di Wainer Marchesini

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“[…] la razionalità tecnologica protegge piuttosto che abolire la legittimità del dominio, e l’orizzonte strumentale della ragione si apre su una società razionalmente totalitaria.”

È opinione di chi scrive che il dominio del capitale si eserciti oggi nel modo totale che ben conosciamo sulla base di alcuni concetti forti, operanti nei diversi ambiti di competenza come estensioni di un unico progetto ideologico ben strutturato, anche se talvolta apparentemente contraddittorio.
Ci troviamo così di fronte, nella sfera economica, a una progressiva smaterializzazione della produzione; alla sostituzione della produzione di informazione a quella di beni materiali; al costante aumento del peso delle operazioni finanziarie sull’insieme dell’interscambio economico mondiale. D’altro canto, le ragioni della produzione di beni continuano a determinare in modo decisivo le modalità di sviluppo, ponendo le basi per nuovi modelli di organizzazione della produzione che si trasformano in paradigmi ideologici trasferibili e applicabili all’intera società. Non solo: la tendenza alla minimizzazione dei costi di produzione sta determinando una gigantesca redistribuzione del lavoro a livello mondiale, con forti scompensi sia nei paesi dell’OCSE che nei paesi del Terzo Mondo in cui le produzioni vengono decentrate.


Nella sfera sociale, la coesione viene assicurata, dopo il crollo del Muro di Berlino, da politiche sociali ed economiche escludenti che creano masse sempre più ampie di reietti, sia a livello planetario che nei paesi “sviluppati”, la cui esistenza viene fatta percepire come la minaccia per eccellenza alle popolazioni della metropoli imperiale immiserite economicamente e psicologicamente.
Infine, nella sfera politica, l’immaginario collettivo viene colonizzato dal pensiero unico, micidiale mix di primato del mercato e della impresa, di tecnocrazia e di economicismo nel senso più deteriore, altare su cui vengono sacrificate le condizioni di vita, se non la vita stessa, delle masse. Abolita la possibilità finanche di pensare a un’alternativa, il consumo diviene contemporaneamente instrumentum regni e sola valvola di sfogo alle tensioni generate dall’asservimento totale alla logica del capitale, della precarizzazione e della competitività.
Un unico progetto ideologico attraversa e unifica tutti questi aspetti della supremazia del capitale; il dramma è che la sconfitta e la subalternità della sinistra, specie in Italia, sono tali che per coglierne la portata, od anche solo per descriverne le tendenze totalitarie, siamo costretti a ricorrere ad analisi provenienti dai settori più avanzati della borghesia, come l’équipe di Le Monde Diplomatique, o a libri e autori, come Marcuse, relegati nel dimenticatoio dalle correnti di pensiero dominanti, anche nella sinistra.
L’uomo ad una dimensione esce negli Stati Uniti nel 1964 ed in Italia nel 1967; l’asse portante dell’opera è costituito dalla denuncia della reificazione, dell’unificazione ideologica sotto il segno del capitale di tutti gli aspetti della vita e della percezione del mondo, e dell’alienazione che ne consegue.
Punto di partenza è la condizione dell’individuo nel mondo del capitalismo avanzato: una società che, sotto l’apparente omaggio alla libertà e all’individualismo, genera repressione e sofferenza psicologica: in ultima analisi non-libertà e massificazione. Marcuse mette in luce come questo avvenga sia sul piano ideologico, con la costruzione di un sistema di pensiero unitario e coerente, organico al sistema capitalistico, che sottende ed integra i vari aspetti di quest’ultimo (la politica, l’economia, la tecnologia, la scienza), che sul piano della prassi, con la creazione di un sistema di bisogni repressivi e di un nemico esterno, come garanzia di coesione sociale.
Questo sistema di dominio risulta unitario e coerente nella misura in cui espunge qualsiasi elemento che lo possa invalidare, o che possa mettere in discussione le realizzazioni pratiche che da esso discendono; la critica perde diritto di cittadinanza, le possibilità di un’alternativa storica all’esistente vengono confinate, quando va bene, nel regno della speculazione astratta e della fantasia.
È difficile non cogliere come i problemi posti da Marcuse siano, alla radice, gli stessi con cui ci dobbiamo misurare oggi. È sorprendente, anzi, come certe linee di tendenza da lui identificate si rivelino assai più attuali oggi di quanto non lo fossero all’epoca in cui L’uomo ad una dimensione fu scritto, a cominciare dal problema del significato della tecnologia nella società affluente.
Parlavo all’inizio di tecnocrazia per denotare da un lato la non neutralità della tecnologia (e della scienza su cui essa è basata) in quanto consustanziale al sistema di pensiero dominante, e dall’altro il suo carattere normativo, che trae le sue giustificazioni dalla superiore capacità di organizzare in modo efficace la lotta per l’esistenza.
Ma che significa “efficace” in questo contesto? Nel mondo dell’obsolescenza programmata e del predominio della merce questa parola esprime la razionalizzazione massima dello sforzo produttivo, la massimizzazione della produttività, deprivate di ogni significato di liberazione, individuale o collettiva, di “pacificazione dell’esistenza”, per usare l’espressione marcusiana. La tecnologia diviene strumento di dominio sia in modo immediato, in quanto manifestazione visibile della potenza e della superiore razionalità del sistema, che in modo mediato, in quanto fornisce i mezzi per la mutilazione dell’essere umano nella sua interezza ontologica, attraverso la creazione di bisogni artificiali, strumento per eccellenza del “contenimento”, di repressione non dispiegata. Nella misura in cui il dominio si pone come unica alternativa possibile, e nella misura in cui tende a pervadere, attraverso il ciclo allargato della merce, l’intera sfera della produzione e della riproduzione, il capitalismo tecnocratico si configura come sistema autenticamente totalitario.
La distinzione tra i bisogni “veri” dell’individuo e quelli indotti è centrale in Marcuse, e continua a esserlo oggi. Anche se la prospettiva di promozione sociale delle classi pericolose (in Marcuse uno dei veicoli principali attraverso cui il dominio riesce ad irretire e a mantenere legate a sé le classi subalterne) sembra sfumare, ridotta ad uno dei tanti lasciti della guerra fredda con la sua necessità di dimostrare la superiorità dell’occidente nel garantire migliori condizioni materiali di vita alle masse; anche se l’esclusione si profila sempre più come il nuovo paradigma del controllo sociale, e il formarsi di strati sempre più ampi respinti ai margini dello sviluppo e della stessa sopravvivenza diviene per il capitale un costo accettabile sulla strada del governo dell’economia nell’era della mondializzazione; malgrado tutto ciò, il consumo, la merce, proiettata nell’immaginario collettivo come paradigma stesso del capitalismo, continuano ad essere strumenti formidabili per mascherare le contraddizioni del capitale e disinnescare le potenzialità critiche delle masse: la merce diviene il feticcio in cui sublimare paure, ansie e insoddisfazioni, salvo trovarsi (subito dopo avere acquistato quel bene che dalla vetrina ammiccava promettendoci l’affrancamento dal nostro disagio esistenziale) frustrati e impotenti quanto prima, altrettanto impossibilitati a determinare in alcun modo la nostra esistenza.
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Poco importa che il consumo significhi sempre più consumare merda, e perdipiù differenziata per classi sociali (made in Taiwan per il popolaccio, made in Japan per i ceti medi o aspiranti tali e made in Germany per le élites): i modelli di riferimento, gli universali del consumo restano gli stessi, e funzionano come l’elemento unificante per eccellenza di un mondo in disgregazione, agenti della colonizzazione dell’immaginario collettivo.
L’enorme aumento della capacità umana di servirsi della tecnologia per migliorare le proprie condizioni di vita e le prospettive di liberazione aperte dall’aumento della produttività vengono così violentate e snaturate, utilizzate non per l’affrancamento dell’uomo dalle servitù e dalla fatica ma per perpetuare e consolidare un sistema di potere.
Qui sta, nel ’64 come oggi, la grande capacità del capitale: nel farsi luogo della conciliazione (apparente) delle contraddizioni senza mascherarle: proponendo anzi l’apparente contraddittorietà come razionalità assoluta, condizione sine qua non per l’aumento del “benessere” drogato e dei consumi.
Per raggiungere quest’obiettivo, l’uso del linguaggio è fondamentale. Alle parole viene impressa una torsione in modo da depurarle di ogni valenza problematica e conoscitiva. Il linguaggio non è più frutto di un processo storico, e come tale portatore ed oggetto, allo stesso tempo, di una critica dell’esistente, ma è una semplice accozzaglia di significanti che valgono solo ed esattamente per ciò che rappresentano in modo immediato. Viene così a cadere la stessa possibilità di esprimere la critica all’esistente, e il linguaggio si trasforma in uno dei più potenti baluardi dell’ordine costituito. È un fenomeno che tutti ci troviamo ad avere sperimentato, solo che si sia tentato qualche volta di parlare con qualche esponente della cosiddetta “gente comune”: il restringimento del significato, la messa in discussione della legittimità stessa del pensare a un’alternativa all’esistente rende difficile la comunicazione, e quasi impossibile intendersi sul senso delle parole e dei fatti che queste descrivono. Si apre così la strada, abolendo il contraddittorio, all’affermazione incontrastata del pensiero unico.
Ma se l’universo mondo è per definizione pacificato ed se il verbo del capitale (che differiva peraltro, come abbiamo visto, dall’universo di discorso proprio dell’URSS solo in termini di declinazione di un paradigma comune orientato contro la liberazione dell’individuo) è ormai l’unico riferimento possibile, come si spiega il perdurare di tensioni internazionali, di guerre, il fiorire di “nemici dell’occidente” in ogni parte del globo? Come si spiega il ricorrente “pericolo nero” che a intervalli più o meno regolari esce dai ghetti americani a turbare la middle class bianca, anglosassone e protestante, come si spiegano, più modestamente, i fantasmi che si agitano ovunque si dia la presenza dell’estraneo, del diverso?
Naturalmente, esistono interessi materiali che spingono a ricercare e a creare nemici nelle zone del globo in cui siano in ballo gli interessi geopolitici dell’occidente. La questione non è tuttavia limitata a ciò. C’è una tendenza connaturata, una necessità, per il capitalismo tecnocratico: l’esistenza di un nemico come motore dello sviluppo. Se con la fine dei blocchi la preparazione della guerra nucleare, vista da Marcuse come una delle basi della affermazione della razionalità tecnologica, viene ad assumere un posto diverso nel contesto globale, la necessità dell’esistenza di un nemico si fonde con la logica dell’esclusione, generando e diffondendo angosce più adeguate e più funzionali alle esigenze del mantenimento e della crescita autoreferenziale dell’apparato produttivo e ideologico.
Di fronte a questa situazione è necessario riaffermare in primo luogo la legittimità e la necessità di una visione critica e dialettica della realtà, compito e ragion d’essere storicamente propri della sinistra e che sono stati completamente abbandonati come concezioni fondanti dalla pseudosinistra diessina, in nome della gestione (certo il più “nuova” e “onesta” possibile!) dell’esistente; ridare corpo e fiato a un discorso che colga le contraddizioni e la progressiva disumanizzazione di un sistema che, rispetto agli anni ’60, ha ulteriormente inasprito, se possibile, le sue caratteristiche repressive ed esproprianti.
Dopo i guasti prodotti dallo snaturamento del comunismo a opera del sistema sovietico occorre però porre la questione in termini nuovi: in questo Marcuse e altri autori, profeti inascoltati di una sinistra diversa e possibile, possono esserci d’aiuto. Si tratta di riaffermare il diritto alla libertà e alla felicità dell’uomo inteso sia come membro di una collettività che come singolo, come individuo. Si tratta di respingere le interpretazioni meccanicistiche, la mentalità neopositivista, il facile mito della fine della storia e dell’immodificabilità delle basi di un sistema sociale che, questo sì, continua a seminare “miseria, terrore e morte”. La credibilità di un rivoluzionario si misura oggi sulla capacità di rappresentare e di rendere credibile la possibilità di far nascere un mondo in cui, non solo come masse ma anche come individui, si possa giungere a quella “pacificazione” che Marcuse indica come più alto obiettivo a cui possa tendere il genere umano.