di Franco Pezzini

Incursioni laterali sui fianchi della realtà

J.-H. Rosny aîné, La giovane vampira e altri misteri, a cura di Elena Furlan, postfaz. di Ivo Torello, pp. 230, € 15,90, Hypnos, Milano 2020.

Senza scomodare necessariamente la Guerra dei cent’anni, la dialettica tra francesi e inglesi è un topos da romanzo portato in scena ora in forma di bonario completamento reciproco (per esempio in Jules Verne, emblematico il rapporto tra il compito Phileas Fogg e il neoassunto cameriere francese Jean Passepartout nel ‘Giro del mondo in 80 giorni’, 1872-73, o tra i giornalisti Alcide Jolivet e Harry Blount, rispettivamente francese e inglese, inizialmente rivali e poi amici, in ‘Michele Strogoff’, 1876), ora di ostilità più o meno esplicita. Quando poi ci si mette l’esplosione di un ménage le cose assumono risvolti anche più complicati: come nel caso del belga francofono Rosny aîné, partito per Londra nel 1874 e lì sposatosi senza troppa fortuna. Si trasferirà a Parigi nel 1883, e qui scriverà nel 1911 il già citato racconto La jeune vampire, edito nel 1920.

Il racconto, che abbiamo visto chiudere almeno idealmente la citata raccolta La Belle Époque dell’esoterismo ne apre una seconda, stavolta nel segno della narrazione pura: un’antologia di racconti di Rosny aîné – uno dei candidati, ma poco plausibilmente, all’identità del misteriosissimo Fulcanelli – che permette di apprezzarne la vena in qualche modo gotica. Per quanto proposto da Romain Rolland (forse con eccessivo entusiasmo) al Nobel per la letteratura, va detto che Rosny aîné non presenta la polita, tagliente perfezione di un Maupassant nei suoi racconti nerissimi, l’elegante nettezza del Mérimée fantastico, e neppure il lussureggiante, eccessivo, istrionico teatro macabro di Dumas quando scrive d’orrore (perché nell’Ottocento la narrativa d’orrore in Francia c’è eccome, e bella tosta): ma è un ottimo professionista della penna. Viene dal Belgio dei grandi visionari, Jean Delville, James Ensor, Fernand Khnopff, Armand Rassenfosse e Félicien Rops, e arriva in una Parigi dove gli scrittori popolari stanno producendo meraviglie. Il feuilleton sta mostrando la libertà esuberante dei generi – storico, poliziesco, orrifico, fantascientifico… con curiose ibridazioni e toni spesso lividi – e traghetta idealmente verso le emozioni da palcoscenico del Grand Guignol in cui spicca il lavoro del Prince de la Terreur André de Lorde (1869-1942): un mondo insomma dove si può sperimentare senza eccessivi pudori.

E Rosny aîné sperimenta. Anzitutto nel campo della fantascienza, dove si guadagna idealmente il secondo posto in Francia dopo Verne: la mancata pubblicazione in tempi utili dei suoi testi in inglese ne conterrà notevolmente l’impatto sul genere, ma l’importanza della sua esperienza resta (e, per dire, in Les Navigateurs de l’Infini compare per la prima volta il termine “astronautique”). Sempre nell’ambito di soluzioni piuttosto sperimentali restano i suoi cinque romanzi di ambientazione preistorica, tra il 1892 e il 1930 (tra i quali il famoso La Guerre du Feu, 1909, alla base del film omonimo di Jean-Jacques Annaud, 1981). Nessuno stupore dunque che di vaghi echi fantascientifici riverberi La giovane vampira, a evocare un vampirismo come paradosso neurologico e mutazione genetica trasmissibile. Anche se almeno un’altra componente risulta mixata tra le righe.

Nella Francia romantica, e in particolare nei giri di Paul Lacroix (1806-1884) – cioè il “Bibliofilo Jacob” della cerchia di Nodier, autore di varie opere sulla stregoneria del medioevo – e dell’erudito editore Isidore Liseux (1835-1894), aveva incontrato grande successo il dotto trattato di padre Ludovico Maria Sinistrari d’Ameno (nel senso che era nato ad Ameno nel Novarese: 1622-1701), De Daemonialitate et Incubis et Succubis, 1680, più tardi tradotto in francese (De la démonialité et des animaux incubes et succubes, Liseux, Parigi 1875). Sedurrà letterati come Huysmans, influirà sulla mitologia degli Efialti come supra definiti e affascina ancor oggi con le sue pagine pruriginose sull’erotica di incubi e succubi, oltre a fornire suggestioni all’immaginario sui vampiri (aperti ad affinità sensuali con gli spiriti meridiani). Teniamo presente che se in Gran Bretagna il mito vampirico è modellato ampiamente dal folklore (sia pure con abbondanti libertà letterarie, fino all’istituzione del canone stokeriano che con qualche adattamento detterà legge al cinema), in Francia al contrario la lettura in generale dipende fortemente da istanze esoteriche, fino agli sviluppi tardivi di Ambelain e Bourre. Un vampirismo di possessione e spossessamento identitario, di fantomatiche alchimie del sangue, di gruppi almeno tangenti al luciferismo.

Ecco insomma virtualmente l’altra stirpe a cui appartiene la protagonista del racconto, “fantasticamente graziosa” e pallidissima: che pure sembra divenuta tale dopo una dichiarazione di morte vergata da ben due medici, e un principio di decomposizione rilevato la terza sera e curiosamente riassorbito. Il suo corpo pare ora occupato da un’identità altra, e nella sua “nuova” vita Evelyn Grovedale attinge alle energie dei propri cari con delicata attenzione, quasi a ricordare la gentile Clarimonde di Gautier. “Qualunque sia il posto da cui vengo, appartengo a un’umanità. So di essere straniera in questo mondo, ma so anche di essere una donna. E amo la mia nuova vita, soprattutto da quando vivo con voi”: non insomma un mostro da distruggere, ma un’interlocutrice da capire. In compenso pare di udire echi di Carmilla quando Evelyn confida rabbrividendo: “Ho paura della mia altra vita! Sento che di là mi è capitato qualcosa di terribile, tanto che la mia anima ha dovuto fuggire. È inesprimibile e orrendo”. Troviamo anche un maturo esperto, il sussiegoso neurologo Percy Coleman, “lo Charcot scozzese” (ad ammiccare ai richiami a Charcot nel Dracula), che tenta invano di risolvere il caso, pratica trasfusioni e pregusta il botto ai convegni scientifici; ma soprattutto troviamo una bufera identitaria, con lei che a un certo punto non riconosce più il marito, mentre il corpo avvenente ospita in apparenza un’altra persona (“sono stata assente sei mesi e il mio corpo non mi ha seguita!”). Fino al rischio di un’esplosione della coppia, ma il finale fortunatamente riserverà sorprese.

La giovane vampira è il racconto più lungo della raccolta, e anche il più interessante. Certo, viene il sospetto che l’alterità riguardi in prima battuta il rapporto con Albione e i suoi modi, visto che la carica beffarda del racconto sta proprio nella sua collocazione inglese, a proiettare oltremanica la terra dei vampiri letterari e di un matrimonio fallito; ma poco importa il dato contingente, considerando l’ampio ventaglio di più sottili provocazioni sul tema identitario incastonate in una storia che ha il passo un po’ sghembo degli effettivi casi clinici. Il tema dell’altra stirpe e i relativi turbamenti – specchio in fondo di crisi che il trapasso da un secolo all’altro spariglia tra la dimensione psicologica, personale e quella sociale, collettiva – tornano però in La figlia della Naiade (1904) e in Un altro mondo, che ammicca alla fantascienza (1898); e il tema del travaso di energie si ripropone ne Il mago rustico (1914). Amore e paradossi temporali ricorrono ne Il Mistero (1901), mentre sulle rivelazioni della morte (“non bisogna credere che qualcosa ci sia estraneo. Non ci sono altri mondi. Tutto si tocca”) si ritorna, delicatamente, ne Il giardino di Mary (1895).

Un intero corpus di novelle sembra invece flirtare con il coevo Grand Guignol: c’è L’impiccato (1904), confessione di un assassino destinato plausibilmente alla ghigliottina per avere – colmo dell’orrore nella cattolica Francia – ammazzato ferocemente un prete; Il chiodo (1912), storia di una vendetta nel contesto convulso della guerra franco-prussiana; In fondo ai boschi (1912) vede una ragazza divorata dai maiali selvatici; nuovamente una “morte da chiodo” e il set di un manicomio emergono ne Il maggiolino (1912); Il dormiente torna sul tema della morte – atroce – portata da un bambino (1912); L’assassino sovrannaturale traghetta a letture occultistiche e al tema classicissimo del doppio (1923), mentre La morte più bella (1912) pare suggerire la frequentazione dei terribili racconti di soldati di Bierce.

Per un registro del tutto diverso, Il malocchio gioca con la commedia borghese, puntando maliziosamente alla “sola disgrazia che non rechi sofferenza a una debole donna” (1914); mentre Il leone e il toro (1912), richiamando un bizzarro episodio di campagna, pare muovere visionariamente da suggestioni mitologiche e iconografiche (certi bassorilievi con duelli tra animali esistenti e figure immaginarie, certe fantasie di Tarasque) nello scontro tra un uomo-leone e un toro scatenato. A colpire però, a parte i soggetti più o meno crudi è il clima, l’ambientazione rurale, le paludi dalle acque ferme, le case isolate di una provincia dove i fantasmi sorgono dalle nostre stesse fibre. Sulla base di leggi del grande Tutto – a dirla con Zola – che sfuggono ai nostri manuali di filosofia e alle gerarchie della spocchia umana: naturalisticamente, potremmo dire.

A chiudere il volume, va infatti segnalato il breve ma intenso e appassionato saggio J.-H. Rosny aîné. Dal Naturalismo al Merveilleux scientifique: un’evoluzione inaspettata, di Ivo Torello, le cui provocazioni su un’inattesa eredità (iper)naturalista di Zola meritano senz’altro attenzione. Scrive Torello:

 

Nel 1886 [in L’Opera, attraverso l’alter ego Pierre Sandoz] Zola, volente o nolente, non importa se ironizzando o no, conscio o meno, mette nero su bianco il primo abbozzo di manifesto del Merveilleux scientifique. La scienza come metodo d’indagine. L’universo senza limiti come orizzonte. L’antropocentrismo come idiota gerarchia. Quattro anni prima della nascita di H.P. Lovecraft, in Francia questi temi sono già materia rovente. Ma si tratta di una patata bollente di cui Zola si sbarazza in fretta, tornando alla pura e semplice brutalità della bestia umana.

Ci sono però due spiriti liberi pronti a ricevere la medesima patata bollente. Maurice Renard e il belga Joseph-Henri Honoré Boëx [cioè appunto J.-H. Rosny aîné]. Sta per nascere il Merveilleux scientifique, ovvero il weird quarantanni prima di Weird Tales.

 

Mentre Maurice Renard (nel 1914):

 

La caratteristica del Merveilleux scientifique non è di anticipare, quanto ad avanguardia, il trascorrere del tempo, ma di fare incursioni laterali sui fianchi della realtà, di pattugliare a margine della certezza, non per acquisire la conoscenza del futuro, ma per ottenere una migliore comprensione del presente. La sola ambizione di un romanziere del Merveilleux scientifique è di arrivare a far debordare un po’ il noto sull’incerto, a far splendere appena un po’ di luce nella penombra, come in una vetrata i vetri più luminosi sembrano “mangiare” il bordo dei loro vicini più scuri e sconfinare nel loro recinto.

È soltanto un’illusione. Ma ci cattura; ma ci alimenta. Gioia dell’inganno che fa ridere lo spirito, lo eccita alla curiosità divina, soddisfa allo stesso tempo la sua smania di conoscenza e la sua sete di fantasmagoria.

 

Eredità inattesa (tanto più considerando l’attacco del “Manifeste des cinq”, 1887, cofirmato da Rosny aîné che tra l’altro accusa Zola di ignoranza scientifica) ma stringente: e del resto, per quel matraccio sobbollente che è la letteratura del tardo ottocento francese, occorre ricordare le frequentazioni tra Zola e Huysmans, che a sua volta se ne allontana a un certo punto. Immaginarli in dialogo di primo acchito è difficile, eppure per tutta una prima fase Huysmans muove proprio dal tronco del naturalismo. Per crescere poi in una direzione tutta sua (ma non certo isolata, in quella Francia: si pensi a Jules Amédée Barbey d’Aurevilly, a Léon Bloy…), con un’influenza che dilagherà nell’immaginario ben oltre i confinanti della Manica.

(2. continua)