di Danilo Arona

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Il sette dicembre del 2002 un italiano infelice e psichicamente disturbato, Stefano Savorani di 29 anni, s’impicca nella cella di un inferno terrestre vergognosamente descritto come “prigione”, il carcere Saint-Paul di Lione. Due giorni prima, in quella stessa cella, era stato trovato cadavere l’occasionale compagno di pena di Savorani, il francese trentacinquenne Christian Abest, deceduto per edema polmonare. Attorno alla testa Abest aveva un sacchetto di plastica così come altre buste erano sparpagliate per terra, sul pavimento della stanzetta. Savorani aveva dichiarato al secondino, Albert Malraux, che Abest e lui, con quelle borse, avevano giocato a “Casper il fantasma”. La guardia carceraria, intervistata al riguardo, aveva spiegato che “Casper”, all’interno del Saint-Paul come in tante altre prigioni, è un gioco a sfondo sessuale: i detenuti si stringono sacchetti di plastica sulla testa per prolungare l’orgasmo. “S’infila la testa nel sacchetto e ci si lascia soffocare sino a quando si resiste”, riportava Malraux. “Si prova lo sballo della perdita di coscienza e si provoca anche l’erezione, essenzialmente si tratta di un gioco sessuale. Anche questo è il carcere”.

Stefano Savorani, hanno scritto i giornali, è stato trovato appeso a un cappio che si è fatto da solo, strappando pezzi di lenzuolo. Secondo me non è andata così. Secondo me Malraux ha scoperto Savorani senza vita con la testa, pure lui, infilata in un sacchetto di plastica.
Per motivi legali non posso usare nomi e cognomi veri. Né tanto meno ambientare il racconto al Saint-Paul. Ma, in qualsiasi inferno si collochi la storia, ogni guardia carceraria sa che “Casper” non è un soltanto un rozzo e approssimativo “gioco sessuale”. Ogni secondino è ben consapevole che, in qualunque galera del mondo tu stai marcendo, se ti stringi al collo una borsa di plastica, c’è chi può arrivare dall’ombra e reclamare la tua vita.

Sì, esistono un sacco di storie su questo posto schifoso. Posso parlarti solo di quelle che circolavano da quando ho messo il piede qui dentro nel 1995. Già allora un sacco di gente si fotteva da sola nei modi più fantasiosi. Ne avevano ben donde, poveri bastardi. La Rocca, già allora, faceva paura a Dio. Dopo la prima notte di sorveglianza, lo giuro, ho vomitato per due giorni di seguito.
Quando la merda è metafisica, si rimpiange quella autentica, te lo garantisco. Anche se ci cammini dentro.
Cosa voglio dire?
Mettiti nei miei panni, amico. Non voglio darti ad intendere che uno diventa agente di custodia per vocazione. Lo fai perché è un lavoro. Indecentemente pagato, ma più o meno assicurato quando finalmente riesci ad infilarti in quelle divise del cazzo. E, insomma, non è che ci credi, ma vuoi guadagnarti il pane alla meglio. Non per avere encomi da leccaculo, ma solo perché sei nato scrupoloso.
Così, quando arrivi qui per la tua prima notte, ecco che butti tutti i buoni propositi nella tazza del cesso. Perché, come calano le tenebre e nei corridoi resta solo più accesa la piccola luce dell’emergenza notturna, senti questo rumore spaventoso che ti annuncia il loro arrivo: ratti, scarafaggi, varani e gechi che prendono ad animare le nottate dei poveri cristi che stanno in cella e per i quali i pidocchi che infestano i giacigli cominciano persino a diventare fonte di godimento. La merda, non quella metafisica, che esce dai sanitari e invade i camminamenti perché proprio quella notte si blocca il sistema di scarico affinché i detenuti possano pisciare e cagare solo quando lo stabilisce il sistema, cioè il mattino alle sei. E noi che camminiamo nella merda con gli stivali al ginocchio e una puzza orripilante che t’invade le narici e l’anima. Poi, quando inizi il giro con la precisa istruzione di non farli addormentare del tutto (se uno russa troppo forte, picchia con il manganello sulle sbarre, Malraux!), comincia il viaggio nell’incubo. Se è il primo dei tuoi viaggi, vomiti per due giorni, te l’ho già detto.
Perché?
Come perché? Mai sentito niente, qui fuori?
Allora, cammini in questa palude di sterco e fai il tuo dovere, vale a dire punti la pila verso il buio delle celle. E via, una bella mostra di quadri dall’inferno. La via crucis dell’orrore. Ferite emorragiche di sieropositivi. Detenuti che ingoiano lame di rasoio, lenti di vetro degli occhiali, chiodi, monete, viti, bulloni. Sodomie di gruppo. Gente che si fa le seghe e ti tira addosso lo sperma. E dopo un po’ la tua guida, “il vecchio” che ti spiega i segreti notturni della Rocca e che ti mette una mano sulla spalla e ti svela sogghignando che “siamo giunti al reparto travestiti”.
Ah, che ridere…Non c’è nessun travestito, sai, al reparto travestiti. Sembrano tutti normali, anzi sembrano più normali loro di noi e degli altri compagni di sventura. Solo che, quando ci vedono (e io mi accorgo che non stanno affatto tentando di dormire), si buttano in ginocchio e ci pregano di “non farlo”.
Io guardo il vecchio e gli chiedo:
“Ma cosa dicono?”
“Pompinari. Vogliono una doccia o un piatto di minestra in più. Se vuoi, te lo menano in cambio.”
Sto per replicare. Perché ho sentito bene. Loro ci stanno scongiurando di “non farlo” e non di “farlo”. Il vecchio non me la racconta giusta, ma lascio andare. Intanto ho già capito che scoprirò la verità la notte successiva o qualche altra volta. E la realtà sarà che il vecchio e la guardia del turno precedente il mio di solito usano i travestiti per il loro cazzuto e perverso divertimento. Chiedono loro se gradiscono un supplemento di sbobba e, se quei disgraziati dicono di sì, vengono stuprati con il manganello tra le risate di chi sta guardando. Certo, qualcuno si diverte così alla Rocca.
Giro le spalle al vecchio e lui, che si crede non visto, spacca due dita ad un poveraccio in ginocchio con le mani inginocchiate. E…Come basta così con il racconto della prima notte! Se non ti ho ancora raccontato perché ho vomitato per due giorni di fila…
Okay, d’accordo, ti è sufficiente.
Sì, è tutto un casino alla Rocca. La dignità, anche quella minima, è un miraggio. Nelle celle, in estate, si soffoca, trenta gradi in dieci metri quadrati dove vivono ammassati sei o sette detenuti. La tazza collettiva che è sempre intasata, e non c’è neppure un paravento per isolarsi in certi momenti. I nervi di tutti sono a fior di pelle, le risse a coltellate frequenti. L’altro elemento liquido in cui ti capita spesso di affondare lo stivale è il sangue. E ti lascio immaginare la sporcizia. Cristo, e poi ci sono dei ragni che paiono tarantole sottoposte a radiazioni. Gli stupri sono all’ordine del giorno. Il sesso, lo avrai capito da quanto succede la notte dai travestiti, è oggetto di ogni tipo di traffico, soprattutto quando serve per mostrare il predominio dei forti sui deboli.
Ah, ogni tanto la direzione stabilisce la derattizzazione. Ma è una presa per il culo perché, una volta finita, montagne di ratti rimangono a marcire per giorni e giorni nei corridoi. Avrai capito che per molti, troppi, il suicidio è l’unico modo decente per uscire di scena. Anche perché con un impianto giudiziario come il nostro non è così difficile finire qua dentro anche per sbaglio. Così che imberbi mammolette possano mescolarsi con gli scarti del più lurido fondo di barile della delinquenza. Mi ricordo, l’anno scorso, di un povero e sfigatissimo medico che venne spedito alla Rocca per abbandono del tetto coniugale e mancato pagamento degli alimenti alla moglie. Durò tre giorni. S’infilò il collo di una bottiglia nella gola, il punto giusto per andarsene in fretta. I dottori sanno come e dove tagliarti per farti una tracheotomia d’urgenza. Vuoi che non sappiano dove affondare la lama per poter morire senza fronzoli ed errori?
Okay, veniamo al dunque. All’italiano.
Era febbraio di quest’anno. E si contavano già otto cadaveri. La Rocca era sempre più ingovernabile. Non più l’anticamera dell’inferno. Neppure, banalmente, l’inferno stesso. Ormai era un mondo al di là dell’immaginazione. Perché l’inferno, bello mio, siamo in grado di vedercelo con la mente, grazie alle prediche e ai catechismi. La Rocca, invece, è una reinvenzione continua. Dove non esistono limiti alla creatività del male.
Lo misero in cella con uno spacciatore francese, Antoine Leduc, un quarantenne figlio di puttana che se ne stava tranquillo e parlava poco. Dopo una notte che passarono assieme, trovammo Leduc morto stecchito sul pavimento con una borsa di plastica stretta attorno al collo e altri due o tre sacchetti sparpagliati attorno. L’italiano guardava il cadavere con un’espressione indimenticabile, almeno per me. Sai, nonostante gli otto anni passati in questa fossa dei dannati, non riesci proprio a farci il callo completamente. Almeno per me, funziona così.
E allora la sua faccia, quella mattina, era l’orrore puro, genuino, come quando qualcuno per il quale non esistono più santi da pregare vede la nera signora accanto al letto che sta arrotando la falce. Idem. Solo che all’apparenza Leduc si era tolto di mezzo da solo, deceduto per edema polmonare complicato dal soffocamento.
E l’italiano mi guardò come se mi vedesse per la prima volta e disse:
“Ha voluto giocare a Casper. Io ho tentato di fargli cambiare idea. Di fargli capire che poteva essergli fatale, ma lui niente. Doveva agire. Sono mesi che non faccio su e giù, ho bisogno di vuotare la stiva. E Casper mi aiuta, mi ha detto. E…”
E si è interrotto, rimettendosi sulla faccia quella terribile maschera di qualche secondo prima. Non ha più detto nulla, né noi a lui. Sì, d’accordo, lo vedo dal tuo stupore. Non sai che roba sia Casper, vero? Naaaa, non è il fantasmino dei cartoni, anche se è da lì che viene il nome. La prima volta che ci ho infilato il naso dentro è stato dai travestiti. Fu il vecchio a portarmici, in pratica di nascosto, all’ora del lupo, tra le quattro e le quattro e mezza, quando le luci si abbassano e le celle sembrano delle cripte. Erano in quattro, se non ricordo male, tutti e quattro con il sacchetto bianco ben stretto al collo e infilato in testa. E sembravano proprio quattro fantasmi, visti di soppiatto dal corridoio. Spettri con l’uccello di fuori che se lo menavano in comunità, facilitando e prolungando il momento dell’orgasmo stringendosi l’un con l’altro il sacchetto al collo. Mai la prigione mi fece così schifo.
Ma torniamo a lui, l’italiano. Al vecchio sembrava tutto chiaro, ovvero Leduc non si era proprio suicidato, ma quasi, rimanendoci secco durante un giochino non del tutto innocuo. Già, era proprio quello il punto. Lì, nella frase poco chiara dell’italiano, si fondava la ragione del mio rimuginare dopo soltanto dieci minuti dall’avere abbandonato la scena del delitto.
Come?
Ho detto delitto?
Eh, appunto. Ma, per il momento, pazienta.
Frase poco chiara, come dicevo. Perché un conto è il giochino erotico vagamente pericoloso, ma tutto sommato controllabile, visto che bisognerebbe essere sempre e almeno in due. Un altro conto è sostenere che “la cosa poteva essergli fatale”. Cazzo, ci sono chilometri di differenza, ne converrai.
Così, da solo, senza essermi consultato con il vecchio, torno da lui prima di smontare. E gli chiedo dal corridoio:
“Ehi, pummarola, che ne sai tu di Casper?”
Lui, seduto sul letto, mi guarda come se mi scoprisse in quel momento per la prima volta. Fa un sorriso sghembo e scrolla la testa, però zitto. Muto come un pesce.
Allora provo con le tattiche che mi ha insegnato il vecchio e lambisco le sbarre con il manganello per capire quanto ci sente da quell’orecchio. Sorpresa, sorride e parla. Ma la sua risposta, che poi non è tale, è del tutto stupefacente:
“Il vero problema, qui dentro, è quanto ne sai tu.”
Oh, non lo pronunciò con sfrontatezza, sia chiaro. Il tipo stava lontano miglia e miglia dal volermi offendere o provocare. No, c’era dell’altro. E, nei pochi minuti di servizio che mi restavano, agognavo proprio di venirne a capo. E allora:
“C’è qualcosa che, secondo te, dovrei sapere?”
“Lascia stare, amico.”
“Eh, no, amico. Qui dentro non si tira la pietra senza far vedere le mani. Forse Casper non è il massimo per chi è male in arnese. Non per questo ci devi per forza tirare le cuoia.”
“Non mi crederesti.”
“E’ otto anni che lavoro alla Rocca. Sono disposto a credere che sei un agente CIA sotto copertura in missione. Magari abbiamo imprigionato Bin Laden senza saperlo.”
“Vaffanculo, non è così semplice.”
“Prova a spiegarmelo. E magari posso fare qualcosa per te. Tenerti qui da solo, invece che in pessima compagnia. Qualche panetto di sapone e una coperta in più. Un paio di puttane che facciamo entrare di nascosto al sabato sera.”
Si alzò in piedi e, quasi dolorosamente, come se tutte le membra gli rispondessero con sofferenza, giunse alle sbarre, a pochi centimetri da me. L’italiano era un ex poliziotto, finito nei guai per troppo stress e altrettanta cocaina. Forse compromessosi durante una missione d’infiltrazione. Le mafie lo avevano usato, tenendolo per il bavero dopo avergli rapito la figlia di nove anni. Aveva già visitato tre dei peggiori reclusori d’Europa. A ogni processo saltavano fuori nuovi reati. Per di più si era complicato la vita con un tentativo di evasione durante il quale un agente della scorta era riuscito a cadere sulla propria pistola durante un inseguimento a piedi. Il demente stava ancora in coma e non si accettavano più scommesse sul suo ritorno fra i normali. Insomma, l’italiano era sprofondato in una poltiglia di avversità.
Ansimò. Poi buttò fuori la sua verità.
“C’è un momento…Non più di qualche secondo. Tra il buio e il lampo dello sballo, quando stai per venire. E’ come una porta che si apre. Una vibrazione nella penombra con la quale ti puoi sintonizzare per pochissimo. E allora lo vedi. Solo che lui vede te. E ti uccide. Perché lui non può essere visto.”
“Ah…”
Cosa pensi che avrei potuto rispondergli? Era un matto. Ho letto da qualche parte che la polvere, quando ne tiri troppa, ti provoca le allucinazioni. Lui era un caso di quel genere. Almeno così mi sembrò. Forse tu, che fai il giornalista, lo avresti percepito in modo diverso. Forse, chi lo sa. Ma io di matti, che di notte parlano con qualcuno nel buio delle loro celle, ne possiedo un centinaio d’avanzo.
Come?
Avrei dovuto capire che stavolta il caso era diverso?
E, da che cosa, di grazia?
Ah
Sì, sì, non fare lo spiritoso. Non si tratta dello stesso ah che mi uscì dalla bocca dopo che l’italiano mi parlò di lui. Cos’è? Adesso un cristiano, sconcertato dalle stranezze della vita, non può più proferire ah? Checcazzo, io non m’intendo di gamme di frequenze, non studio quelle stupidaggini vibrazionali di cui parli tu nei tuoi articoli. Lo so, mi hai regalato il tuo ultimo libro, ma non sono riuscito neppure a capirne il titolo. Per la puttana, cosa sono le entità ultra-dimensionali?
Okay, vado avanti…
L’italiano si accorge che non me la bevo. Così scrolla la testa e torna, strascicando i piedi, sulla sua lurida branda. Ma, prima di affondarcisi il culo, si volta con un ghigno fuori squadra e mi suggerisce:
“Perché non provi? Un sacchetto di plastica, una rivista porno, un ambiente quasi buio. Ti serve soltanto che ti venga duro, una mano che smanetti alla grande ed essere certo di non soffrire d’asma. Sai, per raccontarla dopo, occorre essere vivi.”
“Ehi, P 38, ti sei pippato il cervello? Io non mi tiro le seghe!”
“Sicuro, c’è Sharon Stone che ti aspetta a casa con le gambe larghe e la fessurina bagnata. Tutte le mattine alle sette. Ma vai a farti fottere!”
Sai, se il vecchio si fosse trovato nella zona in quel momento, l’italiano avrebbe rimediato una bella scarica di manganellate nelle parti molli. Invece io, che passo per il secondino più comprensivo della Rocca (temo proprio che il mondo abbia ragione, visti i bastardi che mi ritrovo per colleghi, bastardi dentro e tante volte più bastardi dei prigionieri più degenerati), me la risolvo con un’alzata di spalle, il dito indice levato al soffitto e un sonoro ghigno di sufficienza.
La verità, però, è che a casa mia di sicuro non c’è Sharon Stone, ma neppure il suo clone mal riuscito e buttato nella spazzatura. Nel mio umile appartamento tutt’al più entra qualche puttana dalle cinque alle sette del pomeriggio, una o due volte al mese. Non è che abbia problemi con le donne. Piuttosto non ho tempo e non ho voglia di corteggiamenti, relazioni e smancerie fuori posto. Lavorare di notte alla Rocca ti prosciuga. L’unica esigenza che non si può rimuovere è lo svuotamento periodico del container. Soprattutto quando è straripante, non so se capisci.
E proprio quel giorno…Cristo santo, che razza di concomitanze fottute ti mette sotto il naso la vita! Proprio il pomeriggio di quel giorno cominciato con le scemenze dell’italiano avevo una specie di appuntamento galante con una battona di medio bordo. A casa, dopo le cinque ovvio, per permettermi di riposare. Una tipa sulla quarantina, bionda platino e palestrata. Lavorava in modo straordinario di bocca. Non la pagavi poco, ma le due ore che stava con te ti facevano tirare avanti senza grossi problemi per almeno tre settimane. Almeno, per me funzionava così. Ed è forse uno dei tanti effetti collaterali, negativi sicuro, del lavorare alla Rocca.
Così, pochi secondi dopo le cinque, sento suonare due volte alla porta. Un paio di scampanellii appena accennati, una forma di segnale. Io sono già mezzo nudo, mi sono svegliato da poco. Con la verga formicolante e in erezione. Eccitato, ma non come al solito. Più del solito, e lì per lì non capisco il perché. Quando lei entra, comprendo. E’ stato quel cazzo d’italiano con i suoi discorsi. E pensare che, dieci anni fa, ai corsi di formazione mi sciroppai persino un paio di conferenze sulla “sindrome di Susanna Hill”, il termine tecnico con cui in America chiamavano certe pratiche di asfissia autoerotica. Giusto per avvertirci che aria poteva tirare tra i detenuti di un reclusorio infernale come quello che mi attendeva.
Lei entra e abbozza un sorriso. In me comincia a prendere forma una nebulosa ispirazione. Si toglie il miniabito e resta in slip e autoreggenti. Io le faccio una proposta. Lei accetta senza tradire disapprovazione o altro. E’ una professionista.
Però, prima, mi dirigo verso la credenza. In un cassetto c’è la carta Domopack. Mi sdraio sul letto e le indico con il dito dove…Come?
Se sono un romanticone?
Amico, tu sei bello, virile e biondo. Fai il giornalista. La tua fidanzata è uno schianto, bella da star male. Io sono invisibile, insignificante e lavoro come secondino della Rocca. Vado a puttane, anzi loro vengono da me. I preliminari si svolgono proprio così. Stile visita ginecologica. E’ inutile ricamarci o filosofeggiare. Però ti garantisco che anche questi, con tutti i loro limiti, sono rapporti umani. Lei, dopo, di solito mi raccontava di sua figlia che era fuggita da casa con il primo balordo di passaggio. Che faceva la cameriera su al nord in un motel in autostrada. E viveva sempre con il citrullo che l’aveva raccattata, senza darsi a destra e a sinistra come la madre.
Mi fai uscire dal seminato, accidenti.
Bene, io sono molto eccitato e lei lavora con vigore. Il flash si sta avvicinando in fretta. Con la sinistra afferro la pellicola del Domopack e comincio a fasciarmici la faccia, facendo in modo che dalla bocca e dalle narici non abbia più a circolare l’aria. Sento allora che sto andando, come si dice, in asfissia e, mentre non mancano che pochi secondi all’orgasmo, chiudo gli occhi e butto la testa all’indietro perché…
Cristo, aveva proprio ragione quel docente…Prima l’ipossia, poi l’anossia, e, nell’attimo che precede l’onda in arrivo, la sensazione erotica è più che raddoppiata. Non è proprio niente male, anche se sconsiglierei chiunque a farlo da solo. E…
No, ho chiuso gli occhi, imbecille che non sono altro! Tiro su di colpo la testa, li riapro, sto per venire, anche lei senza smettere alza gli occhi, mi vede con la plastica attorno alla testa, spalanca le pupille e…
Io mi guardo attorno. Negli angoli oscuri. Verso il soffitto. Nelle zone in penombra del pavimento. Ma non c’è più tempo per vedere perché…
Flash.
Ed è lei a urlare. Io penso di piacere. Un maschio idiota ed egoista che s’illude che tutto questo, inondazione compresa, sia gratificante anche se si esercita il mestiere più antico del mondo. Ma lei ha urlato per lo spavento. Pensava di darsi da fare con uno più o meno normale, per quanto secondino della Rocca. Invece ha volto in su gli occhi e ha scoperto un deficiente depravato che, a sua insaputa, si è fasciato la testa con il Domopack per sballarsi un po’ di più. Ha aperto la bocca per gridare e lo ha fatto un secondo prima del dovuto, così che tutto il mio liquido seminale le riempie faccia e capelli in una pioggia che di certo la tipa non prende bene. Mentre io, con i polmoni che stanno scoppiando e un insopportabile fischio dentro le orecchie, mi strappo la pellicola dalla faccia giusto in tempo e mi lascio andare a pancia in su sul materasso che ci ospita.
Dio santissimo, mi dico, non lo farò mai più. E’ bello ma è rischioso. Lo capirebbe anche un troglodita. E poi non ho visto nessuno. Nessun Casper incazzato perché portato alla luce dal suo buio indefinibile.
“Bastardo!”, sibila la bionda con i capelli luccicanti, mentre si alza e si dirige verso il bagno. A me viene da ridere, normale reazione un po’ isterica dopo un rapporto orale eseguito accuratamente. Ansimo, prendo aria, vedo lucciole che ballano nella penombra verso la volta. Cosa può importargliene se un cliente si fascia la testa con la pellicola adesiva? Mi alzerà la tariffa? Okay, no problem. Ma, quando tornerà a letto, le garantirò che non accadrà più. E’ stato un esperimento. Sono un curiosone. Merito dell’italiano. Ma niente più sballi alla Susanna Hill. E, in ogni caso, voglio ancora darci dentro per almeno un’ora piena.
Sento scrosciare l’acqua, qualche mormorio consistente in insulti di vario genere lanciati nei miei confronti. Però, da un punto di vista schiettamente tecnico, è stata colpa sua. Quel secondo d’anticipo. Ah, mi sto infervorando di nuovo. Speriamo che non ci metta un’eternità.
Finalmente sento i rubinetti chiudersi. Lei che torna con l’espressione rabbuiata. E…
Proprio qui, amico, succede l’imprevedibile. Però temo che tu non possa scriverne.
Sì, lo so. Sei tu che giudichi. Sei tu che paghi, anche. Ma la storia è così…Maledizione, non intendo dire complicata, ma è…
Ecco, è inaccettabile. E’ questo è il termine esatto. E…
Sì, d’accordo, vado avanti.
Bene, la guardai rivestirsi. Incazzatissima. Decisa a chiuderla lì per quel pomeriggio. Buttai i piedi fuori dal letto.
“Dove vai? Sei qui soltanto da dieci minuti”, argomentai.
“Tu sei uno stronzo, Malraux!”
“Dai, andiamo. E’ stato soltanto un gioco. Non accadrà più. Non mi è nemmeno…”
“Zitto, perdio! Non lavoro con i guardoni! Digli pure di uscire dal suo nascondiglio.”
“Guardoni? Ma che racconti?”
“Quel tale dall’altra parte del letto. Accanto a te, alla tua sinistra. L’ho intravisto per un attimo, prima che mi combinassi questo casino. Ho percepito un’ombra quando ho alzato gli occhi. Un’ombra di forma umana, accidenti a lui e a te!”
Adesso lo so perché. Però in quel momento non ne capivo le motivazioni: il cuore tornava ad accelerare le sue pulsazioni, l’eccitazione sessuale si dileguava e la bocca mi diventava di colpo riarsa. Come? Sì, hai detto bene.
Paura.
Panico allo stato puro per qualcosa che non capivo allora e non capisco adesso.
E non ho più aperto bocca.
“Fuori i soldi!”
Ho obbedito. Mi sono alzato, ho raggiunto la giacca appoggiata su una poltrona, ho preso il portafoglio. Le ho teso le banconote. Lei le ha infilate con rabbia in borsetta. E’ uscita, berciando Telefonami solo quando la smetti con i giochetti di gruppo. E poi, sulle scale Salutami quel bastardo che se ne sta nascosto. Già, quel bastardo.
Sì, stai sgranando gli occhi anche tu, ora. Hai capito chi è la donna trovata morta la mattina del 10 febbraio nella sua mansarda, alla città vecchia? Esatto, proprio lei. La bionda palestrata. Ovvio che capisci. La figlia, come ha scritto il tuo giornale, che si prende una settimana di ferie e torna a trovarla. Suona e nessuno le risponde. E’ sicura però che la madre ci sia e si fa aprire l’appartamento dal portinaio. L’hanno trovata dentro un armadio, in uno spazio ristrettissimo. Morta per mancanza d’aria. Completamente nuda, un vibratore ancora in funzione a contatto della vagina. Gioco erotico finito male, ha scritto il tuo cronista. Si è dimenticato di precisare se si è trattato di un gioco solitario o a più mani.
E quella mattina, guarda caso, abbiamo rinvenuto morto anche l’italiano. Guarda caso, con un sacchetto di plastica — di quelli dove sta scritto Ama la natura e riutilizzami — ben stretto attorno alla faccia. Con una smorfia nel viso, guarda caso, che non auguro a nessuno di dover vedere. E gli occhi sbarrati che, guarda caso, non volevano assolutamente chiudersi per quanto il tizio risultasse freddo al contatto, quasi ghiacciato. Anche lui identica diagnosi, edema polmonare. Complicata nel suo caso da un’estrema deviazione della temperatura interna. Assideramento, in pratica.
Guarda caso…
E’ stato il direttore a manipolare la versione della sua morte. La storia di Casper era già uscita sui giornali, anche sul tuo, a proposito di Leduc. Ci mancava solo più che, quarantotto ore dopo, un altro detenuto — non uno qualsiasi, ma proprio il compagno di cella di Leduc — si servisse dell’identico sistema per darsi la morte. Allora si è inventato il classico espediente dell’impiccagione con il cappio formato da vari pezzi di lenzuolo, annodati fra loro, che è per inciso il metodo più sbrigativo e più in voga tra i disgraziati che si suicidano alla Rocca
Ecco, la faccenda sta in questi termini. Io non ho visto niente. Ho semplicemente avuto un occasionale scambio d’idee con due persone che hanno scorto qualcosa. Di sfuggita, per un secondo. E il tuo libro non solo non l’ho capito, ma non l’ho neppure finito. Mi sono bloccato qui, a pagina 55, dove scrivi che le “entità ultra-dimensionali” stanno tutte intorno a noi e condividono il nostro spazio. Che a volte riusciamo a sentirle quando le vibrazioni cambiano e avvertiamo un freddo alito di vento, anche se fa caldo. Che alcuni animali, i gatti soprattutto, hanno la capacità di vederle e i veri sensitivi riescono a sintonizzarsi con loro. E che, porca vacca, ci sono circostanze particolari durante la vita di ciascuno in cui senza volerlo siamo in grado di spiarle. E che soltanto loro possono decidere quando e se mostrarsi. Perché, in caso contrario…
A questo punto ho chiuso il tuo libro di merda. Perché, amico, io posso fare il carceriere alla Rocca, vomitare due giorni di fila e marciare nel guano alto mezzo metro. Io questo genere d’inferno lo conosco, anche se il paragone con l’inferno, come ti dicevo poco fa, non è più lecito. Non lo approvo, credimi. Luoghi del genere andrebbero chiusi d’ufficio, anche se danno da vivere a gente come me. Ma è una bolgia che, dopo il debito rodaggio, ti sorprende fino ad un certo punto, anche se non mi rimangio una sola consonante di quanto ti ho raccontato a proposito della creatività del male. Perché, in fondo, la Rocca l’abbiamo plasmata noi.
E’ di quell’altro inferno, sul quale tu stai investigando, che non intendo più sentir parlare. Quel mondo in penombra nelle cui cellule a prima vista vuote si mimetizzano creature che sono ombra stessa e ci alitano addosso con il potere di ucciderci a loro piacimento, contrabbandando la nostra dipartita come un fatto ineluttabile o naturale. Scusami, ma è da febbraio che dormo con le persiane aperte. Come sai, vado a letto di giorno, perciò non ho bisogno di accendere delle luci. E non so se, dopo averti raccontato oggi la storia che sta dietro a Casper, riuscirò da domani ad appisolarmi per qualche minuto piuttosto che niente.
Un’altra faccenda però mi angustia. E’ giusto da febbraio che a casa mia non capitano più donne. Per dirla alla mia villana maniera, il container è pieno. Ma ho paura al solo pensiero di menarmelo. Indubitabile, se chiudi gli occhi non vedi nulla e sei, in teoria, al sicuro. Tuttavia le pupille dell’italiano assomigliavano a due palline da tennis con un cerchio nero dipinto al centro, talmente spalancate ci apparivano.
Arriva un momento, diceva, tra il buio e il lampo dell’orgasmo.
Lui è quel momento. Ed è un baleno che puoi discernere anche nel buio della tua mente. Allora lui potrebbe arrivare anche da dentro, capisci? Perché si trova già dentro di te. Gli occhi spalancati, l’assideramento, non so se…
Come dici?
Lo scrivi, lo dimostri, a pagina 152?
Faffanculo, amico giornalista! E che cosa dovrei inventarmi, allora, per scaricarmi i coglioni? Diventare un monaco buddista e praticare l’astinenza? Perché tu, forse, la pratichi con quel miraggio di passera con cui ti fai vedere in giro?
Chiederò consiglio al vecchio. Stanotte. Forse, transitando dai travestiti, troveremo una soluzione. Ce n’è giusto uno che ha compiuto diciannove anni da poco. Tiene nascosta una parrucca bionda platino sotto la branda. Insaponeremo il manganello e accenderemo tutte le luci. Nessuna bassa frequenza, come racconti tu. Occhi aperti mentre mi lavora.
Si trova una soluzione a tutto, su alla Rocca.