helicopter.jpg di Michele Corsi

Proseguendo il discorso sulla “guerra infinita” americana, pubblichiamo questo schietto e interessante intervento tratto da REDS. [PC]

Gli USA hanno vinto. Naturalmente, per mitigare la nostra rabbia, potremmo anche girarla un po’ più soffice. Potremmo scrivere: sì, avranno pur vinto una battaglia, ma vedrai cosa capiterà loro! Oppure: una cosa è vincere la guerra, un’altra è gestire un Paese. Ed anche: hanno vinto militarmente, ma politicamente hanno già perso. E via mugugnando e leccandosi le ferite. Certo, vi è in tutte queste considerazioni consolatorie qualcosa di vero, ragionevole e persino probabile. Però… pensiamo sia meglio capire quando si perde, guardare bene in faccia una sconfitta, riconoscerla, comprenderne la portata e poi, alla fine, certo, anche indagare quali sono gli elementi che ci possono far sperare in un ribaltamento della situazione. Ogni guerra determina vincitori e vinti. I vincitori di questa guerra sono gli USA, gli sconfitti sono il resto del mondo e il movimento contro la guerra.

La schiacciante vittoria USA sposta a destra l’asse politico mondiale, con ripercussioni in ogni angolo del pianeta.

L’espansione dell’impero USA

Ciò che rende quella degli USA una vittoria incontestabile è la sua rapidità e il fatto che sia stata conseguita senza, per loro, perdite significative. Dopo la prima settimana “nera”, in cui le truppe angloamericane sono rimaste sorprese dalla resistenza e impantanate sul terreno, la direzione politica statunitense ha preso una decisione secca: avanzare rapidamente verso Baghdad, confidando sul crollo del regime. Questa scommessa è riuscita. Baghdad è caduta senza battersi, così come Tikrit. Gli USA si sono dati una direzione politica, quella dei “neoconservatori”, determinata, ardita e con le idee chiare. Non vi è dubbio che sino ad ora abbia vinto tutte le sue scommesse. Perché, in un certo senso, di scommesse si è trattato: gli USA hanno sfidato, con il solo supporto inglese (ma erano pronti a fare a meno anche di quello), il resto del mondo. Le incognite, sulla carta, erano numerose e inquietanti.

Molti, tra coloro che erano contrari all’intervento USA, si sono schierati a favore della “guerra breve”. Hanno detto: ora che la guerra c’è, speriamo che duri poco, sottintendendo ovviamente una rapida vittoria angloamericana. In realtà è proprio la brevità della guerra ad aver comportato un drastico spostamento dei rapporti di forza mondiali a favore dell’imperialismo USA, da ogni punto di vista, e in particolare a favore della sua attuale direzione politica, il gruppo Wolfowitz-Rumsfeld-Cheney-Bush. Ciò comporterà in tempi brevi altre guerre e crudeli oppressioni, ricatti di portata mondiale, e una escalation nella non ancora dichiarata guerra per l’egemonia mondiale. Il conflitto breve, se ne trascina appresso uno lungo e dagli esiti forse inimmaginabili. La logica di ogni impero infatti è semplice, e inesorabile: esso tende a espandersi sino a che non incontra un potente ostacolo sul suo cammino, come l’aria dentro un corpo vuoto che arriva fino ai limiti che riesce a contenerla. Questa guerra agli USA è andata benissimo, e dunque la loro corsa a riempire lo spazio vuoto di un mondo che percepiscono ormai come facile preda, proseguirà con ancor maggiore determinazione. La precedente corsa è stata fermata solo con una sconfitta sul campo, quella vietnamita.

La vittoria USA non mancherà di dispiegare i suoi effetti immediati, come un virus, su tutto il Medio Oriente, esattamente come prevedevano i suoi strateghi. Gran parte di coloro che si sono opposti alla guerra immaginano che le ragioni dell’attacco all’Iraq risiedano nell’affannosa ricerca di petrolio. E’ una visione semplicistica. Una superpotenza come gli USA non corre questi rischi per dei pozzi, ma per dominare un’intera area del mondo, un’area dove, certo, c’è anche il petrolio. Ora che gli USA hanno vinto in Iraq, è a tutti evidente il tremendo vantaggio strategico di cui essi oggi godono nei confronti dell’intera regione. Con una vittoria così schiacciante e breve, con la posizione privilegiata offerta dalla collocazione geografica dell’Iraq, gli USA sono da oggi in grado di ricattare e terrorizzare tutto il Medio Oriente: è la grande rivincita occidentale sul mondo arabo che negli anni cinquanta aveva dato inizio ad una fase di liberazione, incerta, interrotta, poi degenerata, ma che comunque aveva lasciato residui fastidiosi per l’intero Occidente: per esempio la proprietà statale dei pozzi petroliferi, una politica ostile verso Israele, mercati troppo “chiusi”.

Siria, Arabia Saudita, Iran, sono sotto scacco. Ma anche Egitto e Giordania, non se la passeranno troppo bene. Sino ad ora gli USA hanno letteralmente comprato, con generosi “aiuti” finanziari, la loro alleanza. Siamo pronti a scommettere che adesso basterà molto, molto meno per assicurarsi la loro benevolenza. Ma è sui palestinesi che incombe una possibile sconfitta storica che due intifade ed una eroica resistenza avevano sino ad ora scongiurato. L’Occidente cristiano che ha per millenni perseguitato gli ebrei, nel secondo dopoguerra li ha sostenuti, nella loro conquista territoriale, raggiungendo così il duplice scopo di liberarsene e di creare una enorme colonia fedele ai propri interessi, e considera Israele, dagli anni cinquanta, il proprio avamposto nell’ostile mondo arabo. Adesso Israele non è più sola. Il protettorato USA sull’Iraq (insieme ai piccoli regni del Golfo intasati di basi USA) fa sì che lo “spirito degli accordi di Oslo”, già illusione quando è stato evocato, sia destinato alla pattumiera della storia. Perché mai oggi gli israeliani dovrebbero operare serie concessioni con una così favorevole correlazione di forze? Ogni negoziazione con Israele, data l’odierna situazione, non può che condurre alla formazione non di uno stato, ma di una stretta prigione territoriale. E il primo effetto del dopoguerra è stata l’imposizione di un uomo degli USA, Abu Mazen, come “primo ministro” palestinese.

La sconfitta degli imperialismi europei

Gli USA hanno lasciato nelle mani inglesi il solo distretto di Bassora, che ha capitolato, comunque, solo grazie alla decisiva copertura aerea statunitense. Gli appalti, la composizione del governo iracheno, ogni decisione di un qualche rilievo sono prese dagli USA in questo dopoguerra in tutta solitudine. Se gli USA sono disposti a concedere così poco ad un alleato fedele quale è il Regno Unito, si comprende bene perché, alla fine, Francia e Germania siano state costrette ad una opposizione schietta alla guerra contro l’Iraq e ad una rottura che non ha precedenti da circa quarant’anni. Esse non avevano alcuna alternativa. Gli USA non erano disposti a concedere nulla. La guerra all’Iraq è stata concepita anche come guerra per ristabilire una chiara gerarchia di potenza nel mondo, e quindi “tagliare la cresta” anche all’Europa.

Di fronte alle medie potenze europee si pone la scelta: accettare la dominazione USA sul mondo o lottare per l’egemonia? Le conseguenze del primo caso nel medio e lungo periodo possono essere fatali, comportando ad esempio l’esclusione da alcuni mercati, come ai tempi del “vecchio” colonialismo. Per questo Francia e Germania hanno la tentazione di dare battaglia: confrontano il PIL europeo con quello USA e non accettano di rimanere indietro, non possono permettersi, senza reagire, di vedere una potenza economicamente in declino come gli USA (per il suo debito gigantesco e la sua sempre più ridotta quota, rispetto all’Europa, del commercio mondiale) approfittare così spudoratamente del proprio vantaggio militare. Le classi dominanti più deboli invece, e prive di visione strategica, grandi sostenitrici di Aznar e di Berlusconi, non se la sentono di rinunciare ai piccoli vantaggi di stare col più forte, gli USA, nella speranza di veder cadere qualche briciola dal loro banchetto di morte. Berlusconi si è chiesto: sono più forti gli USA o la Francia? E la risposta è quella che sempre si è dato qualsiasi capitalista italiano, tradizionalmente teso a spolpare i propri operai o a rincorrere nicchie in Romania, certo non a sfidare gli USA sul loro terreno. Nella ristretta ottica di borghesie come quella italiana, la scelta si pone nei termini: “Chirac o Bush?” E con l’occhio furbetto e la mano sul portafoglio scelgono quello più grosso dietro cui ripararsi dalle bufere del mondo. Vi è anche una interpretazione “nobile” di questo atteggiamento, vicina a quella tradizionalmente espressa da Amato: l’interesse nazionale dell’Italia sarebbe quella di stare vicino al Regno Unito per controbilanciare l’asse franco-tedesco. Ma questo è uno schemino vecchio, dei tempi della vecchia guerra fredda, non di quella nuova dove gli USA lavorano alla divisione del fronte europeo per meglio sopraffare il continente.

Effettivamente se l’imperialismo europeo vorrà contrapporsi agli USA non potrà che farlo contrastandoli sul terreno militare, dando cioè un braccio militare al suo PIL. Ma l’Europa ha delegato per decenni agli USA la propria difesa (dal “comunismo”, dal Terzo Mondo…). E certo una corsa agli armamenti non si improvvisa: occorre consenso sociale, una cultura politica, una direzione politica determinata, forte, unitaria, che, certo, nessuno vede all’orizzonte.

In ogni caso, anche se l’Europa ha una fifa nera, e poca voglia di combattere, Francia e Germania comprese, sarà costretta a farlo. Pensiamo sul serio che con il dilatarsi dell’imperialismo USA sarà ancora possibile per una qualsiasi Commissione Europea bocciare una fusione tra ditte statunitensi, ad esempio? O reagire con sanzioni a misure protezionistiche statunitensi? Gli USA si allargheranno e spingeranno l’Europa, pur tra mille tentennamenti, all’autodifesa, cioè all’avvio di un proprio riarmo e alla costituzione di una direzione politica unitaria. Tutti quegli intellettuali della nostra classe dominante che auspicano in Italia il ritorno della concordia atlantica, sognano: proprio la rapidità della vittoria USA, che essi scioccamente auspicavano, spingerà gli USA ad una maggiore arroganza verso l’Europa.

Attenzione, però. Se il movimento antiguerra europeo, la sinistra europea, i lavoratori europei assumessero come risposta al dilagare dell’impero USA l’appello alla costituzione di un polo imperialista europeo contrapposto, i pericoli che correrebbe l’intero pianeta sarebbero immani. Lo scontro tra Europa e USA, e quello che si avvicina con la Cina, rischia di provocare catastrofi senza ritorno. Bisogna mettersi in testa che la posizione di Francia e Germania non ha assolutamente nulla a che fare con il pacifismo. La Francia negli stessi giorni in cui protestava contro la guerra degli USA invadeva la Costa D’Avorio. Essa è diventata “filoaraba” solo dagli anni cinquanta, da quando cioè gli USA le hanno dato il benservito insieme al Regno Unito in occasione della Guerra di Suez: da allora la Francia è espulsa dal Medio Oriente ed ha scoperto, non potendo più mostrare le unghie e digrignare i denti, la causa palestinese e i diritti arabi, cercando di strappare contratti petroliferi alle direzioni nazionaliste che intanto prendevano il potere in tutta una serie di Paesi dell’area.

Troppe volte sentiamo dire che “ci vorrebbe più Europa”. Ma ciò significa, in ultima istanza, più potere militare all’Europa, perché senza potenza militare gli USA andranno avanti tranquilli per conto proprio. Pensiamo forse che l’imperialismo europeo unificato sia più buono di quello USA? Ma andiamo! Guardiamo cosa propongono Francia, Germania e Russia per il dopoguerra iracheno: forse l’elezione di un’assemblea costituente? Forse un governo di soli iracheni senza alcuna ingerenza straniera? Oppure la cancellazione del suo debito estero? No: chiedono, in buona sostanza, di poter partecipare insieme agli USA al dominio politico sull’Iraq e alle gare d’appalto che si organizzano sulle macerie. Nell’attesa “daranno battaglia”, così dicono, per mantenere l’embargo dell’ONU, lo stesso che ha provocato la morte di mezzo milione di bambini iracheni.

L’unica risposta corretta non è quella di tifare per il proprio imperialismo, ma quello di opporsi a qualsiasi imperialismo, grande o piccolo che sia.

Le masse arabe

La capacità mostrata dalla cricca di Saddam nel difendere il proprio Paese si è dimostrata al di sotto dello zero. Il suo regime, al pari delle altre dittature “laiche” dell’area, era efficientissimo a reprimere il proprio popolo, certo non a difenderlo dagli assalti esterni. Pari sconfitta vergognosa l’aveva già subita la direzione talebana-jihadista in Afghanistan. Queste direzioni fatte di fanatici, fascisti e dittatori, bravi solo a minacciare senza concludere un accidente, eroi nell’opprimere le proprie donne e rincoglioniti nell’affrontare i padroni del mondo, hanno mostrato tutta la propria incapacità di farsi carico degli interessi nazionali dei popoli di quell’area. Le uniche direzioni nel secolo passato che siano riuscite a combinare qualcosa contro gli imperialismi sono direzioni nettamente collocate a sinistra. E la ragione è semplice: essere a sinistra significa cercare di guadagnarsi la simpatia delle masse popolari anche con misure immediate di redistribuzione del reddito (riforma agraria, espropri, ecc.). Ma le direzioni nazionaliste borghesi in tutte le loro varianti (fondamentaliste, panarabiste, ecc.) non agiscono certo in questa direzione, e dunque si privano da sè dell’unico fattore di cui potenzialmente dispongono: quello della resistenza di massa. L’unica resistenza irachena che ha fermato gli angloamericani durante la prima settimana è stata proprio quella dell’esercito regolare, fatto di contadini e lavoratori che sentivano come dovere quello di difendere la propria terra. Gli USA speravano che proprio costoro si arrendessero massicciamente: non è accaduto, nonostante Saddam li avesse praticamente abbandonati a se stessi nel Sud del Paese. Le sue truppe fedeli, invece, la famosa Guardia Repubblicana, specializzate nell’assassinio della propria gente, all’avvicinarsi delle truppe USA si sono squagliate come neve al sole.

Solo se le masse arabe e musulmane sapranno dotarsi di direzioni politiche allineate con gli interessi degli operai e dei contadini, saranno in grado di difendere anche i propri interessi nazionali. Gli USA possono permettersi di invadere Afghanistan e Iraq ma non Cuba. Perché invadere un Paese il cui regime (pur con tutti i suoi anche inaccettabili limiti) gode di un grande consenso sociale (grazie a misure come riforma agraria, sanitaria, scolastica, ecc.) è un problema di non poco conto. Ricordiamo che gli USA si sono potuti permettere di invadere Panama, dominato da una banda nazionalista stile Saddam, ma non il Nicaragua sandinista contro il quale si sono dovuti inventare la guerra di bassa intensità. Se c’è un intero popolo che difende il proprio Paese e una direzione politica che sa valorizzare questo apporto, allora diventa davvero difficile invadere, anche per la massima potenza mondiale.

Le prospettive

All’interno di una dinamica che vede l’imperialismo USA stravincere, si possono senz’altro già individuare le controtendenze in grado di alimentare dinamiche di segno opposto. Vediamone alcune, con molta sintesi.

a. Il quadro del Medio Oriente è estremamente movimentato. La direzione politica di cui gli USA si sono dotati è assolutamente impreparata a fronteggiare il fattore masse. La sua cultura politica spinge a considerare come fattori del gioco di potenza, in buona sostanza, la sola capacità militare. Ed è per questo che essa tuttora non ha compreso perché gli USA abbiano perso in Vietnam (dove la direzione Nixon-Kissinger esprimeva una cultura simile). Il controllo territoriale che gli USA hanno in mente per l’area mediorientale è fatta di presenza di basi militari e direzioni politiche fantoccio. Questo tipo di occupazione lascia nei fatti libero spazio al movimento di massa e alla sua organizzazione, per lo meno come potenzialità. Gli USA non hanno infatti la possibilità di instaurare un controllo territoriale di tipo totalitario (come i nazisti fecero durante la seconda guerra mondiale nelle terre slave o anche in Italia con l’aiuto dei fascisti). Le alternative all’occupazione si svilupperanno così sotto gli occhi degli USA e saranno alternative difficilmente bombardabili.

b. L’atteggiamento nei confronti dell’Europa costringerà questa, o per lo meno una sua parte, anche se con enormi contraddizioni, a costituirsi come polo autonomo, a crescere e a sfidare gli USA. Anche le potenze più tiepide, e forse un giorno persino il Regno Unito, saranno costrette a prendere contromisure per contenere il dilagare dell’impero USA. Nell’assenza di un pericolo incombente che unisca tutto l’Occidente, il destino che ci si prepara è quello di un confronto tra USA ed Europa, ma con una potenza, quella USA, che ha tutti i suoi fattori in declino, a parte quello militare. La crisi finanziaria USA minaccerà sempre più la sua coesione sociale interna, un elemento questo che la cultura politica del gruppo che oggi ha le redini del potere non è attrezzato a valutare correttamente, dato che sottostima costantemente il fattore masse.

c. La lezione irachena l’hanno imparata anche soggetti per ora silenziosi. In prospettiva oltre all’Europa, anche la Russia, l’India e soprattutto la Cina, non potranno che attrezzarsi per far fronte all’espansione USA, innanzitutto rafforzando la produzione di armi di distruzione di massa. Il trend che vedeva dagli anni ottanta diminuire il numero di armi nucleari, dopo la guerra all’Iraq, senz’altro, si invertirà. Non solo. Anche tutta una serie di potenze minori, pur di non sottostare ai potenziali ricatti USA, saranno costrette a muoversi in quella direzione, con un aumento dei pericoli globali che gli USA potranno correre.

d. I mesi precedenti il conflitto hanno mostrato una sorprendente perdita di egemonia politica della superpotenza USA, abbastanza inimmaginabile venti anni fa. Il che sta a testimoniare di come la sola potenza militare, se non accompagnata da una proporzionale potenza economica, prima o poi, è destinata a soccombere, come accadde a suo tempo alla potenza inglese e a quella francese. Notevole il fatto che tutta una serie di governi filostatunitensi, come ad esempio il Messico, governi con profondi legami economici con gli USA come quello cileno, e staterelli africani dal quasi nullo potere di negoziazione, si siano negati a sostenere Washington. E’ probabile che per tutto il periodo in cui permarrà la divaricazione tra potenza militare senza rivali e declino economico, caratteristiche attuali dell’impero USA, il ringhio statunitense dopo la vittoria in Iraq incuterà un surplus di timore. Ma, nonostante tutto, il pianeta del XXI secolo è comunque un po’ troppo grande per poter essere retto con il solo terrore di una sola potenza e senza alleanze fondate sul reciproco interesse.

e. Da ultimo: il movimento contro la guerra. Complessivamente esso si è rivelato un fenomeno di primo piano in questa crisi. Esso esce certo sconfitto, ma non distrutto, né disperso. Data la natura delle democrazie parlamentari, non si sentiranno subito gli effetti della potenza da esso dispiegata. Ma non c’è dubbio che le coalizioni di centrodestra di Spagna e Italia escono fortemente ridimensionate nella loro legittimità, con ripercussioni di non poco conto nelle lotte sul terreno nazionale. Per la prima volta nella storia ci sono state manifestazioni di massa sincronizzate in ogni angolo del pianeta, anche se di diversa dimensione. Una nuova generazione, quella che dovrà affrontare il dilagare dell’imperialismo Usa e la nascita di quello unitario europeo, ha mosso i suoi primi passi, passando dal terreno generico di lotta contro la globalizzazione, dagli incerti avversari, ad una lotta tutta politica contro nemici in carne ed ossa, e cannoni. L’esistenza di questo movimento si basa sul fatto che una parte crescente di coloro che vivono nella parte più privilegiata del pianeta, di fronte alla possibilità di una guerra permanente contro il resto del mondo e addirittura all’interno della propria parte, rifiuti questa prospettiva preferendo delle alternative, anche se queste comportano, in ultima analisi, una sorta di redistribuzione mondiale delle ricchezze.

Con la velocità tipica del mondo capitalista, la rottura dei rapporti bipolari rappresentata dall’89 sta generando esplosioni e terremoti. Ma proprio una delle caratteristiche della contemporaneità, e cioè il protagonismo delle masse, può permettere di evitare che si compia ciò che è già scritto sul piano della competizione tra potenze, una scrittura di sangue e di guerre, e pagine di libri ancora non scritti si impongano sulla strada dei generali del ricco Occidente.