di Paolo Lago

Tabish Khair, La notte della felicità, traduzione di Adalinda Gasparini, Tunuè, Latina, 2020, pp. 121, € 14,50.

La notte della felicità di Tabish Khair è un romanzo meravigliosamente sospeso fra ambiguità e lucidità. Come scrive Tzvetan Todorov, “ci sono testi che mantengono l’ambiguità fino alla fine, il che vuol dire anche al di là. Richiuso il libro rimarrà l’ambiguità”. Todorov si riferisce al Giro di vite di Henry James, il quale “non ci consentirà di decidere se dei fantasmi si aggirano nella vecchia proprietà o se si tratta di allucinazioni dell’istitutrice, vittima del clima inquietante che la circonda”. Anche il romanzo di Khair che, come leggiamo nel risvolto di copertina, si situa vicino alle “ghost stories ‘senza fantasma’ di James, Du Maurier e Byatt”, mette in scena un clima di ambiguità attraversato però da uno sfondo sociale guardato con estrema e disincantata lucidità.

La narrazione si affida all’espediente del manoscritto ritrovato, utilizzato assai spesso in letteratura, da Potocki fino a Poe e Manzoni. L’incipit è costituito da un’apostrofe al lettore, il quale viene descritto nell’entrare in una stanza di un albergo a cinque stelle di Mumbai, in India: “Comincia così… Entri nella stanza. Chi sei? Potresti essere chiunque”, vale a dire “un uomo d’affari o un amministratore delegato di passaggio per una sola notte”, “un medico di successo”, “un comune turista”, “uno scrittore” al quale viene offerto il pernottamento dagli organizzatori di un festival letterario, “un dipendente, magari uno dei responsabili di livello più basso, mandato a verificare che il bar sia rifornito come si deve”. Basta che questo “chiunque” o “quasi chiunque” apra il primo cassetto del comodino accanto al letto per trovare una risma di carta tutta scritta a mano, accanto a una Bibbia e a un Bhagavad Gita. Il titolo del manoscritto “è accattivante” ed è stato barrato: “L’infinità spettrale delle piccole distanze”. Il fascino di questo titolo, probabilmente, sta in due parole che si pongono in serrato contrasto: “infinità” e “piccole”. Inoltre, l’aggettivo “spettrale” introduce il tema di un fantastico e di un immaginario incastonato nella realtà scontata e quotidiana come a voler dire che nel “piccolo”, nel consueto, si può riscoprire un’inedita e inesausta fonte di immaginario. L’autore del manoscritto è Anil, uno dei protagonisti del romanzo. È un uomo razionale, un ricco capo d’azienda che vive in una casa elegante e gira in auto con l’autista. È lui ad aver scritto quelle fitte pagine. La sua azienda si è accresciuta e ha raggiunto un buon successo grazie anche all’aiuto di un suo dipendente musulmano, Ahmed, divenuto nel tempo il suo braccio destro. Ahmed è un uomo schivo e silenzioso, connotato da una calma e da una saggezza fuori del comune. La sera della festa musulmana di Shab-e-baraat, Anil accompagna Ahmed a casa sua a causa di un forte temporale e viene invitato dal suo dipendente a entrare per assaggiare un gustoso dolce, l’halwa, preparato dalla moglie Roshni.

Appena varca la soglia della casa di Ahmed, il personaggio si ritrova quasi proiettato in un’altra dimensione, in cui vige il fantastico e l’immaginario: “Mi sembrò davvero, allora, di entrare in una sostanza più densa e vischiosa, qualcosa di più resistente, come quando ci si tuffa in una piscina, o si tratta di un pensiero che solo ora associo al mio ingresso in quella casa?”. È come se Anil fosse entrato all’interno di una “eterotopia”, cioè uno “spazio altro” che, secondo l’analisi di Michel Foucault, si configura come un luogo reale, separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo”. Lo spazio della casa di Ahmed è come attraversato da una “sostanza più densa e vischiosa, qualcosa di più resistente”, quindi, per certi aspetti, si potrebbe anche configurare come uno spazio di resistenza, uno spazio, per utilizzare un termine di Foucault, di “contestazione”. In cucina, la moglie sta preparando l’halwa e non si mostrerà al suo ospite per rispettare l’osservanza musulmana della purdah, la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne. La presenza di Roshni assume quindi una consistenza spettrale, immaginifica, relegata entro la soglia di una sostanza incorporea. Ma è un avvenimento – che qui non sveleremo – che mette in crisi la razionalità di Anil. È in virtù di esso che il ricco capo d’azienda comincia a nutrire forti sospetti nei confronti di Ahmed, addirittura sulla sua sanità mentale. Come sempre ricorda Todorov riguardo a Aurélia di Gérard de Nerval, il romanzo dello scrittore francese costituisce “un esempio originale e perfetto dell’ambiguità fantastica”: “il raggio d’azione di questa ambiguità è certamente quello della follia”. Forse – continua Todorov – questa follia si configura, in realtà, come una “ragione superiore”. E, lentamente, anche ne La notte della felicità, Anil verrà inglobato dalla “follia” di Ahmed che lo guiderà come una sorta di “ragione superiore”.

Di fronte al ‘perturbamento’ innescato da una dimensione e da un avvenimento per lui incomprensibili, Anil si affida alla razionalità. Ingaggia infatti un suo amico a capo di un’agenzia di investigazioni per cercare delle informazioni sulla vita di Ahmed, il quale si è improvvisamente trasformato in un ‘diverso’, uno ‘strano’, un potenziale nemico per il suo placido e regolato ordine borghese. Il ricco e razionale Anil, di fronte a una dimensione segnata dallo strano, dalla follia e dall’immaginario, risponde con la razionalità dell’investigazione e dello spionaggio. Lo stesso Foucault ricordava che la dimensione dell’eterotopia si contrappone alla rigidità geometrica e razionale della “polizia”, del controllo, dello “spionaggio”. Considerando la nave come “l’eterotopia per eccellenza”, lo studioso francese afferma che “in una società senza navi i sogni si inaridiscono, lo spionaggio si sostituisce all’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”. Ahmed, la sua casa e sua moglie Roshni sono quasi gli alfieri di un mondo di sogno, di una “notte della felicità” in cui l’immaginario forse ancora riesce a resistere. Lo “spionaggio” inizia quindi a scandagliare la vita di Ahmed e la narrazione del ‘manoscritto ritrovato’ è intercalata da periodi contrassegnati da uno stile piano e oggettivo, da referto, i quali si inseriscono nel più ampio racconto relativo alla vita del personaggio, segnato da momenti più poetici e immaginifici.

Uno di questi momenti è sicuramente rappresentato dalla descrizione della visita al cimitero in cui riposa il padre di Ahmed. A sua madre Ammajaan viene proibito l’ingresso perché, viene detto, i costumi sono cambiati e la legge islamica ne proibisce l’ingresso alle donne. Ahmed, con la consueta calma, cerca in tutti i modi di far entrare la madre, fino a una vera e propria pratica di resistenza: accompagnare e sorreggere Ammajaan, anziana e stanca, nel percorrere a piedi una squallida e sporca ferrovia per raggiungere un posto, fuori dal cimitero, dal quale si può vedere da lontano la tomba del padre. Di fronte all’assurdo divieto di potersi recare a rendere omaggio alla tomba del padre (che ci può far pensare, per certi aspetti, agli odierni e disumani divieti, in tempo di emergenza da Covid, di recare l’ultimo saluto ai propri cari defunti), viene attuata una pratica di resistenza lenta e silenziosa:

Riesci a immaginarlo? Puoi vedere questa vecchia, col suo equilibrio ormai instabile, camminare lentamente, barcollando, sui binari e tra i binari, quei binari dove si deposita tutto quello che viene buttato dai treni, quei binari che gli indiani poveri usano per defecare, quei binari sui quali, da un momento all’altro, potrebbe arrivare un treno in corsa? E suo figlio che la sorregge, le orecchie tese per udire il minimo rumore di un motore che si avvicina, che si trattiene dal farle fretta e allo stesso tempo vuole che si muova il più velocemente possibile… E poi raggiungono il posto e lei già da lontano riconosce la tomba, congiunge le mani e offre la stessa, immutata preghiera. Poi si voltano e tornano indietro per la stessa via dalla quale sono venuti.

All’interno del racconto, elegantemente ricreato dalla bella traduzione di Adalinda Gasparini, appare anche la dura realtà sociale dell’India contemporanea, attraversata da plaghe di povertà ancora irrisolte e caratterizzata da crudeli scontri sociali, come quelli che vedono la sanguinosa contrapposizione fra indù e musulmani. Attraverso la ricostruzione della vita di Ahmed svolta dal detective appare perciò sotto i nostri occhi anche uno spaccato di vita indiana con le sue usanze e le sue abitudini. Ma la razionalità che scandisce i referti oggettivi ricostruiti dal detective si scontrerà, alla fine, con un nuovo turbine dell’immaginario. Se Anil, infatti, aveva costruito la sua intera esistenza su una base razionale, pratica e realistica, dovrà rifare i conti con se stesso. Il fantastico e l’immaginario, per mezzo di una sorta di oggetto magico, un “portapranzi d’acciaio come quello che Ahmed si portava sempre in ufficio”, lo avvolgeranno completamente in maniera quasi impercettibile. Quindi, accingendosi a narrare la sua storia, egli attua una via di fuga dal suo mondo razionale, freddamente basato sull’economia e sul lavoro (“Ignora la mia storia se vuoi, estraneo, io però non posso ignorarla. E non posso nemmeno raccontarla nel mio solito mondo”). E allora, ‘perturbato’ da Ahmed, questo angelico ed etereo alfiere dell’immaginario che ha sconvolto la sua vita fatta di certezze, Anil, dopo essere quasi riuscito ad entrare in un nuovo spazio liberato, vergherà il suo racconto per poi abbandonarlo in una stanza d’albergo e consegnarlo come un lascito al nostro sguardo di lettori.


Riferimenti bibliografici:

Michel Foucault, Utopie Eterotopie, trad. it. Cronopio, Napoli, 2011.

Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, trad. it. Garzanti, Milano, 2011.