di Gioacchino Toni

«Le due grandi serie Alien e Batman narrano in fondo la stessa storia, ma lo fanno all’incontrario. Il primo (Alien) racconta il farsi Identico dell’Altro, il secondo (Batman) racconta il farsi Altro dell’Identico. Se Alien è un mostro protettivo (almeno nei confronti della donna da cui vuole far partorire la propria progenie), Batman è dal canto suo un protettore mostruoso. In quanto grandi mitologemi del cinema contemporaneo, entrambi usano la mediaticità del cinema per mantenere in equilibrio (e nello stesso tempo per scaricare) le due forze antitetiche che li fondano (e che in essi si esprimono): la minaccia e la rassicurazione, l’alterità e l’identità» (p. 123).

In queste righe che aprono il capitolo dedicato alle due serie di film che Gianni Canova, L’Alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo (Bompiani 2022) [su Carmilla], sceglie come terreno privilegiato di analisi di quei processi di crisi che investono e di cui danno consapevolmente conto i film negli ultimi decenni del vecchio millennio, ponendosi al contempo come avvisaglie della contemporaneità più recente, esplicita la centralità che ha assunto il rapporto alterità/identità in un periodo storico segnato da grandi trasformazioni sia a livello materiale che di immaginario.

Alien e Batman anziché collocarsi nettamente all’interno delle polarizzazioni minaccia/rassicurazione ed alterità/identità, transitano tra di esse trovando nell’ibridazione la loro specifica connotazione costitutiva, inoltre, continua Canova, l’alieno e il pipistrello sembrano aver bisogno l’uno dell’altro:

Alien trova cioè in Batman la figura mitopoietica necessaria a bilanciare la sua ambigua minacciosità con un’altrettanto ambigua rassicurativà, mentre per Batman vale esattamente l’opposto. Nel rapporto chiasmico che le lega, le due figure danno vita dunque a un sistema di compromesso, o a una coincidentia oppositorum: per certi versi, sostituiscono a loro volta l’aut aut del moderno con l’et et del postmoderno. E perimetrano un territorio immaginario in cui fra minaccia e rassicurazione (ma anche fra identità e alterità, fra visibilità e invisibilità, fra riproposta delle forme classiche e crisi dei processi di significazione) non c’è più contrapposizione esclusiva, ma solo e sempre coabitazione inclusiva (p. 124).

Si tratta di serialità tipicamente postmoderne, costruite sulla mescolanza e sulla contaminazione di codici e linguaggi, che, rifuggendo la logica fordista della catena, optano per la reticolarità, costruite come sono attorno a “un mostro senza volto” (Alien) o a un “eroe mascherato” interpretato di volta in volta da attori differenti (Batman). Sono serie fondate su criteri di

flessibilità, multidimensionalità e pluricorporeità (sia attoriale sia testuale) […] in cui tra un episodio e l’altro non c’è più, necessariamente, né ripetizione né sviluppo diegetico […] in cui “la differenza eclissa la norma” in un processo di ottimizzazione del “marchio di fabbrica” che ha bisogno di espandersi in ogni direzione, di dilatarsi al massimo. E di autoriprodursi incessantemente, in ogni modo e in qualsiasi direzione. (pp. 126-127).

La questione della riproducibilità, del resto, è ricorrente in entrambi casi; nel caso del mostro alieno questa si palesa con la sua ossessione riproduttiva che lo pone alla costante ricerca di corpi entro cui poter generare la propria discendenza, nel caso dell’eroe oscuro di Gotham City si insite invece sul suo stato di orfano che si trova ad agire da “macchina celibe” improduttiva.

Canova ricorda come, negli anni Cinquanta, nell’indagare la figura dell’alieno nella fantascienza, già Roland Barthes avesse sottolineato la sostanziale incapacità nella cultura occidentale di immaginare l’Altro, tanto da risolvere il “controllo sociale dell’alterità” «attraverso un atto di appropriazione e di ridefinizione morfologica che lo rendeva in tutto e per tutto omologo all’Identico» (p. 128). Evidentemente, continua Canova, si è trattato di processo di rimozione di comodo destinato a durare poco, visto che già sul finire degli anni Settanta l’immaginario occidentale si è trovato a fare i conti con “il ritorno del rimosso” e ciò, soprattutto nella cultura statunitense, si colloca all’interno di quel progressivo eclissarsi della figura del nemico esterno. Per certi versi è proprio nel venir meno «di un oggetto esterno su cui scaricare e a cui attribuire la responsabilità delle proprie paure persecutorie [che] la società occidentale le proietta in un mostruoso “fantasma circolante, senza forma o confini”, a cui dà tout court il nome archetipo di Alien» (p. 129).

Di fatto, nell’immaginario degli ultimi due decenni Alien “eccita” le fantasie di alterità e negozia la loro controllabilità sociale. Dà una forma all’Altro e lo rende visibile, ma segnala anche il pericolo che si annida nel nostro ostinarci a volerlo vedere. Di fronte a un pantheon cinematografico sempre più sguarnito di eroi, Alien offre al contempo un appagamento al bisogno inconscio di minacciosità e una garanzia che quella minaccia non diverrà mai reale (pp. 130-131).

La serie Alien, esplicitando sin dalle modalità con cui si compone il titolo del primo film (da una serie di brevi linee bianche) il suo rifarsi a un meccanismo generativo che prevede l’identico produrre il diverso e il differente generarsi a partire dall’uguale, si inserisce all’interno dell’archetipo del mostro proteiforme. La serie Batman deriva invece dall’archetipo dell’ibrido (uomo/pipistrello, roditore/volante ma è tale anche per la sua transcodificabilità e flessibilità multimediale).

Non è difficile vedere come entrambe le serie palesino un «legame metaforico (e metalinguistico) con la dimensione della filmicità» (p. 132): Batman diviene tale dopo essere restato orfano di ritorno dal cinema, pertanto la sua scelta può essere vista come «risposta nemesiaca a un dolore immeritato che ha interrotto il piacere conseguente a un consumo scopico» (p. 132), Alien, invece, «emerge dalle tenebre in cui è sepolto quando un raggio di luce fende la caverna in cui giace […] e si proietta direttamente sul suo organismo» (p. 132).

Seppure in maniera diversa, Alien e Batman sono due figure di transito identitario: il primo «cerca di sfuggire alla sua alterità fecondando il corpo di una donna che renda la sua progenie simile a lei, ma si vede continuamente respinto nella sua corsa verso l’identico dai rifiuti che riceve e dall’orrore che provoca, tanto da essere ogni volta rigettato all’indietro, verso le regioni buie e oscure dell’informe» (p. 133), il secondo, invece, controlla i suoi spostamenti tra i suoi due estremi identitari potendo contare sulla reversibilità.

Un’ulteriore metamorfosi di Batman deriva dalla sua rilettura gotica e spettrale dell’archetipo che lo conduce nel «buio di una città che sembra essere immersa nella stessa luce sporca e malata del pianeta di Alien, che comincia a proiettare nel cielo il suo marchio luminoso» (p. 134), quasi a rimandare a quella proiezione archetipa che, da bambino, di ritorno dal cinema, ha indirizzato il suo destino al desiderio di vendetta.

Se in Alien tutti sono in qualche modo stranieri che abitano i diversi luoghi in una situazione di transito, gli abitanti di Gotham City, città priva di estranietà rispetto a cui costituirsi identitariamente come differenza, intrattengono con il luogo relazioni di appartenenza e di identificazione, facendo tutti parte della medesima razza-cultura. In tale realizzazione del sogno occidentale autocentrico e solipsistico, la

figura minacciosa dell’Altro inteso come barbaro, diverso o straniero che preme ai confini e minaccia di entrare, secondo quella sindrome invasiva che costituisce la vera fobia epocale della società occidentale di fine millennio, nel mondo finzionale di Batman è esclusa a priori. L’Altro, a Gotham City, non viene da fuori, nasce da dentro. Emerge all’improvviso dalle viscere della città, appare nel buio livido delle sue notti. E la sua alterità è tanto più traumatica quanto più è avvertita, appunto, come endogena: quanto più marca ed evidenzia cioè una frattura che spacca in due un corpo etnico-sociale apparentemente coeso, rivelando il ritorno della differenza laddove sembrava non dovesse esserci che identità (p. 142).

Analogamente Alien e Gotham City si mostrano entità informi e mutevoli che adottano rapporti mimetici nei dei confronti dei corpi con entrano in contatto: «Alien assume la forma dei corpi in cui penetra, Gotham City si fa imprimere una forma da coloro che lottano per il suo dominio» (p. 144). Mentre «Gotham City è il luogo dell’Identico che genera al proprio interno l’Altro (architettonico, antropologico, etico, segnico), il cosmo di Alien è il luogo dell’Altro che si riplasma perennemente all’insegna dell’Uguale» (p. 146).

Entrambe le serie, sottolinea Canova, operano un indebolimento delle forme codificate e consolidate della della figura del viaggio. In Batman, pur trovandosi sempre nello stesso luogo, si ha l’impressione dell’altrove, di essere di volta in volta in luoghi diversi, in Alien, pur non essendo mai nello stesso posto, è come se lo si fosse in quanto i luoghi si presentano uguali. «L’estetica postmoderna della rovina (architettonica in Batman, meccanico-metallica in Alien) serve dunque ai creatori di Batman per produrre una spazialità differenziata ed eterogenea nei territori dell’Identico, mentre viene usata dai creatori di Alien per omologare la radicale alterità del mostro, imbrigliandola dentro spazi diegeticamente diversi ma iconicamente identici» (p. 148).

L’uomo-pipistrello e l’alieno tentano di sottrarsi allo sguardo altrui, di essere ridotti ad oggetto scopico. Il primo lo fa sia sul piano iconico (mascherandosi) che su quello diegetico (intervenendo nel racconto per impedire agli altri di fotografarlo o di filmarlo), il secondo agisce sul piano scopico (occultandosi).

L’inafferrabilità visiva dell’alieno, sottolinea Canova, non è però dovuta alla sua particolare conformazione fisica e iconica, che si scoprirà mutevole pur conservando sempre una componente animalesca sessualmente marcata irriducibile alla razionalità tecnica con cui si trova a fare i conti. La sua inafferrabilità è sopratutto cinematografica:

Alien è un mostro instabile o indecidibile non per le sue intrinseche caratteristiche teratologiche […] quanto per le modalità con cui viene messo in scena. Risulta instabile nella misura in cui diventa oggetto scopico. Allora si sottrae alla vista, sfugge e si nasconde, elude le trappole della tassonomia percettiva. E porta sullo schermo il trauma della inidentificabilità del visibile. Non basta vederlo per conoscerlo, per capirlo, per dargli una forma. La sua apparizione segna lo scacco della vista, è un evidente sintomo della sua crisi (p. 156).

Alien palesa come il limite dello sguardo non risieda soltanto nel fuoricampo; anche ciò che si fa intercettare dallo sguardo può non lasciarsi comprendere. «Alien è il sintomo esplicito di una frattura fra il vedere e il conoscere: la visibilità non garantisce più la conoscenza, non certifica alcuna verità. Produce piuttosto incertezza, indecisione, instabilità» (p. 156).

Alien sfugge al dominio dello sguardo sia per le modalità con cui è messo in scena visivamente che perché ogni sua apparizione diegetica manda in tilt i dispositivi tecnologici della visione. Nel suo continuo e simultaneo apparire-sparire è possibile scorgere «uno dei segni più radicali del disagio attraverso cui lo sguardo filmico svela a se stesso il proprio collasso epocale, e ne prende atto (o lo esorcizza) cercando – ancora una volta – di metterlo in scena » (p. 159)

Alien è anche un soggetto scopico inquietante, oltre che sfuggente: oltre a sottrarsi allo sguardo umano ne mette in campo uno proprio, “altro”, disorientante. L’intera serie è disseminata di sguardi senza padrone non attribuibili a qualche personaggio e nemmeno interpretabili come visioni diegetiche di un narratore esterno. Ad inquietare nella serie «non è tanto un differente modo di vedere, quanto il fatto che non è mai del tutto chiaro chi sta vedendo o guardando per noi. È la scoperta che la radicale alterità di cui Alien è portatore si esprime in uno sguardo del tutto simile al nostro (o a quello che i modi di rappresentazione e la retorica del cinema ci hanno abituato a percepire come “nostro”)» (p. 161).

I meccanismi di negoziazione fra Altro e Identico, attorno a cui ruota la problematica della definizione identitaria, sono riconducibili ai nemici di Batman ed a quelli di Alien, in particolare Ripley, che viene presentata come una novella Artemide, divinità della guerra e del parto allo stesso tempo, icona combattiva e chiamata a svolgere funzioni di maternità surrogatoria in difficile equilibrio tra l’umano e il bestiale. Come Artemide, Ripley vive ai margini, abita spazi liminali sulle frontiere dell’Altro, proprio come Batman che mascherandosi si fa altro da sé per rapportarsi con un’Alterità caratterizzata da una sorta di aspirazione frustrata al godimento. I suoi antagonisti, infatti, si presentano come creature infelici che esorcizzano il godimento negato simulandolo in maniera teatrale e narcisista smisurata:

diventano “altri”, insomma, nel momento in cui ambiscono a uscire dall’ordine quotidiano del dovere e della responsabilità per entrare anche solo virtualmente nel regime del godimento. È questo che Batman trova intollerabile in loro: il fatto che vivano come occasione gaudiosa quella stessa maschera che egli sente come scissione sofferta e dolorosa. In loro, insomma, Batman punisce tutto ciò egli non sa, non può e forse non vuole essere (p. 167).

Le due serie non presentano alcuna evoluzione del racconto, non presentano alcuno sviluppo:

“mettono in forma” una sofisticata dialettica fra l’Altro e l’Identico, poi (meglio: nello stesso tempo) attuano anche su di sé – sul proprio organismo seriale – quel farsi altro da sé che hanno tematizzato sul piano funzionale. Il che significa rappresentare un equilibrio e nello stesso tempo renderlo precario. Eccitare una pulsione e contemporaneamente inibirla. Evocare una forma e simultaneamente visualizzare un sintomo di crisi nei suoi processi di significazione (p. 174).

Ed è proprio «in questo equilibrio tensivo tra messa in forma e deformazione, tra iconofilia e iconoclastia, tra sfiguramento ed epifania della figura, che Alien e Batman acquistano un rilievo strategico nello scenario del cinema contemporaneo e danno voce a un conflitto e a un destino davvero – a modo loro – epocali» (p. 176).

Se c’è un «interprete emblematico e paradigmatico della nostra contemporaneità» (p. 7), scrive Canova nel capitolo aggiunto alla nuova edizione de L’alieno e il pipistrello, questi è Joker. Ed è proprio lui a togliere la scena a Batman nel Joker (2019) di Todd Phillips, eroe mancato che per un momento si trova a dare il volto-maschera alle frustrazioni e alla rabbia di una società alla deriva ma che non saprà/vorrà sfruttare l’occasione per farsi eroe di una rivolta collettiva nel momento in cui si viene a trovare tra una folla in tumulto che potenzialmente potrebbe trasformare il disagio individuale in desiderio collettivo di rivolta.

Quello messo in scena da Phillips, interpretato da Joaquin Phoenix, è soltanto l’ultimo di una serie di Joker che hanno tentato di scalzare la figura di Batman da Gotham City. Ne Il cavaliere oscuro (The Dark Knight, 2008) di Christopher Nolan, ad esempio, Joker (Heath Ledger) è presentato come un personaggio interessato al collasso della ragione, all’implosione di ogni forma di convivenza civile e, soprattutto, scrive Canova, mira

a dimostrare che in ogni essere umano, compresi gli eroi che lo combattono, alligna una cattiveria immotivata e radicale come quella di cui lui stesso è espressione: di fronte alla paura, ogni essere umano può diventare un mostro, ogni individuo che si ritiene “offeso” può mostrare il lato più oscuro di sé e rivelarsi peggiore di chi è responsabile dell’offesa […] Joker produce l’orrore come forma precipua di disgregazione sociale, come sfida all’idea stessa di giustizia (p. 211).

Nel fare della giustizia una questione centrale del film, Nolan «produce volutamente nello spettatore una sensazione vorticosa di caos e di vertigine, in cui a volte sfuggono i nessi causali fra azione e reazione, ma in cui quel che risulta chiaro – dall’inizio alla fine – è proprio la confusione in cui precipita l’idea stessa di legge e di legalità. Nessuno è del tutto “giusto”, nel Cavaliere oscuro. Neppure Batman» (pp. 211-212)

Ne Il cavaliere oscuro, costruito com’è sulla dualità, se tutte le individualità che si ergono a protagonisti escono sostanzialmente sconfitte, i cittadini asserragliati sui battelli minati tentano invece di affrontare l’emergenza e la paura attraverso una convivenza civile, lasciando intendere, scrive Canova, di poter fare a meno di supereroi.

Il decennio che separa il film di Nolan da quello di Phillips conduce «in un mondo completamente cambiato e in cui la convivenza civile sembra minata alla radice dal serpeggiare del rancore, del risentimento e dell’indignazione per l’ingiustizia dilagante» (p. 213).

Nel suo film Phillips mette in scena l’ultima di una lunga serie cinematografica di incarnazioni dell’archetipo del “clown tragico” che pur vedendosi respinto nella sua professione è al contempo condannato a una risata priva di una corrispondenza emotiva che non gli permette la rimozione del comico. Il Joker che ride suo malgrado è un eroe mancato che si accontenta di combattere la sua battaglia individuale «per l’eliminazione del sorriso e della risata dal mondo» (p. 215). Già, perché nel soffocante spazio concentrazionario quale è diventata, o è sempre stata, la città in cui vive (viviamo), ridotta a una successione di scale, corridoi, cunicoli, tunnel e anfratti vari, c’è davvero poco da ridere.