pierfrancescomajorino.jpgPierfrancesco Majorino, trentenne milanese, resistente in forma di coordinatore dei DS a Milano, autore del reportage antropologico Giovani anno zero (adnkronos libri, 2000), sta per esordire in narrativa con un romanzo che, a detta dello scrivente, è straordinario almeno quanto quello di Mario Desiati e che si intitola Dopo i fulmini, gli abeti – una storia di formazione che si tramuta in una storia psichiatrica che si tramuta in una storia carceraria. Ne riportiamo alcuni frammenti sparsi, specificando che “l’Orda” è il gruppo mitologico che eietta questa vicenda corale e allucinata. [giuseppe genna]

I miei guerrieri erano barche di carta. Il loro oceano era un catino azzurro.
Le signorine vestite di bianco dell’ospedale m’avevano fornito il mare perché mi passasse il tempo.
Non avevo autentici guerrieri, quei giochi dei guerrieri che mi riempivano le giornate ed erano rimasti a casa. Così li avevo sostituiti con le navi di giornale.
Si trattava di fogli di un periodico femminile che era uscito dalla borsa di mia nonna.
La carta lucida ne faceva delle imbarcazioni resistenti alle correnti d’acqua marina, perfino quelle del mio catino, dove io immergevo le mani e sputavo la saliva.

Il tempo passava di rado. Guardavo le barche dentro l’azzurro e mi spingevo un po’ in là nei corridoi, sentendo le signore commentare che l’ospedale non era un posto per bambini.
Avevo quindici anni. Otto per natura a cui ne avevo aggiunti sette per necessità, così da poter rispondere “quindici” a chi li domandava.

Mia mamma non si aggiustava mai. Il suo mento non tornava a posto e la dovevano tenere lì. Era anche perché poteva avere qualche disturbo alla testa, penso roba tipo un’emorragia interna.
Aveva la faccia gonfia e il mento graffiato e rotto che non andava a posto.
Era stato Antonio, suo fratello, mio zio, con un colpo forte e preciso, peggiorato dall’anello d’oro dalla forma sporgente.

Un pugno sul mento della madre non è facile da dimenticare. Anche perché mio padre rimaneva fermo.
Era davanti, seduto sulla sedia a leggere il giornale e rimaneva fermo.
Aveva spalancato gli occhi, aperto la bocca ed era rimasto immobile.
Il colpo era stato di Antonio. Ed era domenica.
Lo zio che veniva da lontano, con le sue valigie cariche di libri per tutti e coi suoi lunghi discorsi sui problemi del lavoro.

Vedevo in quelle giornate d’ospedale mio padre appiccicato alla fronte della mamma come mai gli avevo visto fare. Quasi che quel pugno avesse smosso due corpi tutti e non il mento solo.

Il mento di mia madre non è mai tornato a posto. L’ho sempre visto sottosopra, e l’ho notato pure nella foto del mio matrimonio.
I galeoni di carta dell’ospedale rimanevano nel catino anche quando finivano in pezzi. Accadeva dopo qualche ora, con l’acqua che vinceva la sua sfida eterna.
Tutto poi finiva nello sciacquone e il mio mare conosceva una fine che non capivo.

A mia madre il mento bruciava. Anche tornati a casa la sentivo lamentarsi e tenersi il mento.
Se Antonio chiamava non se lo faceva passare. Ci pensava mio padre con fermezza e buona educazione.

Se rifossi lì, ben piantato come sono ora, con Antonio lo zio della domenica di fronte a mia madre, farei qualcosa, non so cosa, ma davvero qualcosa.

Un calcio volante lo saprei inventare.

*

Pochi minuti dopo sono immerso nel bosco. Percorro il sentiero azzurro dove cerco la favola del Malservito, arrivo alla Vallata Bianca dove l’Orda nei miei sogni aveva combattuto l’ultima battaglia per la propria libertà. Quella autentica.

Rivedo gli alberi scorticati, i pezzi di corteccia in terra, le frattaglie di ginepro sbattute a mucchi a coprire i corpi della moltitudine. La stessa persa tra le pieghe dei capelli del Malservito.
Colui che fu gigante di monte e di pietra, quello delle nuvole azzurre, della pioggia che cade in faccia, dei versi riversati in coda ad ogni libro terminato male.

Il Malservito veniva a trovarmi ogni notte. Lo ospitavo nel letto, mi faceva vibrare il corpo, mi
guidava nei mestieri di un’adunata sediziosa.
Quella dell’Orda. Uomini e donne dallo sguardo sconfinato e perso, dalle pelli diverse e dure,
dalle lingue sfinite e diseguali a far mistura di parole.
Ed io con lui, li affrontavo con le lettere e i loro suoni da combinare insieme in incastri di rumori e sillabe da riempire il vuoto di pagine bianche e minuti svuotati.
Eravamo tutti insieme da soli, di una solitudine accompagnata dai nostri sentieri diversi e da percorrere altrove.

Io, l’ Orda e l’enorme Malservito, in una notte di novembre di centinaia di anni fa, combattemmo convinti di poter morire, perché pensavamo al bosco, ai suoi rudimenti da conservare con cura, al suo equilibrio fatto di suoni di vento che ti sbatte in faccia alberi e rami.
Guerreggiammo per diverse nottate scure finché esausti e tutti ancora in piedi capimmo di doverci alleare. E così a difesa del bosco, per il quale senza comprenderlo ci eravamo egualmente battuti, ci schierammo ad Oriente della Vallata Bianca in attesa dell’Esercito dei Presunti Liberi, quello delle battaglie sante che, lo sapevamo bene, ci avrebbero sfinito.

*

La mia innocenza è scritta nella mani. Ho mani dolci che non sanno fare male. Si stringono a pugni e non sanno fare male. Dirò questo quando mi chiederà, nei miei ultimi minuti di vita, i motivi della mia persistente e cocciuta litania. “Non sono stato io”.

Arrivederci, ragazze perse da dopocena, pruriti selvaggi d’aperitivo, appartenenze incerte e malvolute.
Arrivederci alle catene e arrivederci all’innocenza.
Che tanto non serve più, non dimostra niente e costa caro.
Ha parcelle da capogiro e noiose spiegazioni.