di Paolo Lago e Gioacchino Toni

La serie televisiva britannica in nove episodi Dept. Q – Sezione casi irrisolti (Dept. Q, 2025 – Netflix), realizzata da Scott Frank e Chandni Lakhani, deriva da La donna in gabbia (Kvinden i buret, 2007), il primo dei romanzi del danese Jussi Adler-Olsen incentrati attorno alla Sezione Q guidata dall’ispettore Carl Mørck della polizia di Copenaghen. Il ciclo di romanzi si apre con il protagonista che, dopo un periodo di convalescenza in seguito a una ferita subita mentre compie un intervento sul luogo di un delitto, rientra in servizio accolto con diffidenza, quando non con evidente ostilità, dai colleghi in quanto ritenuto responsabile, per la sua condotta sulla scena del crimine, della morte di un agente e delle lesioni alla spina dorsale di un secondo a cui è particolarmente legato. L’avversione dei colleghi ed il senso di colpa provato dall’ispettore per l’accaduto, rendono difficili i rapporti all’interno della Centrale di polizia, tanto da indurre i dirigenti a isolarlo affidandogli la nascente squadre anticrimine, la Sezione Q, destinata ad occuparsi di crimini irrisolti, collocata nei sotterranei.

Dal ciclo di romanzi di Adler-Olsen sono stati tratti diversi film: Carl Mørck – 87 minuti per non morire (Kvinden i buret, 2013) di Mikkel Nørgaard, che si rifà al primo romanzo a cui si riferisce anche la serie televisiva; The Absent One – Battuta di caccia (Fasandræberne, 2014) di Mikkel Nørgaard; A Conspiracy of Faith – Il messaggio nella bottiglia (Flaskepost fra P, 2016) di Hans Petter Molan; Paziente 64 – Il giallo dell’isola dimenticata (Journal 64, 2018) di Christoffer Boe.

L’ambientazione danese dei romanzi, e dei film che ne sono derivati, lascia il posto nella serie televisiva ai brumosi paesaggi scozzesi di Edimburgo mentre il detective Carl Mørck muta leggermente la grafia del nome divenendo Carl Morck (Matthew Goode). Al fine di rendere ulteriormente conflittuale il rapporto tra quest’ultimo ed i colleghi, nella serie viene presentato come forestiero: un burbero e sarcastico inglese alle prese con colleghi scozzesi non particolarmente ben disposti nei suoi confronti, così da accentuare le reciproche diffidenze.

Al protagonista viene affiancato un altro straniero, il siriano dal passato misterioso Akram Salim (Alexej Manvelov) che, nonostante si mostri inizialmente impacciato, catapultato com’è in una realtà che non conosce, darà prova di sagacia e persino di inattese abilità nel corpo a corpo. Nelle indagini ai due forestieri si aggiunge poi Rose Dickson (Leah Byrne), una giovane agente investigativa alle prese con i postumi di un crollo nervoso in cerca di un’opportunità per dimostrare il suo valore e, a distanza, James Hardy (Jamie Sives), l’amico e collega del protagonista che ha subito lesioni alla spina dorsale.

Insomma, la Sezione casi irrisolti di Edimburgo è composta da una serie di figure di scarto, di devianti, che non potevano che essere relegate ai margini dello spazio occupato dai restanti agenti di polizia. La comandante della Centrale di polizia, Moira Jacobson (Kate Dickie), li destina ai tetri sotterranei dell’edificio tra file di fatiscenti orinatoi alla parete e vecchio mobilio accatastato, sotto una luce al neon che sopperisce artificialmente alla mancanza di luce solare.

Il ricorso alla figura del forestiero costretto a fare i conti con un ambiente a lui ostile è un topos ricorrente in questo genere di narrazioni, così come lo sono la figura del detective dal passato ombroso, intrattabile e poco socievole, a cui vengono affiancati collaboratori altrettanto “periferici”, e la “sezione confino”, isolata da tutto e tutti, a cui sono destinati i protagonisti. In ambito letterario tra gli esempi più celebri di sezioni investigative periferiche, come periferico è chi vi lavora, può essere ricordata la Factory dei romanzi di Derek Raymond, una stazione di polizia di Chelsea a cui Scotland Yard affida casi di omicidio di non facile soluzione per la loro insignificanza di cui gli investigatori preferiscono non occuparsi per lo scarso lustro che ne deriverebbero.

Restando invece alle produzioni seriali televisive recenti, ad essere marginalizzata sin dalla collocazione degli uffici in cui lavora è anche la detective Önem (Birce Akalay) protagonista della serie turca Mezarlık (dal 2022 – Netflix), visibile in Italia dal 2025, prodotta da Abdullah Oğuz e scritta da Özden Uçar ed Onur Böber, incentrata sulle indagini di un ristretto gruppo investigativo guidato da Önem che si occupa di crimini (sepolti) contro le donne relegato, anch’esso, nei sotterranei della Stazione di polizia (mezarlık significa cimitero), a sancire come i delitti di cui si occupano la detective e i suoi stravaganti collaboratori non trovino spazio nei piani nobili dell’edificio né interesse sincero nei funzionari (maschi) che occupano i posti di comando.

In comune con Dept. Q, la serie turca ha anche la particolare composizione della piccola unità di investigazione che, anche in questo caso, annovera figure inconsuete: dai detective Serdan Ata (Olgun Toker) e Hasan Duru (Şehsuvar Aktaş), alle prese il primo con un rapporto complesso con il padre in polizia e il secondo ossessionato da non aver saputo risolvere il caso in cui è stata uccisa la figlia, oltre che dagli eccentrici Berk Güleryüz (Baran Güler), esperto in investigazione tecnico-scientifica e dall’informatica Sofia (Berna Öztürk), quest’ultima sostituita nella seconda stagione da Selin Korkmaz (Arbil Tabur).

Lo spazio eterotopico sotterraneo, isolato dal resto del mondo, in cui si è costretti ad immergersi per poter affrontare quanto la luce del sole non vuole vedere è un elemento ricorrente nel crime in tante sue sfaccettature. Può trattarsi degli scantinati delle stazioni di polizia in cui vengono dislocate le sezioni destinate ad occuparsi di crimini irrisolti o che non interessano a nessuno, così come di labirintici spazi nel sottosuolo ove si svolgono attività non permesse in superficie, come nel caso dei tunnel di servizio abbandonati sotto una stazione della metropolitana di Oslo dalla serie norvegese Valkyrien (2017 – NRK1) di Erik Richter Strand, medical crime drama poi ripreso dal britannico Temple (dal 2019 – Sky) realizzato da Mark O’Rowe.

Come nel caso della serie svedese Glaskupan. La cupola di vetro (Glaskupan, 2025 – Netflix) ideata da Camilla Läckberg e diretta da Henrik Björn e Lisa Farzaneh, in cui la protagonista, da piccola, viene costretta all’interno di una struttura trasparente così da sottoporsi allo sguardo morboso del rapitore, anche nel caso di Dept. Q si ha un personaggio femminile rinchiuso in uno spazio angusto, in questo caso una claustrofobica camera iperbarica, in balia dello sguardo dei rapitori che la osservano dai monitor attraverso le telecamere installate nel luogo di prigionia.

Parlando di eterotopie claustrofobiche non possiamo allora non ricordare anche lo spazio del traghetto sul quale si imbarcano Merrit e suo fratello: secondo Foucault, infatti, la nave si configura come “l’eterotopia per eccellenza”. Non a caso, è proprio sul traghetto che avviene la sparizione della ragazza; quest’ultimo si caratterizza come uno spazio oscuro e per certi aspetti mostruoso, un essere meccanico che apre il suo ventre metallico ed è capace di inghiottire i personaggi nelle sue spire, come il pescecane di Pinocchio. Il traghetto è una sorta di terribile mostro marino in navigazione su un mare nordico, scuro e inquietante; d’altra parte, è proprio su un traghetto – che fa la spola fra la Danimarca e l’Islanda – che avviene un efferato omicidio nella serie TV islandese Trapped (Ófærð, dal 2005 – Netflix), : i passeggeri vengono bloccati a bordo e la nave si trasforma in una vera e propria eterotopia dell’incubo. Anche per Merrit e suo fratello affetto da problemi psichici il traghetto appare come un antro mostruoso navigante e semovente: nei suoi interstizi si può celare un orrore terribile proveniente dal passato. È sul traghetto, infatti, che il fratello William (Tom Bulpett) intravede un oscuro individuo che indossa un cappello con il simbolo di un uccello che sarà al centro delle investigazioni di Morck e della sua squadra.

Un altro luogo per certi aspetti eterotopico è la clinica psichiatrica dove William viene rinchiuso: luogo di reclusione e separazione dei ‘diversi’ e dei ‘folli’, spazio deputato al “grande internamento” secondo l’analisi foucaultiana ma anche interstizio malato della società capitalistica perché la direttrice potrebbe rivelarsi unicamente interessata alla ricchezza ereditata dal fratello giovane. D’altra parte, egli giunge dall’oscuro spazio del mare, che ha solcato proprio a bordo del traghetto e la sua follia appare associata ad uno spazio acquoreo e inquietante: infatti, secondo Foucault la follia appare strettamente connessa agli spazi acquorei, perché essa “è l’esterno liquido e grondante della rocciosa ragione”1. Un altro spazio eterotopico è proprio l’isola che sta al di là del mare, luogo natale di Merrit e del fratello, nel quale i ricordi angosciosi dell’infanzia e dell’adolescenza sono pronti a riemergere e a fagocitarti. Si attraversa il mare per fare ritorno a un luogo segnato dall’angoscia e dal rimorso, un’isola, uno spazio separato dal resto del mondo. Come la protagonista di Glaskupan, Merrit si sta dirigendo verso il luogo di un passato pronta ad aggredirla e a fagocitarla.

Come accennato, Merrit viene rinchiusa in una camera iperbarica, uno spazio nel quale vengono rinchiusi i sommozzatori che rientrano in superficie troppo in fretta. Si tratta di un luogo legato alla profondità del mare; non a caso mentre si trova al suo interno parte spesso una voce meccanica che avvisa sul funzionamento della camera iperbarica per i sommozzatori. È come se Merrit fosse stata ingoiata dal mare che ha solcato a bordo del traghetto oppure fosse discesa in quello stesso mare all’interno dei metallici orpelli della nave, tramutatasi in orribile sommergibile. Il corpo della giovane è rinchiuso in una struttura ferrea e metallica (il contrario – si potrebbe azzardare – della cupola di vetro di Glaskupan), pesante e spessa, ventre incapsulante posizionato a sua volta in una periferia industriale, sulla stessa isola, caratterizzata da vecchie strutture industriali abbandonate intorno alle quali numerosi cartelli avvisano della presenza di rifiuti tossici. È uno spazio liminale, una spazialità marginale e lontana e, appunto per questo, può celare in sé l’orrore come la periferia portuale nella quale si trova ormeggiata la metallica barca abbandonata nella quale troverà la morte Max Renn, protagonista di Videodrome (1983) di David Cronenberg. La profondità alla quale allude la camera iperbarica è anche lontananza nel tempo, limbo amniotico nel quale galleggiano i ricordi pronti a devastare la psiche. È proprio all’interno di essa che Merrit viene sottoposta ad una incessante tortura riguardante il passato, il quale sembra assumere le sembianze di un cupo spettro che avvolge i personaggi.

Non dobbiamo dimenticare, infatti che non solo Merrit è tormentata dal passato, ma anche l’ispettore Morck, attanagliato dai sensi di colpa per l’uccisione del giovane agente e il ferimento del suo amico, nonché l’ispettrice Rose Dickson, tormentata dal rimorso per aver investito un anziano durante un inseguimento in auto e Akram Salim, legato alle sofferenze del suo passato in Siria. E, come un fantasma che sembra la materializzazione fisica di quel terribile passato, grava su tutto il torbido e oscuro paesaggio scozzese, ambientazione ideale di una riuscita crime story che si incunea verso il noir.


  1. Cfr. M. Foucault, L’acqua e la follia, trad. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 1, Follia, Scrittura, Discorso, a cura di J. Revel, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 74