrò al servizio di una famiglia
di possidenti; vi rimase sino al 1917, quando, morto in guerra il primo
fidanzato, emigrò negli Stati Uniti per sposare mio padre, emigrato alcuni
anni prima.
Può forse bastare come esempio di tradizione orale familiare. Nel
1973, alla Biblioteca Nazionale di Firenze, mi imbattei in un accenno a
una serie di sommosse verificatesi in Italia all’inizio del secolo, che erano
state brutalmente represse e avevano contribuito a innalzare la tensione
tra le classi. Tra queste si menzionava l’incidente di Pieve di Camaiore.
Fu come se si accendesse una luce. Cercai i giornali dell’epoca, e sulla
“Nazione” di Firenze del 22 maggio 1903 trovai un articolo intitolato
“Sanguinosa rivolta a Pieve di Camaiore”. La cronaca confermava in
ogni dettaglio la storia di mia madre. Rendendo pubblici questi frammenti
di tradizione familiare vorrei alludere a come noi stessi siamo,
volenti o nolenti, parte della storia che studiamo, a come la storia privata
si fonda inevitabilmente con la storia pubblica.
L’emigrazione di massa, come la gran parte dei movimenti rivoluzionari,
fu l’espressione delle tensioni sociali presenti in Italia a cavallo dei
due secoli. In quanto parte in causa in questi avvenimenti, gli immigrati,
compresi i miei genitori, portarono con sé in America nozioni, sia pure
rudimentali, delle realtà di classe e di etnicità. Qui esse si svilupparono
in principi di identità etnica e di classe, nello scontro con le realtà dello
sfruttamento industriale e del razzismo e nel rapporto con gli ideali della
democrazia e dell’avanzamento sociale. La costruzione di quelle identità
è stata un processo ininterrotto che si è protratto per numerose generazioni.
Un processo in cui gli immigrati italiani non sono stati semplicemente
i destinatari passivi di messaggi culturali, ma protagonisti, filtrando
quei messaggi a partire dalle loro personali esperienze, memorie,
valori.
Per gli storici del lavoro e dell’immigrazione è necessario scandagliare
con maggiore sensibilità e creatività le fonti dell’identità etnica e di
classe. È anche necessario riconoscere che l’identità personale è un tutto
nel quale etnicità e classe costituiscono aspetti inseparabili, anche se a
volte in conflitto tra loro, che vanno tenuti in conto nel corso delle ricerche.
Tuttavia, purtroppo, né il multiculturalismo all’americana, né il
neonazionalismo ci possono essere d’aiuto in questo compito, poiché si
rifanno entrambi a progetti politici che negano il diritto della persona
all’autodeterminazione nel percorso formativo della propria identità. Sia
gli uni che gli altri, per esempio, negherebbero la mia dignità di italoamericano
proveniente dalla classe operaia. Spetta a quelli tra noi che si
oppongono ai dogmatismi di questo tipo salvare e ridare senso ai concetti
di classe e di etnicità, come utili e preziose categorie dell’analisi
storica.