ovvero: come crisi e fanatismo possono rilanciare la narrativa italiana

di Gregorio Magini e Vanni Santoni*
[In calce a questo post, link e novità dalla discussione sul NIE; tutti gli mp3 del convegno di Cuneo]

Questo articolo è la versione rivista e ampliata del nostro intervento al convegno “The Italian perspective on metahistorical fiction” tenutosi il 2 ottobre 2008 all’Institute of Germanic and Romance Studies della University of London, e costituisce un’ideale continuazione del nostro precedente lavoro Verso il realismo liquido, con il quale si era voluto soprattutto dar nome a una necessità, quella di un’evoluzione contenutistica e stilistica nella narrativa italiana recente. 
È indiscutibile — fatto che rende così importante il memorandum sul New Italian Epic di WM1 — che dopo un periodo di stagnazione, la narrativa italiana ha rialzato la testa, tornando ad affrontare temi di grande respiro e a confrontarsi con la società; a presentarsi finalmente, dopo la freddezza ghignante degli ultimi accoliti italiani del postmoderno, con un «ethos accorato e partecipe». Crediamo sia indispensabile che essa cresca da un punto di vista formale, in quanto la portata etica della narrazione rischia di spegnersi nell’avventuroso-didatticheggiante se lo stile non sarà in grado da parte sua di rendere la complessità della realtà contemporanea.
Nel nostro articolo abbiamo interpretato la nuova epica italiana come la scoperta che un certo filone della letteratura nostrana recente germina dalla cultura pop di fine millennio.

Molta della narrativa elencata come NIE, più che fondarsi sull’epica classica, affonda in realtà le proprie radici nella cultura di massa, specialmente televisiva. L’origine pop è resa ancora più forte e particolare da un unicum della cultura italiana recente: l’avvento, negli anni ’70 e poi ’80, degli anime giapponesi. In Italia, infatti, questa cultura non si è imposta negli anni ’90, come nel resto d’Europa, ma è arrivata molto prima, grazie all’acquisto, da parte di una moltitudine di TV locali, di praticamente tutta la produzione animata giapponese dell’epoca. candy.pngProduzione quella, almeno nelle sue pietre miliari, fortemente sbilanciata verso il feuilleton di taglio epico. Per fare un esempio, quando, in Manituana, le Grand Diable sgomina una carrellata di inglesi facendo sfoggio di mosse letali in sequenza [1], noi, lettori italiani, pensiamo direttamente all’anime Hokuto No Ken, che ha accompagnato la nostra infanzia, e non certo a quel tipo di immaginario orientale confluito per successivi rimaneggiamenti e contaminazioni in un ponderato e ammiccante “avant-pop”.
Possiamo addirittura azzardare che buona parte di quanto catalogato come “NIE” sia più o meno volontariamente pop: in ogni caso crediamo sia necessario prenderne atto, in quanto chiunque converrà che la rappresentazione di stampo pop, a meno che non si voglia fare una parodia, è solo una delle armi che l’esperienza del postmodernismo ha messo a disposizione dello scrittore contemporaneo.
Altro elemento fondamentale da considerare è il fatto che molto del NIE sboccia dal recente boom della narrativa di genere in Italia. Molte opere NIE, anche a causa della storia personale degli autori, sono evoluzioni dirette di tale narrativa. Un’evoluzione analoga a quella avvenuta nell’etica deve avvenire anche nello stile (per fare un esempio, Romanzo Criminale, di De Cataldo, sebbene abbia l’indubbio merito di riconsegnarci momenti cruciali della storia italiana recente, indulge a volte in toni e linguaggio televisivi [2]). Non sarebbe giusto pensare che l’esperienza postmoderna nella narrativa italiana sia stata sterile e infruttuosa solo perché alcune sue opere sono sterili e infruttuose: i suoi strumenti formali vanno recuperati. Il termine “New Italian Epic” deve a nostro avviso progredire dall’attuale denominazione di una “nebulosa” fino a quello di nome di un movimento letterario attraverso il recupero di metodi tipicamente postmoderni di racconto della complessità. La chiave centrale di evoluzione del NIE in romanzo “realista liquido” sta quindi nell’essere abbastanza spregiudicata da fagocitare tutto e tutto usare, ma sempre e solo in base a un principio di necessità.
Un romanzo esemplare in questo senso dovrebbe avere contemporaneamente tutte le caratteristiche citate da WM1, o almeno: la narrazione partecipe e commossa, lo sviluppo come “UNO” [3], la fusione tra etica e stile, e allo stesso tempo guardare al contesto locale e globale con uno sguardo realistico, che si fondi sull’analisi delle strutture sociali ed economiche.
(Gomorra, tra tutti i titoli elencati, appare forse il più vicino a questo status, ma ci sentiamo di suggerirne un altro, non citato nel memorandum di WM1: Ultimo parallelo di Filippo Tuena. In questo libro, che racconta la fallimentare spedizione al Polo Sud di Robert F. Scott, risuonano forti quasi tutte le caratteristiche che WM1 attribuisce alle opere NIE. Non c’è traccia di ironia vuota, anche se c’è, terribile, dell’ironia, quando l’occhio del narratore — il Pole Party, già senza speranze, perduto in un labirinto di ghiaccio — salta per un attimo alle stanze eleganti e riscaldate della Royal Geographical Society [4]; c’è un fortissimo “azzardo del punto di vista”, dal momento che Tuena sceglie di raccontare la vicenda dal punto di vista di un’ombra, di quella “presenza in più” spesso percepita da chi si trova a esplorare luoghi deserti e inospitali, che nelle pagine del libro diventa alternativamente la morte, l’autore e ciascuno dei partecipanti all’esplorazione; c’è un connubio sublime tra leggibilità e complessità, unito a una coraggiosa sperimentazione stilistica mai fine a se stessa, il libro scorre ed è godibile, ma allo stesso tempo lavora di pastiche in modo magistrale, mescolando con una semplicità solo apparente la prosa alla poesia, alle pagine di diario, alle fotografie, ai brani di altre opere; Ultimo Parallelo ha il carattere, infine, di opera ibrida, romanzo di avventura, certo, ma anche ricostruzione storica, riflessione metafisica e danza macabra).
Facciamo un esempio da Superwoobinda di Aldo Nove, tecnicamente forse il migliore tra tutti i libri italiani tardo-postmoderni: un commercialista di Milano uccide un connazionale con un coltellino svizzero su una spiaggia a Santo Domingo per una lite sulla qualità di una crema solare. Ora, finita l’epoca dello splatter e quella del pulp, noi diremo che questo è irreale, non perché non è mai successo, ma perché non succederebbe. È vero però che un commercialista di Milano, solo col suo turismo sessuale in un’isola turistica, probabilmente, sta male. Bene. Non estremizziamo, non facciamola facile “buttandola in vacca”: costui non è semplicemente uno stronzo, è l’espressione di una tensione sociale (ci si sente ridicoli anche solo a dirlo, ma facendo i conti con l’Italia di oggi, egli è parte integrata della stessa società a cui appartiene l’autore, non certo un reietto).
Evidentemente, il NIE è emerso anche perché, stante in Italia una situazione di profonda crisi, c’era l’esigenza di raccontarla senza facili “sensi di superiorità”. Nei casi di malessere più estremo, questo è causato anche da mancanze giornalistiche: in Italia, il giornalismo, ingabbiato nelle logiche politiche di quotidiani e TG che sono tutti espressione di partiti o potentati specifici, non ha mai sviluppato quello stile narrativo che oggi fa la fortuna di testate come il New Yorker. E infatti, alcuni hanno sostenuto che il successo di Gomorra sarebbe derivato dal fatto che i giornali non riuscivano più a parlare della camorra in modo adeguato e interessante.
Non è solo il giornalismo nell’Italia di oggi a vivere un brutto momento: la crisi è gravissima a tutti i livelli, specie quello morale. Il paese della Santa Sede patisce più profondamente e più a lungo degli altri la morte di Dio; in un paese la cui principale forza di sinistra è stata un partito comunista, il crollo del Muro ha provocato traumi insanabili nelle coscienze di molti. Essendo quindi le radici del pensiero sociale italiano profondamente radicate nella tradizione marxista e in quella cattolica (“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro…”), si capisce che la crisi d’identità innescata dall’avvento del precariato sia nel nostro paese anche più drammatica che altrove. L’ansia da autorappresentazione, in assenza di ideologie e mestieri in cui riconoscersi, si fa lancinante.

avatar.gifIn una società in crisi la necessità di raccontare diventa urgenza.
Il NIE ha di buono l’aver ritrovato un legame profondo col contesto, e una relazione partecipe, piuttosto che fredda e distaccata, con esso. Senza ironia non si affronta l’esistenza, ma quando ti frana il terreno stesso sotto ai piedi, faresti meglio a correre. Tuttavia, pur con le sue specificità, l’Italia è sempre parte dello scenario globale, e la crisi si inserisce in una complessità che ha bisogno degli strumenti del postmoderno per essere raccontata.
Come si comporta un autore di fronte a tutto questo? Nel suo intervento al convegno presso la University of London, Vanni Santoni ha provato a dare una sua risposta: il fondamento di quasi tutti i malesseri che ama raccontare sta nella società e non si può prescindere dalla storicizzazione delle situazioni individuali. Parlando di malesseri, l’ansia da autorappresentazione è centrale nella società contemporanea in generale e italiana in particolare. Anche il tema della “giovinezza infinita” si lega a filo doppio a quest’ansia, all’impossibilità di definire una figura di adulto a cui tendere.
Il punto di partenza del lavoro di Santoni, il progetto Personaggi precari, è centrato sulla narrazione della precarietà esistenziale, e può essere considerato un tentativo di ottenere quella fusione tra etica e stile di cui parla WM1 nel suo saggio. Motivo: l’Europa moderna trovò nel romanzo la sua forma letteraria (romanzo che narra le avventure di un soggetto che — nell’incontro con il mondo, l’oggetto, — diviene nel corso di una determinata unità spazio-temporale); il soggetto moderno ritrovava in questa forma di racconto la propria esperienza, l’esperienza della costruzione del sé; oggi, se il problema è addirittura definire la propria identità, è implausibile descrivere lo stare al mondo di una persona come il susseguirsi di tasselli che si adagiano fino a costruirne l’identità. Personaggi precari offre non un racconto, bensì i soli personaggi, centinaia e centinaia, presentati attraverso un’istantanea di un giorno qualunque, poche righe per ciascuno. Il resto è escluso, non rappresentabile, lasciato al lettore. Proprio per il fatto che la loro esistenza dura un solo attimo essi sono paradossalmente più reali: la narrazione delle loro vite diminuirebbe la loro credibilità. Essi «cercano di diventare soggetto ma lo possono fare solo perdendosi in stereotipi di comportamento o modelli collettivi di consumo (“Cosa voglio? Un fidanzato decente e scarpe Hermès”) o ancora con azioni totalmente irragionevoli, non inscrivibili in nessuna storia (ammanettarsi al balcone)» [5]. Neanche cercano i “15 minuti di notorietà”: si accontentano di 15 secondi di esistenza, ovvero di narrabilità.
Quando, con Gli interessi in comune (un libro che racconta undici anni di giovinezza infinita di un gruppo di giovani toscani) Santoni si è cimentato con una struttura più tipicamente romanzesca, ha mantenuto la struttura spezzata combinandola con quella struttura a episodi tipica dell’epica classica [6] e della novellistica medioevale. In un certo senso, poi, anche le vicende de Gli interessi in comune sono un’epica, nel senso che sono il precipitato di un corpus misto di leggende e memoria intorno al quale i protagonisti definiscono la loro stessa identità. La «iniziazione permanente» [7] dei protagonisti, ottenuta tramite il costante uso — al tempo stesso consumistico e rituale — di psichedelici, incarna la loro costante, inconscia ricerca di miti di fondazione attorno a cui raccogliersi.
Scrive Claudia Boscolo nel suo articolo sul NIE: «l’epica, per sua stessa costituzione, reprime o copre l’individualità dei personaggi, che rivestono quasi sempre la funzione di “incarnare una causa”. Quando Orlando abbandona il campo di Carlo Magno, o si distrae, o impazzisce, il suo spirito resta, e altri portano avanti quello che lui rappresenta. È quindi un’icona, un veicolo per un’ideologia precisa» [8]. Lo stesso avviene ne Gli interessi in comune: quando Iacopo, il leader designato, scompare, sta ad altri, fino ad allora personaggi secondari, “portare la fiaccola”, non di un sistema di valori e riferimenti, ma viceversa della sua assenza, sublimata in una costante, disperata necessità di raccontare il gruppo e la sua posizione in una società ormai del tutto priva di parametri oggettivi, che mentre li colpevolizza solo in quanto giovani, al tempo stesso nega loro la possibilità di tendere a un’identità adulta ben definita.

Tornando al concetto di “ansia di autorappresentazione”, vogliamo precisare che non si tratta di una riproposizione mainstream di quella figura del Grande Maschio Narcisista di cui scriveva David Foster Wallace [9] in relazione ad alcuni scrittori postmoderni (come Norman Mailer, Philip Roth, John Updike) della generazione dei nostri nonni. Il Grande Maschio Narcisista era ossessionato dalla propria individualità, dalla propria virilità (o dalla sua mancanza), e dalla morte. Era interminabilmente dedito all’introspezione, a cercare lo specchio del mondo nel proprio stesso ombelico, alla caccia di quei mezzi personali di autorappresentazione che lo distinguessero dagli altri, lo rendessero un individuo unico e nonostante tutte le limitazioni inimitabile.
Poiché hanno ereditato l’incredulità verso le religioni e le ideologie dei loro predecessori, le nuove generazioni hanno ereditato anche quest’ansia di individualità. Ma, contrariamente a loro, dedicano il proprio tempo libero all’ostentazione, piuttosto che all’introspezione. La società del consumo, non paga dell’invenzione del tempo libero, lo ha colonizzato. L’illusione del consumismo della prima ora, che cumuli di merci ci avrebbero resi felici liberandoci dal bisogno, è stata soppiantata da un’illusione ancora più radicale: che le merci possano liberarci da noi stessi, cioè da ciò che rimane quando siamo liberi dal bisogno. Possiamo ora sperare di costruire e ricostruire la nostra personalità attraverso un’attenta selezione di beni e servizi. Non abbiamo più bisogno di forgiarla nella fucina della nostra anima, poiché attraverso la pubblicità gli oggetti hanno acquisito un significato autonomo: è sufficiente metterli in vetrina. I giovani consumatori non sono narcisisti perché non hanno bisogno di guardare il proprio riflesso: il significato è pubblico, gli è sufficiente guardare gli oggetti che riveriscono; e guardare gli altri mentre li guardano.
dragonball.jpgQuesta prospettiva ci permette di teorizzare la costruzione dell’individuo essenzialmente come un fan, e della società come un insieme di fan club. Quando incontriamo un prodotto culturale in cui ci riconosciamo, sia esso una canzone dei Tokio Hotel o un discorso di Barack Obama, iniziamo a fare il tifo per esso, lo impariamo a memoria, lo mostriamo ad amici e colleghi con apprensione, consci del fatto che più saranno numerosi coloro che condivideranno il nostro “fanatismo”, più ci sentiremo sicuri nell’apprezzarlo. È necessario che altre persone condividano i frammenti della nostra personalità affinché questi siano utilizzabili: l’emulazione è quindi un complemento indispensabile dell’esibizionismo nella vita del fan.
In chiave positiva, esibizionismo ed emulazione si possono intendere come apertura e partecipazione. Queste parole denotano qualità comunemente ritenute essenziali per il successo della novità degli anni ’90 che ha finito per definire la nostra epoca: il Web. Le reti (o network) sono l’habitat naturale dei fan: sono aperte a chiunque voglia partecipare e premiano l’apertura dei loro partecipanti. Le persone in una rete sono definite dai contenuti a cui fanno riferimento, e che producono. Le personalità sono compendiate in profili utente: pensiamo per esempio a un profilo di MySpace, col suo pastiche per niente ironico di “Mi piacerebbe conoscere”, “Eroi”, jukebox e commenti. È fandom nella sua forma più pura: la più pura, perché rappresenta la costruzione dell’identità del fan, omettendo una qualsiasi fuorviante risposta alla domanda: «Fan di che cosa?»
Essere un fan non è affatto un’attività contemplativa. I fan che non producono contenuti sono solo al gradino più basso nella loro scalata verso lo stardom. Il primo passo è creare connessioni con contenuti già esistenti: questi primi collegamenti avviano la costruzione dell’identità, dell’identificazione, del riconoscimento reciproco. È il comportamento basilare del consumatore evoluto. Il secondo passo è la produzione di opere derivate: spin-off, parodie, tributi, analisi, e così via [10]. Il terzo è la produzione di contenuti originali [11]. Con sufficiente fortuna e dedizione, e se prodotti nello spirito e nelle forme predilette dalla rete che li ha ispirati, questi ultimi possono trasformare il fan in una star, e fargli provare il piacere di essere uno degli idoli culturali della rete a cui appartiene. La sua identità, inizialmente da essa definita, potrebbe arrivare a definirla, potrebbe realizzare a pieno l’illusione del tardo consumismo: la libertà da se stessi.
Attraverso queste esche, il fandom stimola la produzione. Non è un caso che il marketing stia ridefinendo il proprio soggetto nella stessa direzione: il termine “prosumer” è uno slogan utilizzato fra l’altro per indicare il consumatore che contribuisce alla produzione delle merci che consuma. Ancor più interessante, per il nostro ragionamento, è il fatto che la massificazione della produzione culturale sta rapidamente ridefinendo il concetto di autorialità. Cos’è un autore, se siamo tutti scrittori, musicisti, fotografi, videomaker, o tutte queste cose insieme? Come si differenzia l’opera dalla massa indistinta della testualità, se si dissolve l’eccezionalità del momento della produzione? Chi si considera Autore con la A maiuscola deve oggi confrontarsi con la sterminata massa dei suoi pari, e con i nuovi mezzi che questa massa impiega.
Questo ha nel sistema delle arti un effetto dirompente paragonabile a quello che Walter Benjamin descrisse nel 1936 come perdita dell’aura dell’opera d’arte in conseguenza della perdita della sua unicità. Oggi, ed è forse la realizzazione effettiva di quella “morte dell’autore” con cui abbiamo imparato, almeno a livello ipotetico, a convivere da decenni, è venuto il momento in cui anche l’Autore non può più ritenersi né unico, né eccezionale.

Tornando alla letteratura, facciamo tre esempi (tratti dalle nostre esperienze dirette) con cui si illustra l’utilità della nozione di “rete” applicata alla produzione letteraria:
Personaggi Precari nacque come blog letterario. I singoli racconti, che sono singoli post, sono brevissimi: superano raramente le cinque righe. Questo era necessario per riuscire a sfruttare l’esiguo tempo di attenzione che i lettori di Internet sono disposti a dare a un testo non qualificato: ossia, non inquadrato in un network autorevole, e non scritto da un autore riconoscibile. Inoltre, per far sì che i Personaggi venissero letti, Santoni dovette farsi conoscere all’interno di Splinder, il network in cui il suo blog si trovava: visitava i blog degli altri, lasciava commenti, faceva a scambio di link. In breve: si faceva riconoscere come fan all’interno della comunità. La comunità lo accolse, e iniziò a seguire Personaggi Precari. In seguito alla vittoria di un concorso, Personaggi Precari fu pubblicato in volume. I Personaggi più adatti furono selezionati, e disposti secondo un ordine che si discostava da quello cronologico del blog per creare degli accenni di sequenze tematiche. La pubblicazione permise a Santoni di accedere a un altro network: il mondo letterario. E anche lì, cominciare a farsi conoscere, non tanto per vendere più copie, quanto per l’oscura sensazione che lo status di “opera letteraria” del suo libro dipendeva dalla quantità e dalla qualità dei suoi fan.
I fan arrivarono, e qualche tempo dopo arrivò la proposta di un quotidiano locale di pubblicare un nuovo Personaggio ogni giorno in prima pagina. Fu necessario un nuovo adattamento: i Personaggi dovettero diventare più caratteristici, più fiorentini, e ovviamente anche meno arditi. Ma il passaggio portò a un nuovo network, e a nuovi fan.
Vediamo dunque che Personaggi Precari, contemporaneamente un blog, un libro e una “vignetta” quotidiana, è forte di un’identità ibrida: non si deve pensare che il passaggio da un mezzo all’altro sia una semplice questione di adattamento tecnico e stilistico (brevità su Internet, organicità su volume, leggibilità e politicamente corretto sulla stampa). Il passaggio è soprattutto una ristrutturazione del pubblico potenziale del testo, che implica certo un adattamento tecnico e stilistico, ma che in ultima analisi produce essenzialmente l’emergere dell’opera dal testo, e dell’autore dallo scrittore, attraverso il riconoscimento di network intersecati di fan.
Il processo non va sempre a buon fine. Il motivo per cui la fiction su Internet fatica a prendere piede è probabilmente il mancato riconoscimento della natura dei network in cui si cerca di impiantarla. Un esempio di fallimento dovuto a un errore di questo tipo è l’esperimento A Million Penguins. Nel 2007 la casa editrice Penguin lanciò in collaborazione con la De Montfort University di Leicester un progetto di “romanzo Wiki”. La partecipazione alla stesura del romanzo era libera. Non vi era alcuna regolazione, nessuna linea guida. L’idea era di vedere se fosse possibile scrivere un romanzo collaborativo nello stesso modo in cui è stata scritta Wikipedia, ossia facendo ricorso alla cosiddetta “saggezza delle folle”. Il risultato è stato, dal punto di vista della fiction, catastrofico: il romanzo finale è un pastone senza capo né coda, i cui unici tratti vagamente unitari sono una certa tendenza all’umorismo e alla meta-narrazione (la meta-Wiki-narrazione dell’impossibilità di scrivere un romanzo Wiki). Ci sono addirittura delle appendici in cui sono state relegate le derive più ingestibili, la più celebre delle quali è quella creata per arginare un utente che sostituiva ogni sostantivo con la parola “banana”.
La causa del fallimento, probabilmente, è stata l’inapplicabilità in ambito narrativo delle linee guida di Wikipedia: quell’equilibrio di metodologie scientifiche, codici di condotta etici e apertura all’innovazione che hanno reso possibile lo sviluppo prodigioso dell’Enciclopedia Libera così come la conosciamo. A Million Penguins non ha funzionato perché ha fallito nel riconoscere che un milione di scrittori non sono un milione di enciclopedisti: se non si dà loro una struttura di network adatta al tipo di lavoro che devono fare, in cui possano emergere fan e stelle, attraverso reciproco riconoscimento dei quali il testo possa diventare un’opera di fiction, gli scrittori si riducono, appunto, a schiamazzanti e spaesati pinguini.
Per restare nell’ambito della scrittura collettiva, la costruzione di un network di scrittori-fan è proprio quello che stiamo cercando di ottenere col metodo di Scrittura Industriale Collettiva. La SIC, infatti, è contemporaneamente un metodo e una comunità. Un network insomma, organizzato in modo tale da promuovere il coinvolgimento degli scrittori non solo nell’ambito della produzione di una singola opera, ma all’interno della comunità nel suo complesso.
Dopo aver partecipato alla scrittura di due racconti come semplici scrittori, è data agli iscritti la possibilità di dirigere un gruppo di scrittura per conto loro, usando il nostro sito. Il metodo, inoltre, affronta la scrittura collettiva di fiction come un processo di costruzione di un’opera letteraria, non come la semplice stesura di un testo. L’autore collettivo nasce dall’accordatura progressiva degli intenti, dalla valorizzazione delle diverse capacità. L’opera nasce parallelamente, attraverso una sorta di teoria narratologica empirica, che invece di analizzare i testi si occupa di fornire blocchi di partenza adatti per essere manipolati e messi a frutto dai gruppi di scrittura.

galassie.jpgQuesti tre esempi avvalorano la nostra idea che il concetto di rete è l’orizzonte concettuale in cui è più utile inquadrare una nuova analisi della letteratura contemporanea, e ancor di più una prefigurazione di quella futura: una prima pietra su cui costruire un nuovo realismo.
Proviamo ad applicare il concetto di “network” alla galassia letteraria italiana (per la  quale, attraversando nebulose NIE, si aggirano numerosi Oggetti Narrativi non Identificati). In questa galassia ci sono solo due oggetti, due buchi neri, la cui presenza ha un effetto osservabile sull’insieme dei corpi celesti: l’industria dell’intrattenimento, e la “cultura umanistica”. Questi due attrattori, fronteggiandosi a debita distanza, hanno smembrato la galassia, risucchiando tutte le stelle e i pianeti alla loro portata. Sarebbe a dire: la dicotomia tra arte e denaro, tra bohème e borghesia, tra cultura di massa e cultura di elite, un tempo il motore di ogni movimento all’interno del campo letterario, si è cristallizzata, mentre i pur numerosi corpi celesti sfuggiti all’assorbimento vagano a grande distanza gli uni dagli altri (perdendo talvolta vigore: è il caso di svariate esperienze valide, nate in contesti controculturali, che si sono perse per strada a causa della mancanza di un network che le sostenesse).
Ora, poiché il mondo letterario non è davvero una galassia, è possibile cambiare la fisica che lo governa semplicemente interpretandolo in un altro modo. Possiamo smettere di considerarlo un universo chiuso, dilacerato fra l’estetica e l’economia, e vedere che cosa accade se lo si apre: ecco che il mondo letterario si mostra come un network fra molti altri, con i suoi fan (il suo pubblico di estimatori / consumatori), i suoi linguaggi (le sue poetiche / i suoi generi), e le sue star (i suoi artisti / letterati / scrittori / scriventi / pennivendoli).  Adesso gli UNO non sono più oggetti misteriosi, o tanto meno aberrazioni, ma espressioni coerenti dell’intersecarsi di network diversi.

Crediamo che il ritorno all’etica (e all’epica), alla partecipazione convinta e senza compromessi da parte dell’autore, scaturisca proprio dal tramonto dello scrittore “puro” (rappresentato, nel saggio di WM1, dal postmodernista inabissatosi nel manierismo) e dall’entrata in scena di scrittori “meticci”, nati dalla contaminazione dell’attività letteraria con altre professioni, mezzi espressivi o funzioni generatrici di contenuto: giornalismo, ricerca, insegnamento, social networking, musica, militanza e quant’altro. Lontano da qualunque torre d’avorio, sia quella dell’ironia ad ogni costo che quella della letteratura colta, propenso all’ibridazione per inclinazione naturale, ma disponibile a far tesoro delle esperienze passate, il nuovo “autore liquido” ha finalmente la possibilità di fare veramente sistema con colleghi e lettori (e tutte le gradazioni intermedie fra i due estremi), innescando un processo virtuoso capace di rilanciare anche qualitativamente la produzione letteraria italiana.

NOTE

1. Wu Ming (2007), Manituana, Torino, Einaudi, p. 163.

2. P. 71: « — Ce la faremo, socio.
— Già.
— E apriremo quel locale.
— Forse.
— A settanta-ottanta al grammo fanno un mucchio di quattrini […]»

3. Gli Unidentified Narrative Objects di cui scrive Wu Ming 1 in NIE 2.0.

4. Tuena, F. (2007), Ultimo parallelo, Milano, Rizzoli, p.265.

5. Marasco, V. (2007), Pensare la cittadinanza nella società individualizzata, Tesi di Laurea, Univ. di Firenze.

6. Su Gli interessi in comune come poema omerico, vedi la recensione di Wu Ming 2 in Nandropausa 14/15.

7. Nacci, J. (2008), recensione, in L’Indice, settembre 2008.

8. Boscolo, C. (2008), Scardinare il postmoderno: etica e metastoria nel New Italian Epic.

9. Foster Wallace, D. (2006), “La fine di qualcosa senz’altro, verrebbe da pensare” in Considera l’aragosta, Torino, Einaudi.

10. Vedi Wu Ming 1, New Italian Epic, “7. Comunità e transmedialità”, p. 23.

11. Non è sempre facile né possibile distinguere tra un’opera “originale” e una “derivata”: si intende che i tre gradini descritti sono la schematizzazione di un processo fluido.

* Scrittori e autori di SIC — Scrittura Industriale Collettiva

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LINK, ANNUNCI, NOTIZIE SUL DIBATTITO NIE

Nel podcast di wumingfoundation.com sono ormai disponibili tutti gli interventi al convegno “New Italian Epic: gli stati generali della narrazione”, festival Scrittorincittà, Cuneo, 16 novembre 2008.
Riportiamo qui i link. Per lo streaming, cliccare sull’icona-play. Per salvare i file, cliccare sul link testuale col tasto destro del mouse (PC) oppure ctrl + click (Mac).

wu_mini.gifWU MING 1 – IL REGGIMENTO CARIGNANO E LA BESTIA IROCHESE
(18 minuti, mp3 160k)
versione “light” (mp3 96k).
La storia di mille piemontesi che nel 1665 partirono per il Canada, spediti a combattere contro gli indiani. Che diavolo significa essere italiani? Dov’è il centro della nebulosa?


carlolucarelli.jpgCARLO LUCARELLI – DAL GIALLO ALL’EPICO
(12 minuti, mp3 160k)
versione “light” (mp3 96k).
Da una nebulosa all’altra – La statua di Vittorio Bottego – Raccontare come siamo, coi mezzi adeguati al compito.


letizia_muratori2.jpgLETIZIA MURATORI – APPIATTITA SULLA REALTÀ?
(07 minuti, mp3 160k)
versione “light” (mp3 96k).
“Trama” è una parola tessile. Per un’epica a intermittenza. Essere Wile E. Coyote.


scurati2.jpgANTONIO SCURATI – L’EPICA È LO SGUARDO DA SOPRA LE MURA
(16 minuti, mp3 160k)
versione “light” (mp3 96k).
Un pensiero che unisce. La fine dell’obbligo all’autoderisione. Lo sguardo da sopra le mura. Ristabilire il nesso tra conoscere e agire.


ming_mini.gifWU MING 2 – RESISTERE INSIEME AL CANTO DELLE SIRENE
(20 minuti, mp3 160k)
versione “light” (mp3 96k).
Orfeo, il narratore. Tre diverse strategie per non farsi irretire dal racconto dominante. Cosa non mi piace del mito di Orfeo ed Euridice. Come propongo di riscriverne il finale.


mauro_gervasini_1.jpgMAURO GERVASINI – CINEMA SENZA EPICA
(26 minuti, mp3 160k)
versione “light” (mp3 96k).
Che ci faccio io qui? La miglior sequenza di Gomorra. Hollywood e l’otturatore impazzito. L’invidia del critico cinematografico.


genna.jpgGIUSEPPE GENNA – LA PALLOTTOLA NEL MURO E L’OCCHIO DI KUBRICK
(15 minuti, mp3 160k)
versione “light” (mp3 96k).
La letteratura è più stronza di quanto pensiamo. Esempio di allegoria che non si chiude: il giorno che, mentre facevo il caffè, sentii un botto e…

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Alcune riflessioni di critici e lettori anglofoni su Gomorra di Saviano e gli “oggetti narrativi non-identificati”.

indrajit-hazra-150.gifSul quotidiano indiano Hindustan Times lo scrittore Indrajit Hazra scrive:

“A differenza di quanto accade con la formula di Truman Capote ‘fact+fiction=faction’, tutta tesa a un’ossessiva brama per i dettagli, l’UNO si dibatte come una bestia, a volte percorre il sentiero del reportage duro, a volte mormora tra sé e sé, a volte si lancia in rimuginazioni filosofiche, a volte si cala in ‘voci’ da romanzo, e a volte ingrana la marcia della teoria sociale. E a differenza di quanto accade nel ‘gonzo journalism’ alla Hunter P. Thompson, [l’UNO] è serissimo. Il suo unico obiettivo è farci reagire in modo violento di fronte a un tema, usando tutti i trucchi del mestiere di narratore.”

Qui l’articolo completo in inglese.

Alcune riflessioni su Gomorra dello scrittore e poeta irlandese William Wall sulla rivista letteraria on line Three Monkeys.

Alcune riflessioni su Gomorra (libro e film) del critico inglese Jonathan McCalmont sul suo blog Ruthless Culture.


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