di Franco Pezzini

Giorgio Leonardi, Maria Malibran. Vita straordinaria di una diva, pp. 216, € 18, Le Lettere, Firenze 2022.

Giorgio Leonardi, Ghigliottina e dinamite, storia di Ravachol, pp. 100, € 15, Tempesta, Trevignano Romano (RM) 2022.

[…] solo pochi mesi dopo la morte di Maria Malibran [1836], la principessa Vittoria della dinastia degli Hannover prenderà ufficialmente le redini del più grande impero del tempo, la Gran Bretagna, diventando regina all’età di appena diciotto anni [1837] e dando inizio a quel lungo periodo storico che porta il suo stesso nome. Le rinomate e pregevoli fabbriche di ceramica dello Staffordshire furono probabilmente le prime a realizzare delle statuine di Vittoria in procinto di diventare regina. Ma pochi sanno che, in quel frangente, alla giovanissima regnante vennero date le sembianze di Maria Malibran! Infatti, probabilmente per bruciare sul tempo le fabbriche concorrenti, la prima figura in ceramica della nuova sovrana venne realizzata usando lo stesso stampo già utilizzato per la grande diva della lirica, ricavato da un’incisione dell’epoca. Curiosamente le statuine delle due grandi donne conservano quindi, in maniera assai singolare, la stessa posa e gli stessi tratti del viso!

 

Fatto tanto più paradossale considerando come la giovane Vittoria, che pur aveva giudicato “superlativa” l’interpretazione di Desdemona da parte della Malibran, in generale non fosse troppo avvinta dalla figura della carismatica cantante (che liquida come un po’ bassina) e dalla voce – a suo parere eccellenti le note basse, discutibili gli acuti – che invece fa andare in delirio il pubblico. Il fatto è che Maria Malibran (nata nel 1808, morta a Manchester appena ventottenne) innova radicalmente il canto, e portando nella lirica una libertà interpretativa appassionata e una recitazione emozionata ed emozionante – da attrice vera e propria, e con il calore delle sue origini andaluse – impone nei teatri un nuovo stile romantico, con gorgheggi virtuosistici, contro quello compassato e classicheggiante, più sobrio e asciutto preferito dalla futura regina Vittoria (che le antepone il soprano Giulia Grisi), ma anche, per dire, da Stendhal e Delacroix.

 

Non ce n’erano molte, a certi livelli, che sapessero eseguire più registri canori con una voce che poteva raggiungere tre ottave di estensione. Poteva infatti svariare dal registro di soprano per arrivare a quelli di mezzosoprano e contralto con incredibile naturalezza, padroneggiandoli tutti indistintamente. Il suo timbro, alquanto grave, poteva essere definito, per certi aspetti, più “maschile” rispetto a quello di tante sue colleghe. E poi era una vera e propria virtuosa, capace di modulare le emissioni vocali in infinite e prodigiose “colorature”, come si dice in gergo lirico, cioè quegli ornamenti canori e quei vocalizzi che conferivano a ogni aria una nuova sfumatura: con la sua voce era in grado di improvvisare e variare a tal punto la partitura che lo stesso pezzo, ogni volta che veniva eseguito, appariva diverso.

 

Giorgio Leonardi si è conquistato negli anni una solida reputazione di studioso eclettico, curatore di collane belle e originali (prima “I Grandi Inediti” per le Edizioni della Sera, ora “Le Crisalidi” per CSA) e di opere soprattutto francesi; ma oltre che svariati altri terreni, un filone da lui battuto con serietà e intelligenza è quelle delle biografie. Già autore di Ugo Foscolo. Imprese, amori e opere di un ribelle (Edizioni della Sera, 2018), Leonardi ha prodotto in epoca più recente la coppia di biografie che si va qui a commentare, e che è interessare abbinare proprio in grazia della paradossale, vertiginosa distanza tra i due personaggi incontrati, entrambi peraltro entrati nel mito. Una diva dalla fortuna – potremmo dire – planetaria, ma insieme donna di straordinaria indipendenza e coraggio in un’epoca difficile, il cui profilo e successo prefigura quello delle odierne popstar; un bombarolo anarchico pasticcione e non privo di ambiguità, esponente di punta di un illegalismo che tentava di strappare a una diversa visione della società una Francia intorpidita e s(t)olidamente borghese. Due profili dunque vertiginosamente diversi, dallo zenit al nadir della considerazione sociale.

A differenza di altre editorie nazionali che al genere biografico riconoscono dignità specifica – basti pensare alla Gran Bretagna, dove nelle librerie esiste normalmente uno scaffale apposito, autonomo da quello sulla storia – in Italia il genere biografico trova spazio talora in collane settoriali (storia, politica, spettacolo, sport…: per Malibran, per esempio, la serie “Le Vite” nella collana di Le Lettere “Le vie della Storia”) ma più frequentemente come evento bibliografico una tantum. Di biografie se ne producono, ma alla grossa i tagli preferiti per i carotaggi biografici sono altri, incentrati su problemi o contesti.

Leonardi procede allo spoglio attento e scrupoloso della documentazione, particolarmente ricca per Malibran, della cui vita offre un affresco straordinario e vivido. Ne esce il ritratto di una giovane donna dalla vita breve e frenetica, insicura per deludenti rapporti con gli uomini che determinano il suo compulsivo bisogno di lodi, omaggi e approvazione: il padre tenore e impresario teatrale Manuel García (1775-1832) tirannico, sadico e insensibile, che la fa vivere nel terrore e ha l’unico pregio di formarla professionalmente – lei sviluppa così una volontà inflessibile, tale da farle superare quasi ogni malanno pur di andare in scena (ma anche da farle sottostimare le conseguenze della caduta da cavallo che la ucciderà); il primo marito di ventott’anni più vecchio, François-Eugène Malibran (1781-1836), sedicente uomo d’affari francese trapiantato a New York, uno squallido e manipolante profittatore che in pratica le porta solo il nome con cui meglio sarà conosciuta; l’amore della vita e poi secondo marito da lei involontariamente oscurato, il violinista belga Charles de Bériot (1802-1870) il cui strano comportamento in occasione della morte di lei lascia davvero perplessi. Tra guerre, cospirazioni e insurrezioni, pandemia colerica, nel corso di viaggi continui e complicatissimi nonché spesso in difficili condizioni di salute, Maria Malibran canta nei due mondi attorno all’Atlantico, conoscendo gli esponenti della cultura e del potere di tutto l’Occidente. Interlocutrice amatissima da Rossini, da Liszt e Bellini (che la amò), dal poeta Lamartine; e comunque ammirata da legioni di altri artisti e intellettuali, da George Sand ad Hans Christian Andersen, da Dumas a Poe…

Quest’esuberante brunetta latina, “vivace, inquieta ed eccentrica”, di indimenticabile carisma e capace sulla scena di mostrare emozioni autentiche – dal panico di Desdemona alle lacrime grondanti di tanti altri ruoli – spunta cifre del tutto fuori mercato dagli impresari, che sanno di poter contare sul delirio del pubblico; animata da un empito libertario – liberale, ovviamente – che la fa solidarizzare con i rivoluzionari in Francia e guardare con preoccupazione da austriaci e papalini, è molto attenta alla cronaca; generosissima, non capitalizza i guadagni ed è sempre pronta a soccorrere con donazioni da capogiro (e corrispettiva delicatezza) colleghi sfortunati o povera gente delle città attraversate. D’altra parte è una diva capace di oscurare chiunque con la sua sola presenza: una mattatrice che scende in campo e vince, quasi sempre, superando per forza di volontà i propri penosi problemi alla faringe, “il peggiore degli spettri per un cantante” e l’impatto dei pochi insuccessi – in genere per azzardi di salute, qualche volta per copioni inadatti o infelici trovate registiche (come quando inserisce la danza, e per quanto brava non convince).

Comunque “una persona dal carattere complesso, spavaldo e infantile al tempo stesso. Poteva sfidare la sorte mostrando un grande coraggio e, al tempo stesso, non nascondere anche da adulta quella sua passione per i giocattoli e le bambole, indizio forse di un’infanzia negata dai soprusi paterni”. Forse è dotata di scarso senso materno, aspetto che turba qualche critico, ma in fondo comprensibile: la bambina da far finalmente rispettare è anzitutto lei, anche se episodi nel contesto di sue visite all’Ospedale pediatrico di Parigi o al manicomio di Aversa ne sottolineano la non comune capacità empatica. La sua tragica morte in età tanto giovane in qualche modo consacrerà il mito legato alla sua figura.

L’altro profilo affrontato da Leonardi è appunto ben diverso. Dallo zenith delle stelle dell’opera lirica, passiamo al nadir della delinquenza:

 

Nel 1894, due anni dopo che la testa di Ravachol era rotolata in una cesta sotto la ghigliottina di Montbrison, Cesare Lombroso gli dedicava un paragrafo del suo pittoresco saggio intitolato Gli anarchici. Lo definiva il tipo più completo del criminale-nato, e non solo dalla faccia, ma nell’abitudine al delitto, nel piacere del male, nella mancanza completa di senso etico. A seguire la consueta descrizione dei tratti somatici su cui si fondava il suo celebre metodo di analisi psicologica individuale, dal quale non mancava di dedurre le inevitabili inclinazioni violente dell’uomo.

 

A ricondurre il tutto a una diversa complessità, entriamo qui nel terreno minato (si perdoni il bisticcio, per personaggi usi a utilizzare l’esplosivo) della ben più complessa galassia dell’illegalismo, con una storia assai più lunga e variegata di quella di Ravachol che ne rappresenta solo un frammento. È l’epopea che prendendo idealmente le mosse dal pensiero di Max Stirner (1806-1856) coinvolgerà figure come il ladro “gentiluomo” Marius Jacob (1879-1954), troppo spesso frettolosamente indicato come modello per l’Arsène Lupin di Leblanc, e l’assai meno mite Jules Bonnot (1876-1912) capo della celebre banda Bonnot nota in Italia soprattutto attraverso la vecchia serie tv Le brigate del tigre, 1974-1983 (che però leggono il tutto dal punto di vista della prima squadra di polizia francese moderna, quella del “tigre” Clemenceau/Raoul Curet).

A dispetto delle speculazioni di Lombroso, il franco-olandese François Koenigstein, noto come Ravachol (1859-1892), appare belloccio e di approccio simpatico, tranne verso coloro che a ragione o a torto considera nemici. Adolescente, si imbatte nelle spaventose ingiustizie del mondo del lavoro, dopo il bagno di sangue della repressione della Comune, mentre il movimento operaio francese prende coscienza di sé. Nella composita galassia dei difensori dei diritti degli oppressi, marxisti e anarchici si dividono: e una testimonianza interessante, benché incompleta (a un tratto interrotta, per motivi non chiari) è il memoriale dallo stesso Ravachol ai carcerieri, che lo trascrivono – e Leonardi propone qui glossandolo. In un ideale contrappunto alla storia luminosa di Maria Malibran, le stazioni di quella di Ravachol sono amare, livide: a partire da un’infanzia con un padre violento che picchia la madre Marie Ravachol – cognome quindi di lei – e cerca di estorcere al bambino testimonianze che accusino la donna, salvo poi abbandonarla “con quattro figli, di cui il più piccolo aveva tre mesi” (e in realtà morire di tubercolosi “nel giro di un anno”). Già il padre, comunque, si era segnalato per violenze anche fuori casa, un violento alterco al lavoro con il capomastro cui aveva inflitto brutte ferite.

Il ragazzo cresce praticando lavoretti agricoli e pastorali, incassa lutti (una sorellina) e preoccupazioni (il pensiero della madre infelice e malata), constata l’egoismo taccagno dei superiori. Ovvio, stiamo leggendo il racconto del Nostro che immette nel proprio profilo un po’ di autofiction funzionale all’immagine, quindi il memoriale va letto con un certo sospetto: ma il contesto resta alla grossa credibile.

Poi eccolo passare a lavori diversi, di tipo industriale, nei primi anni della Grande Depressione 1873-1895: caduta delle borse, crisi bancaria, impennata di disoccupazione e vertiginosa riduzione dei salari, in condizioni di lavoro che restano insostenibili… un quadro che in termini molto semplificati e sommari emerge dal memoriale. L’apprendistato è fatto nell’ora dei pasti o profittando delle assenze dei capi, che non vogliono sacrificare neanche un istante della produzione.

 

Il primo anno ricevetti un franco e mezzo al giorno, il secondo anno due franchi, il terzo 2,45 franchi per sei mesi e 2,50 per gli altri sei. Molto spesso facevamo da dodici a tredici ore di lavoro al giorno, senza aumento di stipendio. Ci veniva imposto un turno che andava oltre le nostre forze e ci facevano sollevare pesi che gli uomini difficilmente potevano sostenere.

 

Perso il primo lavoro per qualche chiacchiera e risata di troppo coi colleghi, il Nostro passa a un altro, dove partecipa all’attività sindacale, poi a scioperi e prende dunque a essere malvisto dai padroni. Entra ed esce da luoghi di lavoro avvilenti, torna a vivere con la madre, conosce una ragazza che però lo lascia “poiché […] corteggiata, con la prospettiva del matrimonio, dal figlio del suo capo”. Grazie ad alcuni informalissimi incontri di boxe, Ravachol si guadagna fama di tipo da temere.

Con la miccia di questa temperie interiore, il fuoco della formazione ideologica è destinato a produrre un effetto esplosivo. Determinante l’incontro con la femminista e attivista sociale Paule Minck, con esperienze politiche anche molto concrete (ha preso parte alla Comune di Parigi): per quanto graduale, la formazione ideale di Ravachol lo porta dieci giorni in galera per partecipazione a sommosse operaie. Un ruolo importante ha per lui l’approdo a un anticlericalismo radicale, tramite letture d’epoca (L’ebreo errante di Eugène Sue, 1844-1845) e la predicazione di Minck, più tardi di Edmé Charles Chabert e Léonie Rouzade e degli anarchici Toussaint Bordat e Régis Faure. La lettura di riviste politiche, il confronto con i compagni in un clima accesissimo di lotta (incendi, attentati con esplosivi, con un culmine nel 1882) e repressione (anche senza prove, per pura vicinanza agli ambienti anarchici e con conseguenze pesantissime: cfr. il famoso “processo dei 66”, sentenza nel 1883), un po’ di licenziamenti e istruzione serale… insomma, Ravachol sta prendendo in mano la propria vita, ma presto anche gli esplosivi per la causa anarchica. Gli “insulti e ingiurie” a un capo (nel memoriale il Nostro non dettaglia), culminano in una vera aggressione fisica con tanto di minacce; di lì si passa ai primi furtarelli – polli, carbone… – assieme al fratello; piccoli introiti gli vengono dall’attività musicale – suona la fisarmonica, compone canzoni – in ritrovi popolari, e altri più interessanti dal contrabbando di alcolici e poi falsificazione di denaro. Conosce anche una nuova partner, sposata, un’attivista per la causa anarchica che avrà un ruolo di rilievo nella carriera anche criminale del Nostro: Madeleine Labret, detta Bénédicte. Incarcerato per aver rubato, perfeziona la tecnica nel furto con scasso e peggiora le cose appiccando il fuoco nell’alloggio depredato, continua il contrabbando e passa a un nuovo tipo di reato con la profanazione di una tomba – della baronessa de Rochetaillée – che dovrebbe permettergli di recuperarne i gioielli. A fronte di altri suoi delitti, possiamo considerare questo come assolutamente minore – e il resoconto offerto macabramente goffo e comico, con sequenze da Une semaine de bonté e un esito fallimentare –, ma ovviamente suscita al tempo raccapricciata impressione.

È interessante inquadrare questa narrazione nel contesto delle storie che nella Francia coeva intrattengono i lettori di feuilleton: storie di ladri più o meno “gentiluomini” come Rocambole, Lupin, Fantômas e avventure nel macabro alla Leroux, scoperchiamento di tombe alla ricerca di tesori… Se è difficile intravedere dinamiche ispirative dirette – come quella troppe volte pretesa tra Marius Jacob e Arsène Lupin, attento sì in qualche modo a istanze sociali di giustizia ma troppo interessato a una vita aristocratica per potersi presentare come campione dell’anarchia – è abbastanza evidente che non si tratta di un nesso meramente generico legato allo sviluppo editoriale per “casi” dell’eroe popolare (come oltre Manica a proposito dell’inglese Raffles, in tutt’altro contesto), ma di un rapporto immaginale che per quanto indiretto resta profondo. Per gli anarchici e in generale i diseredati il ladro è un ribelle che contrasta terrificanti ingiustizie sociali, e di queste storie c’è fame: se vi aggiungiamo le predazioni di tesori e il brivido nero della ghigliottina (a nutrire le fantasie del feuilleton e, per giri minoritari, del Grand Guignol – dal 1897), appare realistico un quadro di ispirazioni viscerali reciproche tra immaginario e realtà.

“Mi misi dunque alla ricerca del posto dove avrei potuto bussare, non potendo rassegnarmi a morire di fame accanto a persone che godevano invece del superfluo”: e viene a sapere che un certo eremita – Jacques Brunel, un religioso di novantasei anni – viene foraggiato con abbondanza di elemosine, che trattiene in casa. Il 18 giugno 1891 Ravachol (“Spinto agli estremi, non trovando un lavoro da nessuna parte”, così dirà) si reca dall’eremita per depredarlo, perde il controllo della situazione e finisce con l’ucciderlo. Di nuovo un esito da feuilleton, a monte di storie che soddisfano le fantasie anticlericali – nutrite del resto da tensioni diffuse per il fronteggiarsi di laici repubblicani (eventualmente massoni) e cattolici monarchici misticheggianti pronti a foraggiare preti più o meno tesaurizzatori: qualcosa che corre tra la cronaca nera (nella Francia divisa dall’affare Dreyfus, l’assassinio di don Antoine Gélis, curato di Coustaussa, 1897, presenta caratteri che lo faranno precipitare – a torto – nella pasticciata saga di Rennes-le-Château e del suo discusso parroco Bérenger Saunière) e la narrativa popolare (si pensi solo al racconto di J.-H. Rosny aîné, L’impiccato, 1904, confessione di un assassino destinato alla ghigliottina per avere ucciso ferocemente un prete). Anche stavolta, comunque, Ravachol brilla per goffaggine, seminando indizi e facendosi ampiamente notare da testimoni. Ma la scena diventa una farsa quando i poliziotti lo arrestano e poi se lo fanno sfuggire in una scena da comiche mute (27 giugno 1891). Tanto che il commissario perde il posto.

Con l’episodio terminano le memorie dettate ai carcerieri. Si possono comunque ricostruire senza grossi dubbi i fatti seguenti: l’ospitalità dell’evaso presso un amico; il suicidio simulato dalle parti di Lione; il soggiorno a Barcellona ospite di anarchici locali che lo istruiscono a preparare esplosivi; il ritorno a Parigi. La Francia è in convulsioni, c’è stato il tentato golpe del generale Boulanger (1889), fioccano gli scandali, viene fondata la Seconda Internazionale dei partiti socialisti e operai (sempre 1889), alcuni dei tanti scioperi e manifestazioni sono repressi nel sangue, come a Fourmies, presso il confine con il Belgio (1° maggio 1891) – dove in pochi secondi muoiono dieci persone, il più giovane undicenne. Altre manifestazioni vengono duramente represse altrove, e ovviamente vengono accusati gli anarchici. Gli attentati dinamitardi del 1892 saranno la risposta, e Ravachol a torto o a ragione ne sarà considerato l’autore: 29 febbraio, 11 marzo, notte tra il 14 e il 15 marzo, 27 marzo (contro il truce pubblico ministero Bulot, che in precedenza aveva richiesto la pena di morte a prescindere per gli anarchici sotto processo, come monito), peraltro senza morti… ma Ravachol commette l’imprudenza di tornare in un locale vicino.

Arrestato con clamore (30 marzo) – merita vedere l’abbrutimento lombrosiano cui il suo volto è assoggettato dall’illustratore di Le Petit Journal che reca la notizia – si presenta con quattro compagni in Corte d’Assise il 26 aprile, in un palazzo blindato all’interno di un’area completamente militarizzata. Il giorno prima, per vendicarlo e dare un segnale, gli anarchici hanno fatto esplodere il ristorante Véry, e qui i morti ci sono stati, ben due. Dei rivoluzionari minori processati con lui per due delle esplosioni, tre saranno assolti mentre Ravachol (il vero protagonista) con un altro, diciannovenne, verranno condannati ai lavori forzati a vita.

Nelle memorie dettate ai carcerieri, Ravachol spiega il senso della sua scelta anarchica, e degli stessi attentati:

 

Colui che fa esplodere le case ha come scopo sterminare tutti coloro che, a causa delle loro situazioni sociali o delle loro azioni, danneggiano l’anarchia. Se fosse permesso attaccare alla luce del sole queste persone senza timore della polizia (e quindi anche per il bene di quest’ultima), non andremmo a distruggere le loro case con ordigni esplosivi, mezzi che possono uccidere allo stesso tempo loro e la classe di persone sofferenti che sono al loro servizio.

 

Restano gli altri reati, compreso l’omicidio plurimo, per cui il Nostro si presenta all’Assise di Montbrison (21 giugno): non gli permettono di rilasciare dichiarazioni, una sua pagina di riflessione sul senso dell’anarchia e le caratteristiche criminogene di una società tanto ingiusta circolerà più tardi. La difesa fortemente improntata a una chiave ideologica fa però i conti con l’obiezione di un uso essenzialmente egoistico di quanto rubato: e Ravachol deve ammetterlo. Alcuni degli omicidi che gli vengono imputati – e omessi nel memoriale – non li ammette e resteranno fuori dalla sentenza: ma quello dell’eremita, unito al cumulo degli altri reati, è sufficiente a garantirgli la condanna a morte.

Rifiuta di firmare una richiesta di appello in Cassazione, e nelle lettere ai familiari e nel comportamento in carcere mostra un dignitoso coraggio. L’11 luglio 1892, verso le quattro del mattino, viene infine portato alla ghigliottina: bloccato dalla lunetta della macchina, prima della caduta della lama riesce a gridare “Vive la Ré…”, assurdamente interpretato come “Vive la République!”. Laddove intendeva certamente “Vive la révolution!” o piuttosto “Vive la révolution sociale!”.

Gli attentati anarchici riprenderanno e più teste rotoleranno nel cesto: ma intanto si sviluppa il mito Ravachol. Per lungo tempo guardato con sospetto tra gli stessi giri anarchici – come un furbetto che strumentalizzasse gli ideali, un piccolo delinquente goffo e impresentabile – con la sua dignità al processo e la sua morte il Nostro risulta trasfigurato. Su di lui verranno composti inni e canzoni, e insomma otterrà di assurgere al pantheon degli eroi popolari. Con quanto di sincero, surreale ed equivoco ciò possa alla fine comportare.