di Luigi Bernardi

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L’aula del processo non la trovo subito. Credevo fosse quella dell’ultima volta, invece è un’altra. Faccio per raggiungerla, vedo che aprono il portone che dà sulla piazza. Di lì passano i detenuti che arrivano dal carcere.
Entrano tre tunisini, hanno lo sguardo distratto, le manette che li bloccano ai polsi non sembrano dar loro fastidio. Li segue una ragazza, per lei dev’essere la prima volta, è spaurita. Abbassa gli occhi, si fissa i polsi, li rialza, incrocia i miei, deve sentirseli addosso. Mi sento sorpreso in un gesto sbagliato, vagamente pornografico, distolgo veloce lo sguardo. Dopo me ne pento, subito torno a cercare il suo, non c’è più.


La guidano verso la sezione del riesame. Pedino il gruppo di detenuti e guardie. Dentro la saletta saranno già in una decina. Per alcuni di loro, oggi si potrebbero aprire le porte del carcere. Con il pensiero, auguro alla ragazza di essere fra questi, dopo lo auguro anche a tutti gli altri. Chi parla con leggerezza di pene, di galera, lo dovrebbe vedere quanto è goffo, sbagliato, un corpo con le manette. Li dovrebbe pensare ai polsi suoi, quei ferri.
Arrivo nell’aula del processo che sono venuto a seguire. L’imputato è già dentro la gabbia, almeno gli hanno liberato i polsi. Non c’è quasi nessuno, eppure si dibatte di un omicidio, di una giovane donna ammazzata. Ciò nonostante interessa pochi, la vittima non era una figlia di questa città, era venuta da lontano, se n’è andata dentro una bara qualsiasi.
L’imputato mi guarda, deve chiedersi chi sono e quale curiosità mi ha spinto lì. Rimarrà con il dubbio. Mi siedo nelle panche del pubblico, insieme a me c’è solo un anziano, capirò dopo che è un vecchio poliziotto in pensione, uno che non riesce a rimanere fuori dalla mischia.
Il dibattimento comincia stanco. Manca una testimone, il pubblico ministero e i poliziotti non sono stati capaci di trovarla. Il presidente li striglia. Si capisce che ci prova gusto. Loro tentano di replicare, sono impacciati, subito alle corde.
Entra una ragazza, è affannata, ha corso, c’è del sudore sulla sua fronte. Si guarda intorno, colgo un cenno di intesa con l’imputato. Viene a mettersi a due sedie dalla mia. I tre agenti penitenziari che sorvegliano la gabbia le lanciano un’occhiata schifata. Provo a restituirne loro una identica, non se ne accorgono neppure.
Sento un odore di rancido, devono essere i vestiti della ragazza, forse la sua pelle. La spio con la coda dell’occhio. Quando il presidente aggiorna il processo a un paio di settimane in avanti, la faccia le diventa triste, dopo anche rabbiosa.

Da Zero in condotta