di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di identificasi in quell’alterità che la società ha represso e bandito in quanto “mostruoso”. Affascinato dal bizzarro, dal macabro, dal terrorizzante, l’essere umano individua nell’horror la possibilità di esperire paura e disgusto in un contesto non reale, dunque non fisicamente minaccioso. Probabilmente il vero oggetto dei film horror, come sostiene la studiosa Antonietta Buonauro, è «costituito dalla rappresentazione degli incubi culturali che la società occulta/censura, come fa il Super-io con certi contenuti onirici individuali: laddove il sogno e la fantasia sono espressione del represso, di tensioni tra norme sociali e desideri inconsci, l’horror, attraverso l’imago del mostro, mette in scena il socialmente inaccettabile, consentendo di accedervi senza pagarne le conseguenze1.

E negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta è proprio divorando film horror e di fantascienza, racconti di Poe e Lovecraft, oltre che fumetti in quantità industriale,  che alcuni ragazzini maturano l’idea di impugnare, non appena cresciuti, una macchina da presa per esplorare e dare immagine a nuovi incubi anche costo di entrare in rotta di collisione con l’immaginario manistream. Tra questi ragazzini c’è sicuramente John Howard Carpenter, nato nel 1948 a Carthage, New York, e cresciuto nel Kentucky in un ambiente famigliare artisticamente vivace da cui deriva l’amore per la musica e la passione per il cinema. È impugnando una Brownie 8 mm che il giovane Carpenter inizia a girare i suoi primi cortometraggi disseminandoli di riferimenti ai moster movie giapponesi ed ai western.

A passare in rassegna l’intera produzione cinematografica dello statuitene sono due recenti volumi: Edoardo Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo (Edizioni NPE, 2021) che, come suggerisce lo stesso titolo, ne mette in evidenza l’originalità e Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter (La case books, 2021), che invece si focalizza sul ruolo del corpo nelle opere del regista.

L’intera filmografia carpenteriana mette in scena l’inquietudine, la sensazione di pericolo imminente, la paura che si manifesta nelle modalità più diverse e che travolge i protagonisti delle sue opere e con esse il pubblico. Da questo punto di vista uno dei film più inquietanti realizzati dal regista, su cui entrambi i volumi inevitabilmente si soffermano, è La Cosa (The Thing, 1982) che può essere considerata tra le pellicole che, sull’onda delle montanti paure identitarie del periodo, hanno saputo portare sugli schermi un nuovo immaginario [su Carmilla].

I due autori ricostruiscono la genesi del film a partire dall’idea della Universal di riprendere La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (e forse lo stesso Howard Hawks), per trarne un film più fedele al racconto Who goes There? di John W. Campbell pubblicato nel 1938. Se nel racconto sono facilmente individuabili riferimenti al pericolo nazista, il film del 1951, allinenadosi all’immaginario statunitense dell’epoca, sposta la minaccia riferendosi al comunismo. Nell’opera di Nyby, sottolinea Trevisani, oltre al pericolo rosso, è al contempo ravvisabile,

come spiega Stephen King in Danse Macabre, l’espressione di una forte sfiducia nei confronti degli scienziati e dei politici progressisti insieme a loro, pieni di grandi idee, ma incapaci di vere e proprie azioni risolutive in tempo di crisi. Nel film di Hawks e Nyby di fronte al pericolo alieno tutti gli abitanti della base sono pronti a fare fronte comune e a collaborare, a eccezione professor Carrington, malato di superomismo, che è pronto a tutto pur di salvare la creatura per scoprire i suoi segreti2.

La stesura della sceneggiatura per il nuovo film risulta travagliata; le difficoltà ruotano attorno alla natura dell’entità aliena che Campbell descrive come essere che muta la sua forma appropriandosi dei corpi degli esseri con cui viene a contatto seminando così il terrore tra gli umani. Nel film del 1982 che vede John Carpenter alla regia e Kurt Russell nei panni del protagonista McReady, dopo che Clint Eastwood, Jeff Bridges e Nick Nolte hanno rifiutano la parte, l’essere alieno si presenta come un microrganismo colonizzatore che, giunto al Polo a bordo di un’astronave in tempi remoti, assume le forme di vita con cui viene a contatto: è chiaro pertanto come il problema maggiore per la realizzazione della pellicola riguardi gli effetti speciali necessari a rendere l’atto della mutazione.

Sebbene alcune riprese siano realizzate tra i ghiacci dell’Alaska, buona parte della pellicola viene girata negli Studios della Universal in piena estate all’interno di un set refrigerato al fine di rendere visibile il fiato dei personaggi. Rob Bottin, addetto agli effetti speciali, racconta:

volevo che La Cosa fosse come un incubo. Quando ti svegli da un incubo e non ti ricordi bene cosa hai visto. Non ti è chiaro. È una cosa che cambia nell’ombra. Ecco come avevo pensato alla “cosa”. Volevo qualcosa di diverso dal solito uomo dentro un costume di gomma, qualcosa di completamente alieno, più alieno di Alien. Ho iniziato a pensare e ho concluso che forse il segreto era proprio nel titolo del film. […] perché non trovare un qualcosa che può cambiare quando lo desidera e davanti ai tuoi occhi, e di cui non sai quale sia la forma originale?3.

Dopo aver mostrato, durante i titoli di testa, un disco volante che si schianta su un pianeta, che si scoprirà presto essere la Terra, il film si apre con un cane che nel fuggire dagli spari provenienti da un elicottero torva rifugio presso una base di ricerca scientifica statunitense tra i ghiacci. Scesi a terra armi in pugno con l’ossessione di dover assolutamente eliminare il cane, gli inseguitori restano uccisi nel corso di un conflitto a fuco ingaggiato con gli uomini della base. Questi ultimi, intenzionati a capire quanto accaduto, scoprono, oltre ai corpi dei compagni degli assalitori congelati in circostanze misteriose, un nastro che documenta il ritrovamento di un’astronave sepolta tra i ghiacci da parte di scienziati scandinavi. L’animale giunto alla base statunitense si comprenderà poi essere la forma assunta dalla “cosa dall’altro mondo” per propagarsi velocemente come un’infezione all’interno di una comunità umana in cui ormai nessuno si fida più di nessuno. Scrive a tal proposito Migneco che, a ben guardare, tra i messaggi che «la condizione umana è già contaminata, ancora prima che sia la Cosa a farlo. I personaggi sono diffidenti tra do loro e nel gruppo non c’è una grande coesione, anzi, e l’avvento della Cosa rende solo più esplicito il tutto»4.

Primo capitolo di quella che sarebbe poi stata definita la Trilogia dell’Apocalisse, – composta da La cosa (The Thing, 1982), Il signore del male (Prince of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) –, quello di Carpenter è un film pessimista, claustrofobico, che non concede speranze al pubblico che, terminata la visione, non può che uscire dalla sala in preda ad un senso di disagio. Probabilmente il motivo principale dell’insuccesso di pubblico alla sua uscita, secondo Trevisani è da ricercarsi nella

estrema impietosa lucidità con cui [Carpenter] descrisse l’alba degli anni Ottanta. Mentre la gente preferiva farsi cullare dalla favola fantascientifica di E. T. di Spielberg, che era in sala in contemporanea con La Cosa, e dal suo ottimismo nei riguardi del prossimo, Carpenter aveva già compreso quali paure stavano dilaniando la coscienza dell’America. Se La Cosa da un altro mondo di Hawks è il racconto di un’umanità unita contro la minaccia esterna, quella di Carpenter è un’umanità divisa dall’individualismo, dalla paura e dalla diffidenza, in sostanza per Carpenter la “cosa” è quel germe che sta sgretolando la società. Era qualcosa che già il regista avvertiva sin dai tempi di Distretto 13, solo che ora quelle premesse raggiungono il pieno compimento5.

È come se il Male, dismessa la maschera di Halloween, avesse indossato quella di qualsiasi essere umano, continua Trevisani; quasi ad esplicitare che chiunque può essere il mostro.

Il film insiste sul rapporto tra spazio interno e quello esterno: al primo appartiene l’ambientazione claustrofobica della piccola base isolata dal resto del mondo e abitata da una dozzina di uomini costretti ad ingannare alla meglio il tempo che sembra non passare mai; al secondo, minaccioso e sconfinato, appartengono tanto le infinite distese di ghiaccio del paesaggio polare quanto lo spazio attraversato dall’astronave aliena prima di precipitare sulla terra.

Si torna alle premesse di Dark Star, volendo, solo che il rapporto dentro fuori riguarda i corpi e le identità e il senso di questo assedio inevitabilmente assume un peso politico non indifferente. La Cosa esce nei cinema agli inizi degli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo, del rampantismo, della reaganomics. A un irrigidimento politico reazionario e a una sempre maggiore precarizzazione delle classi lavoratrici corrisponde l’esaltazione del corpo e il culto dell’apparenza6.

Da lì a poco, ricorda l’autore, gli schermi televisivi – e non solo statunitensi – sarebbero stati occupati dai corsi di aerobica di Jane Fonda che invitano a sentirsi responsabili nel caso il corpo che ci si ritrova non sia quello desiderato. All’immaginario yuppie improntato sul culto del corpo e dell’apparire, un piccolo filone del cinema horror degli anni Ottanta risponde pensando e mostrando il corpo in altro modo.

In una società in cui la decadenza del corpo è trattata alla stregua di un peccato capitale, di un sacrilegio, Carpenter si permette di dare in pasto i corpi a un alieno la cui strategia di sopravvivenza è l’imitazione, la riproduzione perfetta delle sembianze umane, ma che trova la forma più estrema di offesa nella deformazione, nel deturpare il fisico, nel trasformalo in incubo. Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione7.

Dell’unità tra umani che permetterà la vittoria nei confronti dell’essere alieno del film del 1951, nella versione del 1982 non c’è traccia; a dominare sono piuttosto la diffidenza e la rivalità. «È la paranoia del contatto, che viene fuori alla vigilia del contagio dell’AIDS, ma è anche qualcosa di più, è la costatazione che nessun corpo è autonomo e che nessuno può decidere solo ed esclusivamente per se stesso»8. Alla faccia della sociofobica Iron Lady insediatasi a Downing Street: “you know, there’s no such thing as society. There are individual men and women and there are families”. Mark Fisher9, ricorda Trevisani, ricorre proprio al film di Carpenter per spigare la natura di quel capitalismo che ama presentarsi come entità astorica dunque priva di alternative (lo slogan “There Is No Alternative” è stato ripetuto talmente tante volte da Margaret Thatcher da finire per essere soprannominata con l’acronimo “TINA” da un suo collega di partito):

entità che appartiene a una dimensione senza tempo e senza spazio, preesistente ai sistemi politici come, una sorta di abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza e dotata della capacità di integrare continuamente il differente, la protesta, il trauma, rielaborandole ininterrottamente, rubandone l’aspetto e sostituendone la natura: “un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”10.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, soggiace il timore di un possibile attacco sovietico dal polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana11.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nella versione di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Mentre la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

La base statunitense nel film di Carpenter è abitata da uno spaccato di umanità – di soli uomini – a cui è precluso – o che si preclude – il contatto, in balia dalle proprie nevrosi. Una dozzina di uomini costretti a vivere in spazi angusti non sembrano riuscire a fronteggiare chi ha capacità di riprodursi e diffondere la propria specie..

Per molti versi La cosa è uno slasher movie, segue molti dei meccanismi del genere, solo che alcuni circuiti sono interrotti, i rapporti a un certo punto risultano sfalsati e forse fu anche questo a disorientare il pubblico. L’alieno è sostanzialmente l’assassino che in uno spazio chiuso, in un’arena, fa fuori i personaggi uno dopo l’altro, il problema è che viene a mancare il consueto motivo sessuale implicito, o meglio viene sovvertito. In più manca l’atto per eccellenza dello slasher, l’omicidio, anzi, è come se la morte perdesse di significato nel film di Carpenter, non esiste più, dato che l’annientamento del personaggio coincide con la colonizzazione e la distruzione effettiva è affidata ai componenti ancora umani del gruppo12.

La Cosa non si mostra mai direttamente, la si “percepisce” soltanto attraverso le forme che assume di volta in volta e quando coincide con l’essere umano è ormai troppo tardi e l’ossessione del controllo – “Voglio tenervi tutti sotto controllo” afferma McReady rivolgendosi ai colleghi –, non può fermare il contagio che, invisibile, fuori campo, conduce insormontabilmente alla temuta mutazione. Il mondo della razionalità scientifica che ha, sin dalle sue origini, a che fare con il controllo visivo, si mostra incapace di individuare l’alterità aliena che invece riesce a controllare e ad appropriarsi degli esseri umani.

Secondo Migneco il film può anche essere interpretato come la rappresentazione del timore della malattia e della morte.

Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi e infatti l’unico modo per sapere se i personaggi sono ancora umani o cose, è un’analisi del sangue […], perché “l’analisi del sangue che determina cosa stia davvero succedendo dentro il corpo umano”. […] Corpo e sangue. Identità, La Cosa priva i protagonisti dell’ultima certezza, quella della propria identità, del proprio essere. Chi è umano e ch no? Di chi ci si può fidare?13

Nel film si potrebbe scorgere, continua Migneco, anche un approfondimento relativo alla paranoia, agli effetti della paura, una vicenda in cui il male distrugge l’interiorità per poi ri/crearne una a sua immagine. Più ai personaggi, il film sembra sembra riferirsi a di chi, seduto su una poltronicina, lo sta guardando al cinema. Dai primi anni Ottanta messi, a suo modo, in scena da Carpenter è passato parecchio tempo; “la cosa” nel frattempo non ha smesso di diffondersi… mentre ci si continua a ripetere con McReady, ma forse con sempre meno convinzione: “I know I’m human”…


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. A.  Buonauro, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione, in DWF. Donna Woman Femme: Rivista internazionale di studi antropologici storici e sociali sulla donna, 2008, n. 1, vol. 77, pp. 40-57. 

  2. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, Edizioni NPE, Battipaglia (SA), 2021, p.93. 

  3. G. D’Agnolo Vallan, R. Turigliatto, John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 147. Brano riportato in E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 95-96.  

  4. Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, La case books, 2021, p. 64. 

  5. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 99. 

  6. Ivi. 100. 

  7. Ivi, p. 101. 

  8. Ibid. 

  9. M. Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?,  Zero Books, UK, 2009, tr. it.: M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018. 

  10. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 101-102. 

  11. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Milano, 2021, p. 303. 

  12. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 202 

  13. F. Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, op. cit., pp. 65-66.