di Franco Ricciardiello

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Immaginate che William Gibson, dopo avere fondato il genere cyberpunk negli anni Ottanta e scritto romanzi di speculazione tecnologica ambientati nel futuro prossimo, abbia deciso di ridurre sempre di più il gap tra il tempo del racconto e il presente, fino a scivolare addirittura di qualche anno nel passato (il 2001); immaginate anche che abbia preservato il contenuto hi-tech che lo caratterizza, però sforzandosi di scrivere con lo stile di William Gaddis, quello di Carpenter’s Gothic per intenderci. Ecco: il risultato sarebbe probabilmente molto, molto vicino a Bleeding Edge, il nuovo romanzo di Thomas Pynchon.

Però Pynchon non è Gibson né Gaddis, e le cose si complicano in modo imprevedibile, disorientando chi aspettava la prova successiva a “Vizio di forma” (2009): perché Bleeding Edge non riconferma la “svolta” hard-boiled né ritorna al ‘picaresco americano’ che lo ha trasformato in un oggetto di culto. Innanzitutto perché la conversione noir era una falsa notizia, o un puerile auspicio dei colleghi più disimpegnati; in secondo luogo, perché il postmoderno è formula letteraria per definizione indefinibile, i cui confini si deformano ogni volta che una nuova opera sposta la linea più in là – o più in qua.

I comunicati stampa che hanno preceduto l’uscita sul mercato USA (il 17 settembre 2013) di questo voluminoso Bleeding Edge (477 pagine) sembravano alludere all’ennesimo romanzo sull’attacco alle torri WTC dell’11 settembre 2001. A mano a mano che la polvere si sedimenta, molti autori non resistono alla tentazione di scrivere cosa ha rappresentato per l’America questo inizio millennio choc. Però per quanto riguarda Pynchon, qualche dubbio avrebbe potuto legittimamente cogliere i commentatori: basti ricordare che dopo avere fatto incombere per oltre 1100 pagine il presagio sanguinoso della Prima guerra mondiale sui protagonisti di “Contro il giorno”  (2006), risolve lo scontro in un capitolo piuttosto astratto che – forse – non è neppure ambientato sul nostro pianeta ma su un’Altra Terra speculare.

Da una decina d’anni a questa parte (significativamente dopo l’11 settembre 2013) la critica USA ha inventato una nuova etichetta, “systems novel”: il romanzo americano contemporaneo che descriverebbe il funzionamento globale della società, in particolare per quanto riguarda i rapporti economici e l’esercizio ideologico del potere – definizione quanto mai vasta per complesse costruzioni narrative che spesso non disdegnano una contiguità con la fantascienza: dunque non solo DeLillo, D.F.Wallace, Gaddis, Pynchon, ma anche Neal Stephenson, Ursula LeGuin, William Gibson. La systems novel contrappone al precedente sistema di simboli narrativi, che in qualche modo nel romanzo tradizionale rimane “separato” dall’azione, un denso sistema di segni e simboli che riferiscono non solo al Mondo ma anche alla Scrittura. La system novel è  inevitabilmente critica verso la gestione dell’economia (i protagonisti di Bleeding Edge usano senza remore la formula marxiana ‘tardo capitalismo’).

Inutile comunque affannarsi per approfondire, dal momento che questa la system novel è già data per estinta.

La protagonista di Bleeding Edge è Maxine Tarnow, di professione detective antifrode, un’investigatrice specializzata in raggiri fiscali e amministrativi, che proviene dalla borghesia ebrea di New York; separata di fatto dal marito, deve gestire oltre al lavoro i due figli minori. Siamo nella primavera del 2001, si è appena dolorosamente sgonfiata la bolla finanziaria delle dot-com, le aziende che operano nell’avanguardia tecnologica digitale. Una vecchia conoscenza di Maxine, il regista Reg Despard, le chiede di indagare su una ambigua società di sicurezza informatica chiamata hashslingrz (con la “h” iniziale minuscola) che l’ha incaricato di girare un film pubblicitario. Analizzando dati e bilanci, Maxine scopre che il mefistofelico AD di hashslingrz, Gabriel Ice, invia segretamente fondi in Medio Oriente tramite un sistema di trasferimenti parallelo ai canali finanziari. Questo è l’inizio di una narrazione inusitatamente veloce per Pynchon, costruita con capitoli di lunghezza limitata; non un romanzo d’azione, dal momento che i protagonisti trascorrono una parte considerevole del tempo a parlare in caffè e ristoranti dell’Upper West Side di Manhattan, ma una storia in cui – e questa è la vera differenza con i precedenti – il plot assume davvero un significato narrativo. Basti pensare che Publishers Weekly ha scritto che “leggere Pynchon per la trama è come leggere Jane Austen per le scene di sesso”.

Maxine  rimane il punto di vista dal primo capitolo all’ultimo, come due suoi illustri precedenti: Oedipa Maas, l’anti-eroina di “L’incanto del lotto 49” (1966) e Doc Sportello, il detective hippie di “Vizio di forma”; ma quei due erano personaggi caratteristici della controcultura nella quale Pynchon visse i suoi anni Sessanta, Maxine Tarnow invece è il prodotto del ritorno dell’autore alla nativa New York City: una giovane “madre ebrea” non eccessivamente apprensiva verso i figli, piuttosto aperta per quanto riguarda i metodi d’indagine, visto che ha contatti con un’amica femminista radicale, un ex istruttore degli Squadroni della Morte in Guatemala e un giovane adoratore del feet fetish, e che non si sottrae se è necessario portare con sé un’arma da fuoco, quando si tratta di scendere nel ciberspazio o davanti alla necessità di mettersi in topless e esibirsi in una lap dance.

Come sempre in Pynchon, il titolo è una chiave di lettura non necessariamente trasparente: bleeding edge in inglese indica una tecnologia così recente (e di conseguenza non completamente affidabile) da comportare rischi finanziari e industriali. In italiano non esiste una analoga metafora , si può tradurre con “tecnologia d’avanguardia”, ma nell’originale quel bleeding, “sanguinante” (deformazione di leading, “all’avanguardia”), evoca un rischio tangibile, fisico: la “cresta dell’onda tagliente” dell’avanguardia hi-tech. Il ciberspazio di William Gibson ha un posto di rilievo nella narrazione, è l’universo ‘vita virtuale’ DeepArcher (significa “arciere profondo” ma si pronuncia come departure, “partenza”), dove l’avatar di Maxine incontra le proiezioni di altri naviganti: improvvisamente dopo l’attentato questo mondo si riempie di presenze, come a suggerire l’ipotesi che le vittime dell’attacco alle torri del WTC, disintegrate in molecole insieme ai due grattacieli, siano migrate nella second life di DeepArcher.

Il romanzo ha ricevuto una buona accoglienza critica; naturalmente Michiko Kakutani, la più temuta fustigatrice della letteratura americana, lo ha classificato ancora una volta come ‘Pynchon light‘ in confronto ai suoi romanzi ante millennio, con “Contro il giorno’ (2006) a fare da spartiacque. L’ambientazione East Coast, contemporanea ma non troppo, è di nuovo incastrata in un momento cruciale della Storia, che non è l’avvio della fallimentare Guerra al Terrore di Bush, ma il momento in cui una pervasiva tecnologia d’avanguardia ha iniziato a essere diretta contro i cittadini.

Che prima o poi Pynchon si occupasse di tecnologia virtuale non era cosa prevedibile; malgrado il contenuto elevato di tecnologia nella sua scrittura, ha sempre prediletto ambientazioni precedenti la rivoluzione digitale. Paradossalmente, proprio la scelta estetica/ideale di negarsi come personaggio pubblico fa sì che sia lui il maggiore soggetto di “culto” letterario del web, più di Wiliam Gibson e persino di Philip K. Dick: l’idolo non-svelato di una galassia di nerds, studenti universitari, aspiranti scrittori e anarco-digitali che si incaricano dell’esegesi del Verbo e di registrare ogni minima epifania della Sua manifestazione terrena – probabilmente uno dei motivi per cui Pynchon continua a essere allergico alla figura di personaggio pubblico.

L’attenzione paranoica di Pynchon per le teorie del complotto è nota, e Bleeding Edge esce profeticamente nei mesi dell’affaire Snowden, quanto più vicino a un Grande Fratello si sia sperimentato fino a oggi. Sono passati pochi(ssimi) anni, ma la Silicon Alley, il distretto hi-tech di New York, è già un’ambientazione nostalgica, quasi una TAZ, una ‘zona temporaneamente autonoma’ che si riflette specularmente in DeepArcher, spazio ritagliato via dallo spazio, tempo ricavato da una piega del tempo. La degenerata gestione del controllo informatico denunciata da Edward Snowden ha trasformato Internet da luogo di illimitate possibilità di comunicazione libera a formidabile risorsa per l’estensione del controllo. Lo scrittore di fantascienza Bruce Sterling si domanda se il web non sia nato proprio per questo fine, e l’utopia della democrazia informatica non sia che una patetica illusione. Lo ‘stato mentale pynchoniano’ è esattamente questo, scrive Jason Tanz su Wired: la sensazione di trovarsi a un passo dalla conferma dei nostri istinti più paranoici, ma senza il conforto di saperlo per certo.

I fondi stornati da hashslingrz vanno alla lotta all’integralismo o a terroristi mediorientali? L’affascinante Nicholas Windust è un torturatore della Escuela de Américas oppure un romantico doppiogiochista che la salvato la moglie ecuadoregna dal genocidio etnico? I due uomini con un lanciamissili stinger sul tetto di un grattacielo sono lì per abbattere gli aerei nel caso i terroristi rinuncino all’ultimo momento, o è solo una recita a beneficio della telecamera di Reg Despard? “Da qualche parte, in qualche vergognoso recesso oscuro dell’anima nazionale, abbiamo bisogno di sentirci traditi, perfino colpevoli, come se fossimo stati noi a creare Bush e la sua gang,” dice Maxine. In Bleeding Edge non c’è nulla della dietrologia complottista che si è immediatamente sviluppata dopo l’attentato; non è neppure possibile discernere se gli oscuri segnali che precedono e seguono l’11 settembre siano concatenazioni di causa-effetto o una semplice catena di eventi scelti a caso, un’epifania paranoica come la mitologia di Tristero in “L’incanto del lotto 49”. Ma alla fine, che importa? La letteratura non è la vita, il postmoderno non è la letteratura e Pynchon non è il postmoderno – per cui godiamoci l’odissea di Maxine Tarnow nel suo labirinto di segni, nei sinistri sotterranei di questo inizio millennio di ferro. Come scrive un fan in un avvertimento ai neofiti sul sito Pynchon Wiki: “è il massimo di divertimento in cui puoi sperare in molti Stati senza rischiare l’arresto”.

In un illuminante intervento apparso sulla New York Times Sunday Book Review cinque giorni prima del lancio del libro, lo scrittore di fantascienza Jonathan Lethem ha partorito una delle considerazioni più spiazzanti sul suo celebre collega: “Malgrado la mancanza di informazioni personali sull’autore, è chiaro “che il giovane Pynchon è uno scrittore di promesse illimitate, che di sicuro ci darà un lungo scaffale di romanzi incantevoli e carismatici”.

Considerato che oggi ha 78 anni, non potrebbe esistere augurio più gradito.