pincio.jpgsebold.jpgNostalgia (con stupro) del mondo senza di me
Perché fa tendenza “Amabili resti” di Alice Sebold
Di Tommaso Pincio

[ da Alias, 11 gennaio 2003 ] Anche il 2002 ha avuto il suo best-seller senza precedenti: “il romanzo d’esordio più venduto nella storia degli Stati Uniti”. Un successo che non meraviglia più di tanto, considerato il plot del libro: una ragazzina quattordicenne che racconta dal paradiso le vicende legate al brutale stupro e assassinio di cui è stata vittima. aliasicona.jpgIn effetti, però, non stiamo parlando di un vero esordio né di una storia propriamente nuova. Solo un paio di anni prima di Amabili resti (traduzione di Chiara Belliti, edizioni e/o, pp. 372, € 14,50), Alice Sebold aveva pubblicato un memoir sulla violenza sessuale da lei subita nel 1981, quando era ancora una matricola alla Syracuse University.

seboldcover.jpgTra gli espedienti cui gli scrittori di narrativa ricorrono con maggiore frequenza c’è, non a caso, quello di forzare la realtà, di esagerarne certi aspetti talvolta fino al limite del parossismo. Amabili resti è emblematico in questo senso, perché laddove la scrittrice è la vittima sopravissuta di uno stupro, la violenza si abbatte sulla protagonista del suo romanzo fino alle estreme conseguenze; laddove Alice Sebold fa la sua tremenda esperienza quando è una donna quasi fatta e già capace di battute amare come “le uniche cose che avevo messo in bocca quel giorno erano un biscotto e un cazzo”, Susie Salmon è poco più di una bambina convinta ancora che basti dire “mamma mi vuola a casa prima che faccia buio” perché il suo carnefice si convinca a lasciarla andare.

Molto si è detto negli Stati Uniti della voce pacata, quasi serena e a tratti perfino distaccata che Alice Sebold ha ritagliato per il suo personaggio. Ma se si decide di riconoscere che il segreto del romanzo consiste sopratutto nel suo insolito registro narrativo, allo stesso modo non si può fare a meno di rilevare che un lavoro sul tono era comunque indispensabile per compensare gli effetti di una trama così strappalacrime. Uccisa brutalmente dal solito serial killer della porta accanto, Susie Salmon continua a esistere in un paradiso personale che ha l’aspetto del liceo cui le sarebbe piaciuto iscriversi, un Cielo tutto suo dove i libri di testo sono riviste di moda e dove può disporre di un grazioso gazebo da cui osservare come sulla Terra la vita continui anche senza di lei – la vita della famiglia straziata dal dolore, dei compagni di scuola, del poliziotto incaricato delle indagini, dell’uomo che l’ha uccisa. Dall’alto del suo Cielo, la piccola Susie osserva e comprende tutto: è ubiqua, va avanti e indietro nel tempo, legge nel cuore e nella mente delle persone. E’ in buona sostanza la perfetta incarnazione di un altro tipico espediente da scrittori: il narratore onnisciente.

Nelle ultime pagine del romanzo la piccola Susie riassume in poche parole il segreto della sua voce tanto speciale: “il mondo senza di me”. Letta nell’economia della trama, la frase esprime qualcosa di molto ovvio e non sarebbe il caso di ragionarci sopra se non sottolineasse un elemento fondamentale: il fatto che i resti della protagonista uccisa non vengono mai trovati, a eccezione di un pezzo di gomito, un braccialetto e poco altro. Il mondo è dunque senza Susie non soltanto perché lei non c’è più, ma perché la mancanza di un cadavere la esclude in qualche modo dal regno dei morti, collocandola in un limbo dove l’unica certezza è a nostalgia delle cose inespresse e non esperite: cose come quella di non aver potuto dare un vero bacio al ragazzo di cui si era innamorata.

Un inventario delle parole usate in Amabili resti avrebbe proprio “nostalgia” tra quelle più ricorrenti. Alice Sebold è abile a modulare questo sentimento, a renderlo qualcosa di vivo, quasi a voler dire che di nostalgia assurge a una condizione assoluta che riguarda tutti per l’eternità, e altri in cui essa diventa addiritura un veicolo che consente ai morti di manifestarsi tra i vivi sotto forma di riflesso in uno specchio o sul tappo di una bottiglia. Ma è nelle primissime righe che la nostalgia mostra la vera faccia, non ancora imbellettata da variazioni sul tema e invenzioni narrative più o meno efficaci: “Era negli anni Settanta…quando ancora la gente non pensava che cose simili potessero accadere”.

Nel 1973, l’anno in cui la Susie del romanzo viene uccisa, Alice Sebold aveva dieci anni e quello che descrive è per certi versi anche il mondo delle sue nostalgie: una famiglia normale, un padre premuroso e ansioso, una madre che vede nelle vita domestica la gabbia dei suoi sogni, un quartiere di case tutte uguali, un’infanzia ordinaria che può essere tanto la sua che quella del suo personaggio. Il brutale assassinio è la molla scatenante, ma a mano a mano che il racconto procede sembra quasi sfumare, come non fosse quello il punto. Qualcosa di analogo accade in Lucky, il libro autobiografico dell’autrice: allo stupro è riservato solo il primo capitolo; alla famiglia, i restanti. In entrambi i casi il vero argomento è l’armonia precaria e rimpianta degli affetti famigliari, delle prime infantili e dei primi amori. La violenza subita, reale o immaginaria che sia, diventa il trauma occasionale di un incanto che il tempo avrebbe spezzato comunque.

Giallo new age, gruppo di famiglia formato album dei ricordi, ritratto di una ragazza come fantasma: sono questi gli ipotetici generi letterari in cui potrebbe rientrare Amabili resti. Ce n’è però un altro, forse ancora più appropriato, che accomuna Alice Sebold a molti altri scrittori statiunitensi nati negli anni sessanta. E’ da un po’ di tempo, infatti, che negli Stati Uniti si raccontano storie di bambini o ragazzi la cui crescita viene interrotta o minacciata dal mondo circostante. A partire da Le vergine suicide di Jeffrey Eugenides, nell’ultimo decennio si sono susseguite storie di persone che patiscono qualcosa nella prima giovinezza, qualcosa che le porta a diventare adulti incompleti e a non diventarlo affatto. Un mirabile concentrato di questa generazione interrotta lo si trova in un’antologia dal titolo significativo, Burned Children of America (pubblicato in Italia da minimum fax), con autori come Bradford, Saunders o Wallace che raccontano storie di bambini obbligati a parlare anzitempo con maschere artificiali o che rischiano di essere tagliati in due dalla sega circolare del papà; scrittori che confondano deliberatamente la realtà con l’immaginazione e che hanno svillupato una speciale predilezione per i toni da fiaba.

La grande tradizione americana del racconto sul “coming-of-age” è stata ribaltata e i ragazzi non partono più alla scoperta del mondo con lo spirito avventuriero che animava Huck Finn, il giovane Holden o i protagonisti di Stand by Me, ma si chiudono invece in un nostalgico fatalismo che li rende spesso indifesi e incapaci di opporsi al male del mondo. Da un recente studio è emerso che negli Stati Uniti l’adolescenza si protrae ormai fino ai trentaquattro anni d’età. I sociologi, com’era prevedibile, hanno spiegato che è per via della televisione. La letteratura pare invece limitarsi a constatare che la linea d’ombra di conradiana memoria è stata sostituita da un limbo incantato dove tutto è malinconiamente bello, anche quando ti violentano in un fosso o ti sparanno in faccia senza motivo.