Lager italiani - clicca per ordinarlodi Marco Rovelli

[PREMESSA REDAZIONALE. E’ trascorso ormai un mese dall’omicidio di Giovanna Reggiani. Un mese di paure sfruttate da demagoghi, di risentimento xenofobo, di lapidazioni verbali e aggressioni fisiche a capri espiatori. Un mese in cui il discorso pubblico è stato “dirottato” e pilotato dai vetero-razzisti di destra e dai neo-razzisti di ex-sinistra. Un mese in cui sono riemerse, più appiccicose che mai, vecchie “leggende nere” sul conto di zingari e altri marginali. L’odio ha caricato lancia in resta, parandosi il petto con lo scudo dei numeri, delle statistiche sui crimini. Forse mai come in questo frangente le cifre sono state brandite a mo’ di clave, anzi, di mazze ferrate, per sfondare il cranio dei nemici, mescolando sangue e percentuali. Come c’era da aspettarsi, il dibattere si è fatto sempre più confuso. Per fare un po’ di chiarezza Carmilla ha chiesto un contributo a Marco Rovelli, autore del fondamentale Lager italiani (Rizzoli, 2006), attivo da anni su queste tematiche, attento alle capillari, serpentine e semi-invisibili forme che assume in Italia la solidarietà ai migranti e agli esclusi.]

Qualsiasi ragionamento sull’immigrazione, e sull’equazione sempre più consolidata nell’immaginario degli italiani tra clandestino e criminale, è destinato a fallire se non lo si fonda su alcuni assiomi. Premesse scontate, ma che nel “dibattito pubblico” sembrano non essere mai considerate.

1. Le migrazioni contemporanee sono un evento epocale, di cui occorre, semplicemente, prendere atto, e di cui è illusorio pensare di invertire il segno. Può certo causare scompensi, come ogni evento vero, come ogni fatto che cambia la struttura delle cose per qualche fattore essenziale: ma non si può dire: “si torni a prima”, come non si può tornare a un amore perduto. Occorre dunque, per prima cosa, una collettiva elaborazione del lutto. Ed è forse questo che impedisce a molti italiani di affrontare la realtà.

2. L’immigrazione in Italia non è cosa differente da quanto accade in altri paesi europei. Non ha dimensioni maggiori, tutt’altro (la Germania, ad esempio, ha in percentuale il doppio di popolazione immigrata rispetto all’Italia: 12% contro 6%). C’è solo stata una crescita più rapida che in altri paesi.

3. Anche laddove fosse arrestabile (e ciò è immaginabile solo mediante deportazioni in massa), l’alternativa all’immigrazione sarebbe una crisi economica enormemente più grave di quella che già stiamo vivendo.

4. La legislazione italiana è tra le più restrittive e repressive d’Europa: è fondamentale ricordarlo, questo, in ogni momento, a coloro che scagliano incessanti invettive contro i “buonisti” (per contrappasso potremmo chiamarli “cattivisti”).

Partendo dall’ultimo assioma, e combinandolo col primo, ne consegue che la legislazione repressiva non migliora le cose. Se mai, le aggrava. A corollario dell’ultimo assioma, infatti, occorre tenere ben presente che le risorse dello Stato italiano non potrebbero superare quelle già messe a disposizione nelle voci di spesa quanto all’immigrazione: che si ripartiscono, approssimativamente, nell’80% di spesa finalizzata alla repressione (contrasto delle entrate illegali, ma soprattutto politiche delle espulsioni) e solo nel 20% destinato all’integrazione. Per la precisione, nel 2004 la repressione è costata complessivamente 115.467.000 euro, ovvero 320 mila euro al giorno, contro i 29 milioni di euro destinati a integrazione e assistenza. Tanti soldi, e perduti: perché questo tipo di politica, che culmina con quei luoghi di sospensione del diritto che sono i CPT, ha già mostrato la sua inefficacia, come ha rilevato perfino l’ambasciatore Onu De Mistura.
(En passant, varrà la pena di rilevare questo: i leghisti, quando gli viene fatto notare che l’immigrazione è cresciuta proprio sotto la vigenza della Bossi-Fini, rispondono balbettando che non è stata applicata. E allora, qualche semplice dato, a mo’ di esempio. A Bologna, su 179 arrestati nel mese di novembre 2005, 110 riguardavano stranieri non in regola con il permesso di soggiorno. A Milano, nello stesso periodo, la percentuale era del 40,5%. Nell’anno 2005, nel tribunale di Torino su un totale di 3434 processi direttissimi, 2079 — il 60% – riguardavano reati considerati come tali dalla Bossi-Fini. Dunque l’applicazione c’è stata, ed è proprio questo il problema. Lo vediamo, un dispiegamento di forze, mezzi, soldi, che toglie tempo a cose sensate, produttive, efficaci. Tanto rumore per nulla).

Questa è la verità. In un paese che non ha soldi sufficienti per pagare buoni benzina e buoni pasto alle scorte di personaggi in pericolo, non c’è alcuna possibilità di procedere con qualche efficacia all’espulsione di un milione/un milione e mezzo di immigrati irregolari (“clandestini”) presenti nel paese. Se non mobilitando il paese intero in questo sforzo, e questo lo si potrebbe fare solo esso acconsentisse a riconoscere la necessità di una guerra a un Nemico destinale, così come si fece negli anni trenta in Germania. Laddove questo estremo totalitario è per adesso difficilmente immaginabile, continuare a dire ai cittadini che “l’immigrazione clandestina fa male” (come recitano i manifesti dei post(?)-fascisti di Alleanza Nazionale) equivale a legittimare, data appunto l’impossibilità dello Stato di ampliare la repressione, qualsiasi “violenza privata” contro il nemico riconosciuto, per lo scopo superiore della “salvezza nazionale” (che peraltro non potrebbe essere evidentemente conseguita neppure con questo squadrismo). Il supplemento osceno del discorso legittimato saranno allora le spedizioni punitive, come già è iniziato ad accadere. Uno stato di eccezione permanente, stabilito di fatto.

Ecco, solo su queste premesse è possibile parlare sensatamente della questione immigrazione-criminalità. E farlo partendo da una serie di dati. (Far parlare i dati, è questo che bisogna fare adesso, come condizione per tornare a raccontare le singolarità, le esistenze, le storie. Le storie possono venir raccontate male, o si possono trascegliere quelle, per quanto eccezionali, che convengono alla tesi che si intende dimostrare. Ed è necessario che a quelle raccontate male, quelle che tutti i giorni affollano le pagine dei giornali, se ne oppongano altre raccontate bene. Si tratta però, adesso, di affrontare un trascendentale, che permetta di giungere, un giorno, a raccontare esistenze liberate).

E’ noto: tra la popolazione carceraria c’è un’evidente sovrarappresentazione degli stranieri. I dati Caritas del 2006 ci dicono che i detenuti stranieri nelle carceri italiane sono 20.221, ovvero il 33% del totale. Dove la popolazione immigrata regolare e irregolare può ammontare circa al 7% della popolazione totale. La grande maggioranza dei reati per cui si è denunciati o arrestati è commessa da stranieri irregolari, laddove, come afferma il Rapporto sulla Sicurezza 2006, “quelli regolari hanno una delittuosità non molto dissimile dalla popolazione italiana”. Infatti, nel 2006 gli stranieri regolari denunciati sono stati quasi il 6% del totale dei denunciati in Italia, laddove gli stranieri regolari sono stimati, nell’ultimo rapporto Caritas del 2007, intorno al 6,2% della popolazione residente. Insomma, la sproporzione tra numero degli stranieri in Italia e stranieri denunciati, e la loro sovrarappresentazione tra la popolazione carceraria nasce in riferimento agli stranieri irregolari.

A questo punto potremmo fermarci, come fanno quasi tutti. A cominciare dai media. I clandestini sono naturalmente criminali, almeno potenzialmente. Chi viene per lavorare va bene: il regolare lo tolleriamo, del resto vediamo che lavora e non riempie le carceri. Gli altri vengono di nascosto, dunque per delinquere, e infatti riempiono le carceri.
Ma è qui che occorre invece riflettere. Il dato bruto va saputo leggere, interpretato. Anzitutto incrociando due dati. Il primo è che, come rileva anche l’ultimo Rapporto sulla Sicurezza, la maggior parte degli irregolari in Italia è costituita da stranieri entrati regolarmente e rimasti sul territorio oltre la scadenza prevista dal visto o dal permesso di soggiorno, i cosiddetti “overstayers”, che nel 2006 sono stati il 64% del totale, contro il 23% di coloro che sono entrati illegalmente attraverso i confini terrestri e il 13% via mare (un altro luogo comune da sfatare, quello che identifica il clandestino con quelli che arrivano sui barconi a Lampedusa). L’altro dato da considerare è che ben più della metà degli stranieri oggi regolari, in possesso di un permesso di soggiorno, sono passati per la condizione dell’irregolarità.
Insomma: moltissimi regolari sono stati clandestini, e moltissimi clandestini sono stati regolari. Questo ci impedisce insomma di fare divisioni, per così dire, antropologiche, trattandosi dei medesimi soggetti. L’irregolarità, di norma, non è che una condizione obbligata, dove invece la condizione desiderata è quella di regolarità. Questo allora ci induce a un’ipotesi: essendo il fattore variabile lo status giuridico stesso, a essere fattore di legalità è il fatto stesso della regolarità, con tutto ciò che comporta in termini di accesso ai diritti fondamentali, ai servizi (si pensi alla casa, il problema maggiore, per cui si trovano alloggi di fortuna, o appartamenti sovraffollati a costi altissimi; ma anche all’assistenza sanitaria, di cui spesso si preferisce non usufruire per paura di essere identificati ed espulsi), in termini di accesso al mercato del lavoro e dunque di possibilità di un introito adeguato relativamente ai motivi della migrazione (sopravvivenza, rimesse, ripianamento del debito: la maggioranza degli immigrati intendono tornare nel loro paese, ma poiché la metà ha accumulato debiti, e l’altra metà ha comunque impiegato risorse consistenti in relazione al proprio patrimonio, la loro permanenza sul territorio italiano si allungherà, visto che l’irregolare non può lavorare se non in nero, sottopagato, con assoluta precarietà, e lunghi periodi di disoccupazione); e, infine, in termini di condizioni quotidiane di vita.

Una conferma di questa ipotesi ci viene dal fatto che, in occasione delle sanatorie, quando agli irregolari è consentita l’emersione e l’acquisizione dello status di regolarità, il numero di reati commessi dagli immigrati ha un brusco calo. Ciò è evidente in particolare per i reati connessi agli stupefacenti (reato per il quale, stando a un’indagine Istat del 2006, è detenuto il 55% degli stranieri: un reato, va detto, per il quale — proprio per la sua natura — è molto più probabile l’arresto in flagranza rispetto ad altri reati): nel 1990 (sanatoria legge Martelli), nel 1995 (sanatoria decreto Dini), nel 1998 (sanatoria legge Turco-Napolitano), nel 2002 (sanatoria legge Bossi-Fini) la percentuale di stranieri denunciati per spaccio di droga è diminuita nettamente, come risulta da uno studio di Marzio Barbagli. Ogni volta, insomma, che si dà la possibilità agli stranieri di ottenere il permesso di soggiorno, una meta ambita da tutti, vissuta spesso come un sogno irraggiungibile, e come un’ossessione, allora non lo si vuole perdere davvero. E si evita di commettere qualsiasi tipo di reato, per non perderlo, per non perdere le possibilità di vita a cui esso consente di accedere. Finché uno è un clandestino, e in quanto tale privo di diritti e criminalizzato, è evidente che può venire indotto facilmente a delinquere per ovviare alla sua situazione di indigenza. E’ questo il risvolto giuridico della cosiddetta “profezia che si auto avvera”, insomma. Ma quando il clandestino acquisisce diritti, e non è più per definizione illegale e criminale, tenderà (e tende, in effetti, lo abbiamo visto) a evitare di commettere reati. E’ questo, io credo, il modo migliore — l’unico — per combattere la “microcriminalità”: ampliare l’area della regolarità. (Dopodiché si aprirebbe il discorso essenziale, che prescinde dalla nazionalità: quello di una giustizia efficiente e della certezza della pena; ma questo è un discorso che esula dal nostro sull’immigrazione).

La Bossi-Fini, inoltre, ha introdotto — a suggellare la criminalizzazione del migrante – l’aberrante reato di “immigrazione clandestina”, per il quale lo straniero che non ha ottemperato alla prima intimazione d’espulsione può essere arrestato e tradotto in carcere, con una pena fino a sei mesi. Il risultato di questa norma barbara è stato anzitutto un intasamento dei tribunali, denunciato dall’Associazione Nazionale Magistrati. (Lo accennavo prima: a Torino, nel 2005 su un totale di 5929 arresti o fermi, 2016 (il 34%) riguardavano i nuovi reati d’immigrazione introdotti dalla Bossi-Fini, e dei 3434 processi in direttissima con detenuti, 2079 ovvero il 60% riguardavano quei reati).
In un testo recentissimo, ancora inedito, Salvatore Palidda scrive:

Oltre che per i reati di immigrazione, gli stranieri finiscono in carcere per reati meno gravi di quelli attribuiti agli italiani: si tratta soprattutto di reati per spaccio che spesso colpiscono anche semplici consumatori (38,4 % del totale dei reati degli stranieri, contro il 16,5 % degli italiani) e furti.

Reati meno gravi, dunque, e lo sta a dimostrare il fatto che la media della pena a cui gli stranieri vengono condannati è molto più bassa di quegli italiani.

I motivi della sovrarappresentazione dei migranti tra la popolazione carceraria dipendono poi in maniera determinante da quello che in un rapporto della Caritas Ambrosiana su un’indagine svolta nel 2006 nelle tre carceri milanesi è stato definito “doppio binario” quanto al trattamento dei detenuti stranieri e di quelli italiani. Un doppio binario che agisce non appena si entri in carcere: il 60% degli stranieri, infatti, sono detenuti in custodia cautelare, in attesa di processo, contro il 40% degli italiani. Ma una discriminazione di fatto agisce anche e soprattutto dopo la condanna: sebbene infatti circa un terzo dei detenuti stranieri scontino condanne inferiori ai tre anni, non godono quasi mai, a differenza degli italiani, di pene alternative, quali affidamento ai servizi sociali o arresti domiciliari (poiché di solito, per ovvie ragioni, il clandestino non ha un domicilio stabile né una famiglia che li ospiti).
Così è scritto nel rapporto della Caritas Ambrosiana:

Quasi uno straniero su quattro (24,8%), inoltre, è detenuto per scontare una pena inferiore a un anno di detenzione, mentre gli italiani detenuti per una condanna così breve sono solo i 6,9%. Anche in questo caso, nonostante gli stranieri siano soltanto il 30% del totale dei detenuti che hanno subìto una condanna definitiva, essi rappresentano un’ampia maggioranza (61%) tra coloro che hanno subìto una condanna inferiore all’anno di detenzione. Questi dati confermano un maggiore utilizzo del carcere come misura cautelare nei confronti delle persone straniere, evidenziando l’esistenza di quel ‘doppio binario’ penitenziario per effetto del quale gli stranieri entrano più facilmente in carcere rispetto agli italiani e ne escono con molta più difficoltà, anche quando la condanna inflitta risulta di lieve entità.
Un altro dato rilevato con l’indagine è significativo in questo senso: tra gli stranieri risulta più alta la percentuale di chi non ha mai nemmeno formulato la richiesta di usufruire di benefici o di misure alternative alla detenzione, mentre, viceversa, è sensibilmente più elevata tra gli italiani quella di chi le ha chieste e soprattutto ottenute. Considerando soltanto chi ne aveva usufruito in passato o ne usufruiva ancora al momento della rilevazione emerge, ad esempio, che l’11,7% degli italiani ha potuto usufruire di permessi premio, rispetto al 4,2% degli stranieri. Inoltre il 7,4% degli italiani aveva, o aveva avuto in precedenza, un lavoro all’esterno (ex art. 21) rispetto al 2,9% degli stranieri.

E Palidda, nello stesso senso:

Secondo le ricerche di Antigone e le statistiche dell’Istat (2007), il 62% degli italiani è in carcere per condanne definitive e solo 35% in attesa di giudizio; al contrario il 41 % degli stranieri sconta condanne definitive e il 59% è in attesa di processo. La percentuale di stranieri in carcere è molto più elevata di quella degli stranieri che subiscono una condanna penale e ancor più di quella degli stranieri denunciati, il che significa che a ogni passaggio del percorso penale — denuncia, condanna, carcerazione — gli italiani hanno maggiori opportunità di “uscire” rispetto agli stranieri.

Una discriminazione di fatto, risalendo a ritroso, avviene anche nel processo penale. Gli immigrati non abbienti non hanno la possibilità di ottenere il patrocinio gratuito (è molto difficile per i regolari, ma impossibile per gli irregolari), e non possono dunque ottenere un’efficace difesa, ché il difensore d’ufficio — e l’ho verificato personalmente più e più volte – tende a chiudere il procedimento in fretta, senza approfondire troppo, senza andare al dibattimento, e chiudendo preferibilmente con un patteggiamento, dunque con una condanna. (In un un’inchiesta tra detenuti stranieri, il 30% diceva di non aver mai visto il proprio avvocato; quasi tutti gli altri dicevano di averlo visto raramente).
Si aggiunga poi che la popolazione immigrata è sottoposta a controlli e fermi di polizia molto più di quanto lo sia quella italiana. E’ il paradigma attuariale di cui parla De Giorgi in “Zero tolleranza”: la formazione di una nuova “classe pericolosa”, composta di soggetti, tutti quanti, potenzialmente pericolosi, che dunque devono essere soggetti più degli altri a controllo, ed è evidente che a maggior controllo corrisponde una maggior percentuale di reati. Questo si lega a una maggiore visibilità degli immigrati dovuta anche alla sostituzione con gli italiani nella criminalità, esattamente come avviene nel lavoro, dove ai livelli più bassi gli italiani vengono sostituiti dagli stranieri. Cito ancora Palidda:

Fra gli italiani per ogni 100 denunciati si hanno 16 arrestati fra gli stranieri per ogni 100 denunciati si hanno 35 arrestati, a conferma che le misure repressive sono più accentuate a danno di questi ultimi.

C’è un altro dato che mi fa avanzare un’ulteriore ipotesi. Il dato che riguarda il numero dei detenuti stranieri e il numero dei reati ad essi ascritti. Se i detenuti stranieri rappresentano circa il 33% del totale, i loro reati ammontano al 21% circa. I detenuti italiani hanno in media più reati per i quali scontano la detenzione rispetto agli stranieri. Dati che indicano come la criminalità italiana sia più professionalizzata, per così dire (assommano più capi d’imputazione), laddove per gli stranieri è più comune andare in carcere per un solo reato. Una criminalità dunque più debole, precaria, e che sarebbe dunque più facilmente “recuperabile” alla legalità, laddove si uscisse dal paradigma repressivo vigente. Un’ipotesi confermata da un altro dato, quello della minor recidiva di coloro che hanno beneficiato dell’indulto. Se il 38,14% erano stati gli stranieri usciti dal carcere, quelli rientrati sono stati il 34,73%.
Dati, dunque, ben diversi dalla percezione dell’opinione pubblica: quella doxa costruita dai media in cui i casi di criminalità straniera sono regolarmente sovrarappresentati rispetto alle notizie sulla criminalità nel suo complesso: il punto culminante, come scrive Salvatore Palidda, di un “processo di costruzione sociale che fa di essi dei delinquenti”. Sarebbe il caso di esaminare nel dettaglio, statisticamente, questa sovrarappresentazione mediatica, nella sua funzione “mitopoietica”.
Questi dati, io credo, rafforzano radicalmente la tesi focalizzata in precedenza: determinante ai fini di una riduzione della criminalità è la politica della legalità, dell’emersione, dei diritti.

A chiusura di questo itinerario — arido ma necessario — nei dati, non posso che chiudere con l’esempio dei rifugiati politici, di coloro che hanno un permesso di soggiorno per asilo politico, e dei richiedenti asilo. Ora, questi soggetti risiedono in Italia regolarmente, senza alcuna garanzia di lavoro. Anzi, spesso (è il caso degli eritrei, ad esempio, che ho conosciuto nella ex polveriera di via Forlanini a Milano, tra ratti giganti e cumuli di immondizia) versano in condizioni economiche miserabili. Anche quelli che usufruiscono di uno status di rifugiato (cosa ardua, in Italia, da ottenere, spesso negata e raramente dispensata a occhi chiusi da funzionari che nulla conoscono della situazione del paese da cui viene il richiedente). L’Italia è l’unico paese d’Europa che non ha ancora una legge organica sui rifugiati. E molti eritrei che ho conosciuto rimpiangono il fatto di essere stati identificati in Italia e dunque, in virtù della convenzione di Dublino, essere costretti a chiedere l’asilo nel nostro paese. Il quale nulla offre ai rifugiati. La maggior parte di loro, dopo la permanenza in CPT e CDI, vengono sbattuti in mezzo alla strada senza nulla a pretendere. E ben pochi sono quelli che riescono a usufruire dell’accoglienza di quello che fino a qualche anno fa si chiamava “Programma Nazionale Asilo”. Eppure — ed è questo il punto – le carceri non traboccano di eritrei, o liberiani, o sudanesi…
Insomma, nel caso degli asilanti, chiamiamoli così, per i quali non vige il nesso sciagurato soggiorno/lavoro (non devono avere un contratto di lavoro per poter avere un permesso di soggiorno), ciò che fa la differenza è proprio lo status giuridico che dà loro diritti, che gli consente di esistere, alla luce del sole, come persone.
Questo è dunque il da farsi. Consentire che il clandestino esca dall’ombra in cui è cacciato, consentirgli di acquisire una forma, un contorno definito. Farlo uscire dai campi, dai luoghi d’eccezione in cui la persona scompare in un gorgo che annulla in quanto persona, quei campi che prendono corpo e luogo nei CPT – e aprirgli un campo di possibilità, un campo aperto dal possesso di diritti, che nel loro intrecciarsi formano la figura di un’esistenza che oggi gli è negata.

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Sassolini
(Non c’era questo, non c’era quello; Numeri è l’anagramma di rumeni;
Zingari rapiti dai bambini; Passerà, passerà…)
Da Giap n.16/18, num. triplo, 26 novembre 2007


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