di Valerio Evangelisti

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Ormai anche in Italia i lettori cominciano a riconoscere nel genere noir una delle forme più vitali della letteratura contemporanea. Fioriscono dunque, presso i piccoli e medi editori, collane a esso dedicate, spesso di elevata qualità. Fanucci, che della media editoria è divenuto meritatamente uno dei leader, ha scelto una via diversa e particolarmente stimolante: ha inserito il noir in una collana chiamata dark, dedicata a ogni espressione della parte in ombra dell’animo umano, senza riguardo per il genere narrativo di volta in volta capace di esplorarla. Affidata a uno specialista di anglistica come Luca Briasco, finora la collezione ci ha riservato solo ottime sorprese.
L’ultima, però, ha il sapore dell’evento. Questo La notte e la città di Gerald Kersh, pubblicato per la prima volta nel 1938, da noi non era mai stato tradotto. Si conoscevano solo i due film che ne sono stati tratti: lo splendido I trafficanti della notte di Jules Dassin (1950) e lo sbiadito La notte e la città di Irwin Winkler (1992), fedele al romanzo solo nel titolo e interpretato da un De Niro ai limiti della sopportabilità. Del libro originale non si sapeva nulla.


Ora possiamo capire cosa ci siamo persi dal 1938 a oggi. L’inglese Gerald Kersh (1911-1968), autore di una decina di opere non tutte memorabili, ha scritto un noir degno di competere, con buone probabilità di vittoria o di pareggio, con i maggiori classici del genere.
Due sono gli elementi principali che danno al romanzo tanta forza: la descrizione di una Londra notturna, cupa e formicolante, che raggiunge toni espressionistici, e la scelta per protagonista di quello che definirei un personaggio negativo, se la definizione non risultasse impropria e insufficiente. Harry Fabian non è affatto un genio del male, e forse nemmeno un criminale consapevole, anche se i gangster americani sono per lui un modello. E’ invece un individuo mediocre e abbietto, dalle pose ridicole e dai comportamenti disgustosi, che si arrabatta nelle sentine della metropoli, tra baretti, sale da biliardo, alberghi equivoci e uffici dalle attività indefinite, per fare quattrini in fretta. A questo fine, che è l’unico previsto dal suo orizzonte morale, è capace di qualsiasi azione, compresa la più immonda. Ma ogni cosa che faccia la fa strisciando, e così non si attira né timore né considerazione, bensì solo disprezzo.
Seguiamo questo individuo, riluttanti eppure partecipi, nell’impresa a cui affida le proprie speranze: trasformarsi, da pappone che è, in manager di incontri di lotta libera. La sua spasmodica ricerca del denaro necessario lo porta a contatto con personaggi talora più squallidi di lui, talaltra solo più miserabili e con storie di dolori e sconfitte alle spalle. Uniti, però, dal fatto di vivere tutti nella notte londinese un’esistenza marginale e disperata, come se l’altra città, quella nota ai comuni cittadini e ai turisti, non esistesse nemmeno.
Fabian ha un asso nella manica: lo Strangolatore Nero, un gigante suonato e bambinesco di cui si intuisce subito, fin dalla prima apparizione, la sorte tragica; così come si intuisce che il destino dello stesso Fabian non sarà diverso. Questo è infatti l’andamento di tutto il racconto, che sarebbe scontato se il percorso ineluttabile non fosse continuamente attraversato da storie parallele e minori, altrettanto drammatiche, e da squarci di vita urbana impressionanti e taglienti. Per non parlare dell’assidua osservazione della personalità, dei ragionamenti, delle azioni di Fabian, vale a dire un flusso di meschinità congenita e di ambizioni frustrate.
Tutto ciò parrebbe rimandare ad altri autori e ad altri libri, se Kersh non possedesse uno stile proprio, per certi versi bizzarro, che rende difficili gli accostamenti. La vivacità e la sinteticità dei dialoghi, fatti di poche frasi e privati di tutto il superfluo (fattore importante di suspense), indurrebbero a pensare ad Hammett; solo che Kersh, una pagina dopo, cambia completamente registro. D’improvviso, durante la narrazione, Kersh rallenta il ritmo, getta sul tavolo un paio di considerazioni non banali, interroga se stesso e il lettore (“Quanto a Bagrag, nessuno sa niente di niente. Chi è? Che cosa è?”) come in un romanzo dell’Ottocento. Ciò avviene soprattutto quando si tratta di descrivere una psicologia. In quel caso la descrizione si fa lunghissima, e parte dagli attributi fisici (come in Hammett) per approdare a quelli morali (che in Hammett, e ancor più nel suo diretto allievo Manchette, sono descritti solo attraverso i primi).
Simile procedimento non suscita noia, tutt’altro. Lo stesso si può dire per le riflessioni generali che, riferibili solo all’autore che sta parlando al suo pubblico, molto spesso introducono una scena (“Il bugiardo abituale crede sempre che le sue bugie sembrano vere. Non c’è miracolo di fede che eguagli la sua infantile fiducia nella credulità di chi lo ascolta; e così avviene che non inganna nessuno tanto completamente quanto inganna se stesso”). Qui siamo lontani mille miglia dallo stile consueto del noir americano, da Black Mask e dalla sua scuola; e anche da scrittori più eclettici come W.R. Burnett e altri coevi. Il fatto è che Kersh è inglese, ed estraneo a ogni pragmatismo. Il giudizio morale in lui si fa sentire. Come accadrà molto più tardi con un altro straordinario autore britannico, Derek Raymond. Non disponendo, come questi, di un io narrante, Kersh deve esprimersi in prima persona, oppure creare un personaggio apposito — nello specifico un fruttivendolo cockney — cui affidare l’onere del commento e del giudizio.
Ciò che resta escluso è l’esporre il punto di vista di Fabian senza nulla che ne contrasti l’immoralità. E’ questa una caratteristica del genere noir, e anche un po’ il suo limite. Una qualche forma di morale deve esserci, esplicita o sottintesa. Non ha funzione consolatoria, come nel poliziesco, e non si propone il ristabilimento di un ordine turbato. Però fissa paletti precisi tra bene e male, operazione sentita come obbligatoria da autori che hanno deciso di porre al centro del racconto patologie individuali o sociali. Di violazioni a questa regola se ne sono viste solo di recente; non tanto nel noir quanto in quell’ambito composito che Fanucci, con felice intuizione, ha scelto di chiamare dark.
Ma, oltre a quelli elencati, Kersh dispone di un terzo modulo stilistico. Lo usa quando deve descrivere il vero co-protagonista del suo libro, e cioè la città di Londra. E’ un accumulo, smagliante e privo di artificiosità, di metafore e similitudini, scandite dall’avverbio “come”: i treni della metropolitana schizzano fuori dai tunnel come dentifricio rosso da un tubetto; i teatri risucchiano come aspirapolvere le file di spettatori in attesa; e così via. L’espediente, ripetuto in tutto il libro, finisce per proporre della metropoli un’immagine sincopata, fatta non di quadri statici, bensì di luci e di colori. Una sorprendente anticipazione di quel fulminante London burning che decenni dopo avrebbe fatto la fama dei Clash, coniugando impressionismo ed espressionismo in un linguaggio oggi comune, ma del tutto desueto nel 1938.
Tutto ciò per dire che, leggendo Kersh, si dimentica con facilità la data in cui scriveva. Il quadro metropolitano che offre resta largamente applicabile alle grandi città dei giorni nostri. Non è un merito da poco. Si pensi a cosa si leggeva in Italia nel 1938, e a quanto poco di quella produzione suscita ancora interesse. Si tratta di un gap culturale che solo oggi si sta recuperando, ma con affanno. Nelle nostre librerie sono ancora numerosi, tra gli autori italiani, gli epigoni di Pitigrilli, riverniciati a dovere e scambiati per letteratura alta. Pochi quelli di Kersh.
Insomma, La notte e la città era un libro da riscoprire. Fanucci e Briasco lo hanno fatto. Ci aspettiamo da loro altri bei regali dello stesso livello qualitativo.