di Paolo Lago

Immaginiamo una società in cui le persone sono assoggettate anima e corpo ai diktat del capitalismo digitale: lavoro, spettacolo, controllo del tempo libero, dipendenza da smartphone e da videogame. Immaginiamo che questa società sia il Giappone contemporaneo, per la precisione una metropoli come Tokio. Pensiamo allora alle sequenze iniziali del primo episodio della prima stagione della serie TV Alice in Borderland diretta da Shinsuke Sato, uscita nel 2020 e in onda su Netflix (nel dicembre del 2022 è uscita la seconda stagione): tre amici si danno appuntamento in una zona centrale della capitale giapponese ma, invece di parlare tra loro, se ne stanno incollati ai loro smartphone digitando in continuazione per interagire con giochi e chat, e percorrono le strade facendosi selfie e vivendo – sembra – unicamente nella dimensione virtuale offerta dai loro apparecchi (correndo anche il rischio di essere investiti). I personaggi fanno parte di quello che il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han ha chiamato “sciame digitale”, cioè una moltitudine di individui che si trova ad agire in una comunità ma che non interagisce con essa, standosene invece isolata. Tutti e tre i personaggi appaiono inoltre schiacciati dalla macina del capitale: il protagonista, Arisu, è un ventiquattrenne disoccupato appassionato di videogiochi, appartenente a una famiglia benestante e continuamente vessato dal padre e dal fratello perché non vuole cercare lavoro; Karube è un barista precario innamorato della fidanzata del proprio capo; Chota, infine, è un tecnico informatico che deve mantenere economicamente sua madre.

Improvvisamente, i tre personaggi, insieme ad altri abitanti della città, si trovano proiettati in un’altra dimensione, in una Tokyo che potrebbe apparire distopica ma che si potrebbe meglio definire come eterotopica. La maggior parte della popolazione è scomparsa, le strade sono deserte, le automobili sono ferme e, nel corso della serie, il senso di desolazione si intensifica ancora di più nella rappresentazione della vegetazione che ha preso il sopravvento in città: gli edifici sono abbandonati e ricoperti dalle piante, le auto sono ridotte a delle carcasse ricoperte di tentacoli verdi pieni di fogliame. Potrebbe apparire come un mondo del futuro post-apocalittico, in cui la natura ha ripreso il sopravvento e gli esseri umani sono stati sterminati da qualche pestilenza o apocalisse (come nel romanzo Pietra nera di Alessandro Bertante o nella serie TV The 100). In effetti, noi spettatori, insieme ai personaggi, non sapremo mai la verità fino alla fine. Vediamo semplicemente rappresentato lo stesso identico spazio di prima (laddove c’erano la folla, il caos, il traffico, il consumo sfrenato) svuotato però delle sue sovrastrutture esterne e dei suoi simulacri, come se fosse calato il sipario. In una città devastata restano solo gli individui che hanno introiettato tutti quei simulacri. Ecco perché, rifacendoci a Foucault, possiamo chiamare eterotopico piuttosto che distopico il mondo che d’ora in poi vedremo nella serie: uno “spazio altro” (questo significa “eterotopia”) che serve per rappresentare allusivamente la società quotidiana del capitalismo digitale avanzato. In questa nuova dimensione eterotopica i personaggi sono chiamati a partecipare a dei “game”, come avviene in Squid Game, che arriva un anno dopo; in quest’ultima serie sappiamo di trovarci in un luogo inquietante, segreto e misterioso, ma comunque nel mondo ‘reale’. In Alice in Borderland siamo invece in un’altra dimensione: non a caso, il titolo è modellato su quello del noto romanzo di Lewis Carroll, Alice in Wonderland (il titolo preciso è Alice’s Adventures in Wonderland, 1865) e a quest’ultimo i rimandi sono diversi, dalla presenza di un personaggio che si chiama “Cappellaio” fino ad una partita a croquet con la Regina di Cuori.

Ma il “paese delle meraviglie” della serie TV giapponese ha ben poco di meraviglioso o, meglio, è una dimensione in cui gli individui, ormai privi dei simulacri spettacolari del capitalismo digitale, ne hanno introiettato tutti i meccanismi. Infatti è una “borderland”, una “terra di confine”: un’eterotopia in cui il capitale si presenta sotto un’altra faccia. Le uniche reliquie rimaste sono degli smartphone esclusivamente tarati sui “game”, che i partecipanti devono avere sempre con sé durante le competizioni. Ad ogni nuovo “game” c’è sempre un nuovo smartphone o bracciale o collare elettronico (che possono essere letali) da indossare, probabile allusione al pervasivo controllo digitale a cui la società ipertecnologica ci sta ormai consegnando. Ed è assolutamente obbligatorio partecipare ai “game”, altrimenti il “visto” scadrà e la morte è assicurata. Perché l’eterotopia rappresentata nella serie TV viene presentata come un vero e proprio paese, una rappresentazione assurda e quasi metafisica della società quotidiana. Se nelle immagini iniziali della prima puntata vedevamo corpi e volti alienati muoversi nel caos consumistico e digitalizzato di Tokio, adesso quella società appare crudelmente estinta ma sopravvive ugualmente nelle menti e nelle psicologie dei personaggi. Come in un’allegoria della civiltà dei consumi, durante i “game” ognuno penserà a prevalere sugli altri pur di avere salva la vita, anche tradendo gli amici più cari. Tutti i “game” sono ispirati ai semi delle carte da gioco (cuori, quadri, fiori, picche) e sono comandati da un re o da una regina. Anche nel romanzo di Lewis Carroll personaggi importanti sono la Regina, il Re e il Fante di cuori. Ma se Alice, alla fine, riuscirà a ritrovare il senso di realtà dicendo loro che non sono altro che un mazzo di carte, cosa succederà invece ai protagonisti della nostra storia?

Non possiamo certo dirlo perché la serie è costruita attraverso un percorso graduale in un progressivo avvicinamento alla verità. Arisu e i personaggi che incontrerà nel suo cammino non faranno altro che porsi una serie di lancinanti domande: dove siamo? Perché ci troviamo qui? dove sono finiti tutti gli altri? (saranno stati spazzati via da una qualche apocalisse o se ne staranno chiusi in un serratissimo lockdown mentre fuori la natura riprende il sopravvento?). La dimensione eterotopica in cui i personaggi si trovano catapultati assomiglia anche a uno specchio deformante che fa vedere la società quotidiana in una forma distorta (o reale?). Come scrive Umberto Eco nel suo saggio Sugli specchi, “se non sappiamo né che è specchio né che è deformante, allora ci troviamo in una situazione di normale inganno percettivo”. Ed è ciò che, probabilmente, accade ai personaggi all’inizio della loro avventura nella “Borderland”. Però, poi, progressivamente capiscono che si tratta di uno specchio deformante e allora – continua Eco – “godiamo delle caratteristiche allucinatorie del canale”. Accettiamo la deformazione del nostro corpo “così come si accetta una fiaba”. Nella seconda stagione di Alice in Borderland i personaggi accettano la dimensione deformante dei “game” e le regole della crudele fiaba nella quale si trovano catapultati, la fiaba di un capitalismo digitale che, pur non essendoci più, continua a manovrare le loro coscienze e i loro corpi, fino a ucciderli (e a farli uccidere tra loro) in modo atroce.

Inutile ricordare che il seguito che Carroll volle dare a Alice nel paese delle meraviglie si intitola Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò (Through the Looking-Glass, and What Alice Found There, 1871). Perché lo specchio può celare, come scrive Foucault, un mondo magico, uno spazio che rappresenta per il corpo un “insuperabile altrove”, ed è venato di risvolti utopici. Ma non c’è nessuna utopia in Alice in Borderland, e neppure nessuna meraviglia. Lo capiamo bene nella seconda stagione, in cui i massacri si fanno più sottili, logici, ma anche più crudeli. Quella inquietante eterotopia in cui i personaggi si trovano catapultati è la dimensione del capitale al grado zero, in cui esso è stato introiettato nella mente a livello inconscio. Nonostante la sparizione della sua tecnologia e del suo spettacolo (non funzionano più gli oggetti digitali e neppure le automobili; le uniche a funzionare sono quelle più vecchie e i dispositivi ormai desueti), gli individui continuano a comportarsi secondo le sue regole. E anche se i protagonisti riusciranno a riscoprire un senso di amicizia e di solidarietà reciproca, la regola è impugnare gli smartphone e affrontarsi in giochi terribili, ignorandosi e cercando di sopraffarsi a vicenda, cercando di sopravvivere nell’unica forma consentita, quegli “sciami digitali” che ci isolano all’interno di alienate moltitudini. Ma quale “game”, ma quale distopia, ma quale dimensione metafisica e allucinata; è la realtà di tutti i giorni, granitica, tangibile e non certo meno crudele.