di Alberto Prunetti
[Prefazione a Primitivo Attuale, di John Zerzan, edito da Stampa Alternativa]

neoprimitivismo.jpgNo, non sono né selvaggi, né barbari, né bestie. Gli uomini addomesticati
chiamano se stessi “civili” e pronunciano questa parola
con un carico di vibrazioni etiche e di autostima. Eppure… eppure
alla lettera civile viene da civis, che in latino significa soltanto
“colui che abita in città”.
Abitato da persone civili da svariati millenni e ricoperto dalle loro
città, il pianeta sembra prossimo al collasso. I più civili tra questi
abitanti delle città si preoccupano di non creare allarme: certo, il
clima si riscalda, ma è un episodio tra altri… la popolazione cresce,
le zone desertiche si estendono, si allarga il buco dell’ozono, le
specie scompaiono insieme alle foreste pluviali, la gente muore di
fame su tre continenti e si gonfia di psicofarmaci nelle altre lande,
più civili, dove si respira aria inquinata e ci si ammala di tumore.
E tuttavia il problema, per questi signori, non sta nella civiltà.
Anzi, dobbiamo essere ancor più civili: ci vuole il nucleare per
rispondere ai blackout elettrici, tuona Bush, e più guerre per ridare
fiducia ai consumatori.
Aldilà di questi paradossi, lo stato del pianeta e la vita degli esseri
che lo abitano esigono un ripensamento completo del nostro stile
di vita.

8872267935g.jpgSi può sostenere — e di solito si fa proprio così — che il
problema non sia la civiltà nel suo complesso. Che i problemi che
attanagliano l’umanità siano imputabili a circostanze economiche,
da affrontare singolarmente. Ma questa prospettiva, che trova
così tanti sostenitori tra assessori e ricercatori in carriera, che
parla di “sviluppo sostenibile” e di “salvaguardia delle specie protette”,
non è quella di questo libro. C’è chi ritiene che l’umanità
di oggi non sta solo preparando un incubo per i propri discendenti,
ma sta replicando, su scala magnificata e accelerata, gli errori
commessi in antico da romani, sumeri e cinesi: tagliare i boschi,
dividere i terreni, stabilire confini di proprietà. Fissare misure e
strumenti di calcolo. Sviluppare alfabeti con cui scrivere leggi.
Alzare mura per fare prigioni dentro alle città, e poi intorno alla
città, un muro ancora, a fare anche di questa una laboriosa prigione.
C’è chi ha poi guardato a quei pochi popoli di “selvaggi”,
che ancora vivono di caccia e raccolta nelle regioni più inadatte
alla civiltà del pianeta. Uomini senza fede, né leggi, né re… erano
quindi, secondo i missionari cattolici, poco più che bestie. Ma
i boscimani e gli aborigeni, come adesso ammettono anche i viaggiatori
e gli etnologi, quando possono vivere secondo le loro abitudini
millenarie sono sani, si nutrono in maniera soddisfacente, non
dedicano più di due, tre ore al giorno a problemi di sussistenza
materiale. E soprattutto non distruggono se stessi e il loro ambiente.
E il resto della giornata la passano a ridere, intorno al fuoco, a
inanellare racconti che descrivono le loro origini o il loro territorio,
con linguaggi singolarmente ricchi di parole e dettagliati,
magari privi di numeri e di categorie temporali, perché loro, loro
sì, vivono nel presente e non hanno da contare i quattrini per arrivare
in fondo al mese.
Ecco allora che sull’onda di un interesse diffuso, soprattutto negli
anni ’70, di rivalutazione dello stile di vita delle società selvagge
e di critica dell’involuzione tecnologica e autoritaria dell’occidente,
un filone di pensiero è fiorito negli Stati Uniti. Là, nell’Oregon
come sui monti Appalachi, la wilderness, la selvatichezza,
resiste ancora ai colpi di martello dell’uomo civilizzato. Là, la preistoria è appena sotto i piedi: una delicata punta di selce, perfetta
nel suo parallelismo, puoi incontrarla dopo un rovescio di pioggia
sul greto di un torrente, a ricordare che si poteva vivere di poco,
possedendo solo ciò che si poteva trasportare, muovendosi sempre,
costruendo i propri semplici attrezzi con una tecnologia di legno e
pietra che non necessitava di figure di specialisti.
A partire dagli anni ’80, mentre la crisi dei movimenti di protesta
dei decenni precedenti porta ad un ripensamento sul ruolo
dei marxismi e delle critiche politiche, si comincia a leggere meno
Marx e Bakunin e si cammina di più per i boschi, portandosi
dietro Walden di Thoreau, le memorie di Geronimo e una etnografia
degli Inuit. Gruppi di ecologisti radicali si moltiplicano:
ci si raduna per impedire il taglio dei boschi, per sabotare la
costruzione di una diga, per liberare i visoni dalle gabbie degli
allevamenti. Una guida forestale, Edward Abbey, scrive un
romanzo che è un’apologia dell’azione diretta in difesa del pianeta:
The Monkey Wrench Gang. zerzanx.jpgIl libro è un successo. Abbey
si ripete con un più tecnico manuale di sabotaggio e inizia a partecipare
alle attività della rivista e del gruppo di ‘ecologia profonda’
EarthFirst! che proprio a Eugene (Oregon) – dove vive Zerzan [nella foto]
– più tardi sposterà la propria redazione. Nonostante queste
premesse, c’è pure chi gli offre un importante premio letterario:
Abbey si rifiuta di ritirare il premio sostenendo di aver già programmato
un’escursione in canoa sul fiume Idaho per la data
della cerimonia.
Nel 1983 viene dato alle stampe il saggio Against His-Story,
Against Leviathan
, del libertario americano Fredy Perlman, collaboratore
della rivista anti-tecnologica Fifth Estate. L’autore vede
la civiltà emergere dai sistemi di irrigazione dei sumeri, che per la
gestione di questo sistema idraulico svilupparono una casta di specialisti, la cui autorità si estese sul corpo sociale. Da questo primo
germe autoritario si sarebbe sviluppato il primo Leviatano, che
stenderebbe la sua ombra, la storia, con un carico di guerra, schiavitù
e infelicità.
È sempre Fifth Estate ad ospitare gli scritti di autori su posizioni
attigue a quelle di Perlman. Zerzan è un collaboratore del gruppo,
passa molte ore nella biblioteca di Eugene a leggere storia e
antropologia. Inizia a porsi il problema delle origini dell’alienazione,
si chiede anche se “facoltà” che nei libri e nel senso comune
sono considerate come “date a priori”, non siano invece umane,
troppo umane: abiti culturali da smontare con una analisi genealogica.
Inizia un’indagine sulle categorie alla base della nostra percezione
e della nostra alienazione: il tempo, il numero, il linguaggio.
Scrive anche dell’agricoltura, perché nella nuova ottica,
che viene chiamata primitivista, o più precisamente anarco-primitivista,
si sottolinea la rivoluzione neolitica (l’emergere della
produzione del cibo, vale a dire dell’agricoltura e della domesticazione
animale) come spartiacque tra due ere. Da una parte quindi
un’età dell’oro che si è estesa lungo tutto il paleocene, con una
umanità dotata delle nostre stesse capacità cognitive e priva di
autorità e lavoro, con una relativa assenza di malattie e uno stile
di vita egalitario; dall’altra un mondo spaccato da guerre, dove il
pane lo si guadagna con la maledizione del sudore, con medici che
curano le ferite del corpo e preti che invano cercano di risarcire
quelle dello spirito. E a proposito di corpo e spirito: un fiorire di
dualismi, a seguire il distacco tra l’uomo e la natura. Inizia la
civiltà, finisce la comunità.
Il libro di Zerzan dà molti spunti e può lasciare il lettore, soprattutto
quello europeo, interdetto. In fondo noi europei siamo ultracivilizzati.
Guardiamo ai greci, e ci dimentichiamo che la loro società si reggeva sullo sfruttamento degli schiavi. Guardiamo agli
etruschi e cantiamo le finezze delle loro pitture tombali (realizzate
per il sonno eterno dei principi, con il sudore delle maestranze)
e ci dimentichiamo del taglio delle foreste di leccio originarie che,
nel nome della metallurgia, forgiatrice di spade, ha spogliato gli
ecosistemi ancestrali dell’Etruria. Ma in Australia la preistoria è
resistita fino a quasi due secoli fa: prima che sbarcasse Cook nel
1770, a portare la civiltà britannica (e pochi anni dopo farsi
ammazzare dalla lancia di un selvaggio delle isole Sandwich), nel
continente australe non si conoscevano i dubbi meriti del progresso,
che faceva morire a Manchester gli umani forse anche prima
dei loro coetanei aborigeni, e sicuramente li faceva vivere peggio.
Per questo vorrei invitare a leggere non solo Zerzan, ma anche
qualche libro che descriva lo stile di vita dei raccoglitori-cacciatori
odierni: i boscimani, ad esempio, ma anche gli Yanonami,
più aggressivi. Si può iniziare un viaggio meraviglioso tra i costumi
dei primitivi contemporanei, e vedere ad esempio come gli
Yanonami trattano i capi. Gli Yanonami sono un esempio di
società senza potere, e tuttavia hanno capi. Il capo è un mediatore,
ma non può coercere nessuno. Dove non c’è coercizione, dove
non c’è obbedienza, non c’è potere. Il capo può esprimersi, ma
nessuno è tenuto a rispettare la sua opinione. Quando non c’è
accordo tra i membri, le tribù si dividono, salvo poi riunirsi in
seguito se un accordo riemerge. Nei confronti dei primi germi
di autorità c’è una splendida diffidenza. Non è raro tra gli Yanonami
che un capo che voglia affermare la propria autorità si
ritrovi escluso dal gruppo. Un esempio molto divertente, citato
dall’antropologo francese Clastres, è quello relativo ai tentativi
del governo brasiliano di avere un rappresentante degli Yanonami
per trattative connesse a progetti di sfruttamento del territorio di questa popolazione indigena. I brasiliani vogliono un capo,
un rappresentante, qualcuno che parli per tutti, un politico
insomma. Ecco il comportamento degli Yanonami: o mandano
lo scemo del villaggio, o mandano qualcuno a cui interessi fare
il capo. Colui che si fa avanti per il ruolo di rappresentante,
diventa lo scemo del villaggio, e si fa oggetto di scherzi, pesanti
ilarità, forse anche fenomeni di bullismo. Con l’ironia e lo sberleffo,
si tiene l’autorità nel fango.
Dopo l’etnologia, un altro filone di critica che ha affinità con il
primitivismo è l’archeologia radicale: una corrente teorica interna
all’archeologia accademica di lingua inglese, che utilizza la
documentazione archeologica al fine di mettere in discussione lo
stile di vita della civiltà occidentale. Secondo l’archeologa americana
Theresa Kintz – autrice della prefazione dell’ultimo libro di
Zerzan, Running on Emptiness (2002) – gli archeologi potrebbero
essere dei critici molto persuasivi dell’insostenibilità dello sviluppo
economico. È possibile sostenere che l’espansione della civiltà
è pericolosa per l’umanità e le altre specie del pianeta. Dalla documentazione
archeologica apprendiamo che lo sfruttamento eccessivo
di risorse circostanti gli insediamenti umani, la crescente complessità
della cultura materiale e della tecnologia, la stratificazione
sociale, sono pericolosi per l’uomo e l’ambiente. In Italia l’archeologia
accademica, sebbene studi lo sviluppo e il collasso dei
sistemi sociali e delle civiltà, si guarda bene dallo sviluppare analisi
di questo tipo nei suoi rapporti. Gli archeologi italiani si
accontentano di fare i loro scavi, quando ne hanno la rara possibilità,
compilando le schede ministeriali di scavo con superficiali
resoconti che utilizzano un numero abbastanza limitato di termini
tecnici, una sorta di lista della spazzatura, l’elenco dei manufatti
raccolti e la loro collocazione topografica, senza tentare di
rivolgersi al quadro generale che ospita questi manufatti e racconta
l’estinzione degli individui che li possedevano. Al contrario,
negli Stati Uniti un approccio meno idealista e meno ingessato,
volto ad indagare le tecniche elementari di sussistenza (che aspetto
aveva quel sito? di cosa era fatto? chi lo utilizzava? dove gettavano
i rifiuti? chi e come produceva gli strumenti di pietra? da
dove veniva il materiale usato? dove si faceva la ceramica? dove
tenevano gli animali domestici se li avevano? dove macellavano
gli animali? che piante mangiavano? seppellivano i morti? dove e
in che modo?) ha permesso di elaborare contributi anche tecnici
che sono poi confluiti nell’opera di Perlman e di Zerzan.
Per tornare appunto all’opera di Zerzan, un altro elemento di rilievo
è il ruolo devastante del simbolismo, come attività di sostituzione
e delega che si realizza nei linguaggi. A questo proposito uno
degli autori più citati da Zerzan, anch’egli critico – benché più
moderato – del progresso e della tecnologia, è Lewis Mumford.
Mumford sostiene in Arte e tecnica che la storia dell’umanità è
segnata da questi due elementi, il simbolo e lo strumento, e che il
predominio dell’uno sull’altro costituisce modelli diversi di società.
Le società simboliche sono basate sui libri, sui rituali, sulle seduzioni
simboliche del costume, della pittura, del pubblico cerimoniale;
le società tecniche invece si basano sulla tecnica, sull’oggetto,
sullo strumento. In realtà ogni periodo vede una presenza dell’uno
e dell’altro elemento: simbolo e strumento si integrano e
rinforzano allo stesso tempo. Il progresso scientifico, che appartiene
alle culture dello strumento, non è esso stesso un simbolo, un
mito? E la scienza non ha poi i suoi cerimoniali, i suoi riti di iniziazione
accademica, le sue parate pubbliche?
La moltiplicazione dei simboli che mediano la vita degli individui
dà luogo alla loro svalutazione. Così ci ritroviamo a vivere in
un mondo di seconda mano, di fantasmi, di riflessi, in cui i simboli
costituiscono l’unico campo della nostra esperienza. I simboli
si accavallano, le metafore linguistiche sono sempre più usurate,
mentre parlare diventa un brusio di fondo in esistenze noiose: il
risultato è l’isteria e la dissociazione dei parlanti.
In uno scenario così avvilente non sappiamo più relazionarci gli uni
con gli altri. E che dire del nostro rapporto con l’ambiente che ci circonda?
Arrampicarsi, pisciare nel bosco, nuotare in un fiume… molte
persone, dopo una vita spesa in contesti urbani, spesso non riescono
a fare neppure queste semplici esperienze. Peggio ancora, oltre le
parole non sappiamo andare: non siamo più capaci di esperire la
natura oltre il linguaggio; non riconosciamo gli animali dal loro
richiamo, non sappiamo più leggere le orme del loro passaggio, scrutare
le nuvole, riconoscere i venti, curarsi con le erbe selvatiche,
distinguere i funghi commestibili da quelli velenosi. Non sappiamo
più accendere il fuoco con due legni e le foglie secche. Non sappiamo
più trovarci da soli il cibo di cui abbiamo bisogno, o costruire gli
attrezzi che ci necessitano. Siamo dipendenti dalla mega-macchina
del potere, che ci tiene come bestie mansuete: alla catena dei bisogni
indotti. Ecco, per molti è arrivato il momento di smontare questa
macchina, prima che essa ci distrugga completamente.
Le società primitive per migliaia e migliaia di anni hanno rifiutato
di svilupparsi, di crescere nel numero e nella tecnica, anche se
ne avevano tutta la possibilità. Sapevano che non si può distruggere
tutte le risorse, che è necessario muoversi sempre da un posto
ad un altro ed evitavano di espandersi all’infinito: vivevano in
bande di poche dozzine di individui, per non distruggere l’equilibrio
di una zona.
Non sappiamo se la società del futuro assomiglierà ad una società
primitiva o una discarica di lamiere inerti. Quel che è certo, e questo è un indubbio merito di Zerzan e degli altri primitivisti, e che
adesso non si può più sostenere che la civiltà ci ha salvati da un passato
brutale e orribile. La descrizione di Hobbes è una menzogna
del potere. La guerra di tutti contro tutti inizia con la proprietà dei
terreni a scopo agricolo, vale a dire con la civiltà, con la rottura neolitica
dello stile di vita della caccia e della raccolta. Se la civiltà non
è un passo inevitabile nella storia della specie umana, se il 99 per
cento del cammino della vita umana sul pianeta è stato fuori dai
sentieri della civiltà, allora non ci sono più scuse per accettare di
vivere in un mondo che assomiglia ad un vascello lanciato in una
corsa disperata contro le rapide. È arrivato il momento di cambiare
direzione. È arrivato il momento di ammutinarsi.

John Zerzan è probabilmente il nome più noto del movimento di ecologia radicale d’oltreoceano. Il suo nome è spesso associato agli scontri di Seattle e al caso Unabomber.
Nato nel 1943 in Oregon, Zerzan si è confrontato con una tendenza critica del pensiero antropologico e archeologico, molto forte negli USA. L’ipotesi su cui ha lavorato è quella per cui con la “rivoluzione neolitica” l’umanità ha preso una piega distruttiva. All’originaria unione e comprensione del mondo si è sostituito l’imperativo dello sfruttamento delle risorse e dell’accumulazione dei beni. Nella logica dell’addomesticamento si sono chiusi gli animali nei recinti, i vegetali nelle serre e gli umani nelle città. Questa logica sta spingendo il pianeta verso l’esaurimento delle risorse e un imminente collasso.

Lontani da un semplice profetismo catastrofista, gli scritti di John Zerzan prefigurano un futuro primitivo e antiautoritario tutto da inventare: vivere senza gerarchie e dipendenze, nel ritrovato abbraccio di umanità e natura.