moggica.jpgmerini.gifdi Giuseppe Genna
Alda Merini ha rotto i coglioni alla comunità poetica: non ci vuole molto e in più si tratta di un’opera meritevole. Che però la si scambi per una delle massime poetesse del Novecento e, ahinoi, anche di dopo – beh, è una disdetta. Passi per la vertigine iperrealista che ci trasmise la visione mediatica del suo flaccido corpo nudo: amiamo certi gesti estetici e, di fronte alla ipocrita sacralità che accoglie il mummificato profilo poetico di Mario Luzi, ci voleva una scossa di ulteriore cattivo gusto. Però c’è un limite anche al cattivo gusto. Per esempio, c’è un limite al conato catodico impulsato dalla visione della tracimazione sudoreccia e patafisiologica di Vincenzo Mollica. Sì, trattasi proprio di quello cogli occhiali che, accanto a indubitabili meriti divulgativi (su tutti, l’accanimento propedeutico sull’opera di Andrea Pazienza), fa l’intervista leccacula a Ferrara a Sanremo (cioè: al giocatore della Juve in località ridente della Riviera). Quello che ci dimostra spesso di saperne quanto a cinema, musica e tv. Quello che sembra un vastissimo cotton fioc umano. Quello che ora, per la collanina multimedia stilelibera, cura uno sconcertante confanetto sulla Merini. Calatevelo: è meglio di un acido.

Anzitutto il titolo: Più bella della poesia è stata la mia vita. Ora, tutti sappiamo che vita di merda ha fatto la Merini: un bruttissimo karma manicomiale e affettivo. Figuriamoci se la sua vita è stata più bella della sua poesia: c’è da non leggere le sue poesie. Infatti ve lo consigliamo: non leggete le poesie della Merini.
Esiste una fascia di poeti che la massa (perdonate il termine utilizzato in senso spregiativo) legge credendoli poeti eccezionali. Fuori i nomi: il primo e più insopportabile è Kahlil Gibran. Quello islamico e tradizionalista che i ciellini leggevano come brano al matrimonio, nel momento in cui cinque minuti di notorietà parrocchiale si concedevano a tutti, a partire dagli amici della sposa sul palco delle pubbliche letture, col parroco ridente e lubrico lì a quattro passi dopo averlo avuto a ben meno di quattro passi. Gibran è un equivoco: è come se la bianca Einaudi editasse i Baci Perugina (che, in effetti, probabilmente traggono le citazioni anche dalla bianca Einaudi).
Poi c’è Nazim Hikhmet.
E ultimamente c’è la Merini.
Non sto a disquisire di categorie stilistiche, metriche, retoriche. Esprimo soltanto una profonda convinzione personale: la Merini sta alla poesia come Camilleri alla letteratura. Ma non è questo il punto.
Il punto è Mollica Vincenzo, quindi, più che un punto, è un enorme cerchio. Già l’inquietante presenza di quel metafisico della deficienza collettiva che è Adriano Celentano, il quale dedica alla venerabile maestra Johnny Guitar (ma perchéééé???), sarebbe un buon motivo per acquistare un antiemorroidale insieme all’orrido cofanetto.
Ma Vincenzo Mollica… Vincenzo Mollica che parla di poesia… Ma chi gli dà la licenza di insinuarsi furtivo, oltre che nella quotidianità televisiva, anche nella storia della letteratura? Come può un giocatore di sumo infilarsi furtivo in un qualunque luogo?
Invece può. Sai, c’è il suo amico Benigni che si è cimentato con un’opera letteraria come Pinocchio. L’emulazione… l’amico Benigni… la mafietta… la poesia è un passaporto per l’immortalità…
Tutto il contrario – almeno disponiamo di questo conforto. Anche i giocatori di sumo vanno in pensione. Speriamo che Mollica abbia pagato i contributi previdenziali dal primo giorno di lavoro.
Nel frattempo, dimenticate quanto detto sopra: piuttosto che comprare questo cofanetto, calatevi un acido, che è meglio…