di Paolo Lago

All’inizio c’è solo oscurità, silenzio, spaesamento: così comincia Arca russa (Russkij Kovčeg, 2002) di Aleksandr Sokurov. Un personaggio, che non vediamo mai e che appare soltanto sotto le vesti di voce narrante (presumibilmente lo stesso regista), si ritrova al buio, in un luogo che non conosce; solo successivamente, in modo graduale, comincia a rendersi conto di dove si trova. Quel personaggio coincide con lo sguardo degli spettatori che, insieme a lui, iniziano un onirico viaggio all’interno di un unico piano-sequenza che costituisce l’intero film. Il viaggio avviene dentro il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, e la voce narrante si ritrova proiettata nella Russia del Settecento e dell’Ottocento. Attraverso le sale del palazzo intravede lo zar Pietro il Grande, l’imperatrice Caterina II e poi, nel corso del tempo, gli zar Nicola I e Nicola II. Il personaggio sembra fatto di pura coscienza e di pura voce e non viene visto da nessuno tranne che da un altro personaggio incontrato nel suo incedere, che appare come un misterioso nobile europeo che ha partecipato, in qualità di diplomatico, al Congresso di Vienna. Se la voce narrante rappresenta uno sguardo prettamente russo, il diplomatico possiede uno sguardo e un modo di vedere tipicamente europei e finisce per coincidere con la stessa Europa.

Successivamente, nel loro viaggio temporale, i due personaggi giungono ai giorni nostri, quando il Palazzo d’Inverno è già diventato il museo dell’Ermitage, e si muovono nei corridoi e nelle sale a contemplare la bellezza delle opere d’arte. Il diplomatico si muove flessuoso e baldanzoso attraverso le sale e, quasi novello Casanova felliniano, intrattiene galanti convenevoli con alcune signore intente ad ammirare quadri e statue. Alle espressioni culturali ed artistiche russe, il diplomatico europeo (forse francese?) preferisce notevolmente l’arte, appunto, europea. Di fronte alla bravura di alcuni musicisti, ad esempio, afferma che sono sicuramente italiani mentre la voce narrante ribatte che, invece, sono russi; ammira Rubens, Van Dyck, la pittura fiamminga, i soggetti religiosi occidentali e, soprattutto, una scultura di Canova. L’arte e la cultura russa sembrano talmente lontani dal suo orizzonte visivo che, all’inizio, dice alla voce narrante che il luogo in cui si trovano sono i musei vaticani. Al che, il personaggio narratore controbatte che invece si trovano nell’Ermitage. Il movimento temporale ed estetico attraverso i saloni dell’Ermitage è perciò connotato da una costante incomprensione culturale fra il personaggio del diplomatico (che si trova nella sua epoca ma non nel suo paese) e il narratore (che si trova nel suo paese ma, per gran parte del viaggio, non nella sua epoca).

Il diplomatico europeo è connotato come istrionico e misterioso, quasi toccato da tonalità faustiane, loquace e spinto da una curiosità e un interesse per qualsiasi manifestazione culturale ed artistica russa che i personaggi incontrano nel viaggio temporale attraverso il lungo corridoio e i saloni. Ma questo interesse sfocia presto in una incomprensione, in una incapacità di sondare fino in fondo quel mondo che, attraverso i secoli, brulica nello scenario del Palazzo d’Inverno. Il movimento della macchina da presa è cunicolare e mima l’incedere del tempo, un tempo che fluisce come un fantasma nei dolorosi spasmi della Storia. In tale movimento cunicolare, che sembra percorrere le oscure vie di un tunnel, si intersecano le simultaneità di un presente del passato, di un presente del presente e di un presente declinato in un futuro che appare denso e fumoso, nell’inquadratura finale. Lo stesso tempo appare terribile e inesplicabile e la voce narrante, che rappresenta la Russia, non riesce a sua volta a comprendere le parole del diplomatico, che assumono le sembianze di ironiche e magniloquenti allocuzioni sul piacere estetico. Se l’Europa, nelle vesti del diplomatico, appare baldanzosa e forte delle proprie potenzialità culturali e artistiche, la Russia, nelle sembianze di una voce di cui non vediamo neppure la fonte (una voce spettrale, acusmatica, come direbbe Michel Chion), è contornata di delicatezza e titubanza, di circospezione, di esitazione e di rispetto per il luogo nel quale ci si trova. Il diplomatico europeo sembra non riuscire neppure a comprendere gli orrori della guerra: non esita infatti ad aprire una porta nonostante la voce ‘russa’ gli abbia detto più volte di non aprirla. Dietro di essa si cela l’orrore della seconda guerra mondiale e le sale devastate dell’Ermitage sono ormai sature di bare; il personaggio europeo non riesce allora a capire il dolore e l’angoscia di un anziano che, in quello spazio ormai annientato dagli orrori della guerra, si sta costruendo la propria bara. Anche la guerra, l’orrore, la distruzione e la morte, a quegli occhi europei appaiono come istrionici scherzi, come i languidi sorrisi di quelle vampiresche fanciulle che, sulle ali del tempo, si librano correndo attraverso i corridoi del palazzo.

Anche la sequenza in cui il poeta russo Gorčakov e la sua traduttrice italiana Eugenia, giunti nel paesino toscano di Bagno Vignoni, stanno aspettando la camera d’albergo, in Nostalghia (1983) di Andrej Tarkovskij, è immersa nel buio e nel silenzio, come all’inizio di Arca russa. In questo caso, il poeta rappresenta la Russia mentre la giovane – che, nell’interpretazione di Domiziana Giordano, bionda e prorompente, ricorda le figure femminili dell’arte rinascimentale italiana – l’Italia e, più in generale, l’Occidente. Mentre Eugenia sta leggendo in traduzione un libro di poesie di Arsenij Tarkovskij, padre del regista, Gorčakov afferma che è impossibile tradurre la poesia e che è altrettanto impossibile, per due culture diverse come quella russa e quella europea, riuscire a comprendersi. Eugenia ribatte che, invece, le due culture, sia a un livello letterario che artistico, in qualche modo, riescono a comprendersi. Come il diplomatico europeo del film di Sokurov, la giovane traduttrice appare mossa da una spinta positiva nei confronti di una cultura diversa, una positività che probabilmente cela leggerezza e incapacità di sguardi profondi. Il poeta russo, in Nostalghia, afferma, in modo perentorio: “Voi non capite niente della Russia”, dicendo che neppure i russi riescono a capire niente di Dante, Petrarca o Boccaccio. Del resto, il film porta nel titolo un’afflizione tipicamente russa, una “nostalgia” che diviene una vera e propria malattia, difficile da capire per un occidentale. Lo stesso Gorčakov è totalmente avvolto da questa malattia che, oniricamente, gli fa apparire come spettri i suoi paesaggi russi e i suoi familiari lontani. L’unica soluzione per comprendersi – dice – è quella di abbattere le frontiere dello stato, quelle politiche, in un periodo storico comunque molto diverso da quello attuale. Sembra, però, che anche oggi ci sia molta difficoltà nel comprendersi, fra Russia e Occidente. Tale incomprensione è emersa a livelli iperbolici e grotteschi (come la cancellazione di un corso universitario su Dostoevskij o il divieto di artisti russi di esibirsi in Occidente) nel momento in cui è scoppiata la guerra fra Russia e Ucraina. L’intero Occidente, ottusamente, ha fatto fronte compatto contro qualsiasi espressione culturale russa, arrivando a censurare anche personaggi pubblici e dello spettacolo dichiaratamente contrari al regime di Putin.

Di fronte alla prorompenza e all’estrema raffinatezza estetica dell’arte italiana, lo stesso Gorčakov si blocca, si ferma: se uno dei motivi per cui era arrivato in Italia era vedere la Madonna del Parto di Piero della Francesca, nel momento in cui ha la possibilità di osservarlo dal vivo sceglie di non entrare nella stanza dove è custodito il dipinto. D’altra parte, l’arte rinascimentale italiana, soprattutto quella di Leonardo da Vinci, ha sempre ossessionato Tarkovskij, secondo il quale l’Occidente, soprattutto a partire dal Rinascimento, si era allontanato dalle caratteristiche fondanti dell’arte russa, dedita alla semplicità delle icone sacre. In molti suoi film l’arte di Leonardo appare rivestita di un fascino ambiguo e perverso come ad esempio in Solaris (1972), ne Lo specchio (Zerkalo, 1975) e in Sacrificio (Offret, 1986). L’ambiguità connota anche il personaggio europeo del film di Sokurov: come accennato, egli possiede alcune tonalità faustiane che lo fanno partecipe ugualmente del bene e del male, come “una parte di quella forza che eternamente vuole il male, e eternamente opera il bene”, come scrive Goethe nel Faust (non a caso, Sokurov nel 2011 ha tratto un film proprio da questa celebre opera del poeta tedesco).

Continuando il viaggio attraverso i corridoi del palazzo, in Arca russa, emerge anche la greve solennità dei rituali dell’aristocrazia russa. L’europeo e la voce narrante si muovono come fantasmi fra i plenipotenziari della nobiltà, solennemente irrigiditi durante il rituale delle scuse dell’ambasciatore di Persia allo zar Nicola I. Il diplomatico faustiano sembra quasi giocare col tempo, muovendosi a zig zag fra i nobili impettiti, racchiusi dall’opulenza delle loro uniformi, grevi e antiche, sature del fascino di “oggetti desueti”, iperbolici, carichi di ere ormai spente. Ma dopo la solennità del rigido e silenzioso rituale, c’è quella della festa, del concerto in cui esplode l’anima festosa della Russia, quella semplicità e quel silenzio che si sono fatti carne e suono, voluttà ed estasi. E allora, adesso, sarà l’europeo a bloccarsi, a fermarsi, a non riuscire a proseguire il suo viaggio. Si ferma e rifiuta di comprendere fino in fondo la cultura del paese in cui si trova, scegliendo di non sapere mai che cosa è e che cosa sarà quell’immensa “arca russa”. Di fronte agli inviti della voce narrante (“andiamo avanti”), l’europeo dice: “io rimango qui”. La macchina da presa, che ormai coincide totalmente con la voce narrante (che esprime un laconico: “Addio Europa”) e con lo sguardo autoriale, lentamente, lasciando lo strepito della festa, facendosi largo fra ambigue fanciulle mascherate perdute in lascive movenze teatrali, rigide damigelle e nobili impettiti, esce da una finestra del palazzo per ritrovarsi completamente circondata dal mare e da un vento di tempesta.

Mentre lo sguardo autoriale sta per uscire dalla finestra, riecheggiano queste parole, quasi perdute nel vento, rivolte al nobile europeo: “signore, signore, peccato che lei non sia qui con me, lei avrebbe capito ogni cosa, guardi, c’è il mare tutt’intorno, e dovremo navigare per sempre, e vivere, per sempre”. La Russia è un’arca, una grande nave che deve andare avanti,  che deve continuare a navigare e vivere per sempre. L’Europa avrebbe capito ogni cosa, se solo avesse avuto il coraggio di proseguire, di vedere e capire fino in fondo. E anche oggi, questa Europa baldanzosa, irretita nei suoi distruttivi fasti economici e bellici, ambigua e pretenziosa, sembra non riuscire a comprendere la grande arca russa che continua la sua navigazione in mari ghiacciati, fra le spire e le tempeste del tempo, per non morire.