di Gioacchino Toni

«Le donne, da Eva in poi, sono state rappresentate come seduttrici e causa primaria della perdita di razionalità, saggezza e peccato. A questo, vengono contrapposte le rassicuranti figure della Vergine Maria, la madre e la Madonna. L’Antisatira di Tarabotti, può essere considerata come la prima profonda e prolungata risposta alla tradizione della polemica sul lusso femminile (lusso donnesco), un manifesto politico perfettamente in linea con gli altri suoi scritti di denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne. Ma il testo fa anche più di questo: è una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Eugenia Paulicelli

Il mito che nella prima modernità voleva Venezia come città ideale e culla di libertà a cui contribuirono personalità come Cesare Vecellio e Giacomo Franco con le loro pubblicazioni sugli abiti e sui costumi, è stato aspramente contestato da scrittrici veneziane del Cinque e Seicento come Modesta Pozza ed Arcangela Tarabotti (al secolo Elena Cassandra Tarabotti).

La prima, autrice de Il merito delle donne (dialogo tra sole donne pubblicato postumo nel 1600 con lo pseudonimo di Moderata Fonte), ricorre all’artificio retorico di aprire il volume tessendo le lodi alla città lagunare, per poi mostrare come la vita pubblica della Serenissima escluda di fatto le donne, prive di diritti e non considerate parte attiva della comunità cittadina. Alla figura di Arcangela Tarabotti, ancora più sferzante e puntuale nella critica alla società veneziana, la studiosa Eugenia Paulicelli – docente di Letteratura italiana, comparata e Women’s Studies alla City University di New York – dedica un interessante capitolo del suo volume Moda e letteratura nell’Italia della prima modernità (Meltemi, 2019) [su Carmilla].

Costretta dal padre a perdere i voti in giovane età, Tarabotti è autrice di opere come La tirannia paterna, L’inferno monacale, Il paradiso monacale e Antisatira in cui la vita personale, pubblica e politica non sono mai separate dal contesto geopolitico. Si tratta di una produzione caratterizzate da una verve polemica e da una passione che non si ritrovano negli scritti di altre veneziane della prima modernità in cui la giovane monaca benedettina, forte di un’ottima conoscenza degli affari cittadini, della moda e delle consuetudini sociali maschili e femminili, sferra un attacco diretto al cuore dello stato veneziano decostruendone il mito di città della libertà prendendo di mira la struttura dispotica delle istituzioni della Serenissima. In generale, sostiene Paulicelli, le opere della Tarabotti sono caratterizzate da una critica sferzante e disincantata del patriarcato che sottende le istituzioni della società lagunare (famiglia, stato, istruzione ecc.).

Così come Modesta Pozza, anche Arcangela Tarabotti decise di aprire sia Tirannia Paterna (pubblicato postumo) che in Inferno monacale, con una presentazione di Venezia come baluardo di libertà, salvo «sostituire subito dopo quell’immagine con una visione opposta della città: come una prigione, la negazione della libertà, soprattutto per le donne. Per Tarabotti, Venezia diventa l’immagine stessa della misoginia, una città che gode di uno status e un prestigio internazionali, ma dove le donne rimangono cittadine di seconda classe e in cui lo spazio pubblico è loro negato».

I due libri circolarono per qualche tempo in maniera semi-clandestina a Venezia allo stato di manoscritti e nel caso de La tirannia paterna anche dopo la sua pubblicazione il testo continuò ad essere osteggiato tanto da venire bandito dalla Congregazione dell’Indice nel 1661, pochi anni dopo la sua pubblicazione postuma.

Tarabotti riuscì invece a pubblicare in vita Il Paradiso monacale (1643), l’Antisatira (1644), Lettere Famigliari (1650) e Che le donne siano della spetie degli huomini. Difesa delle donne (1651). A darle fama sarà soprattutto l’Antisatira, libro pubblicato anonimamente sotto la sigla D.A.T. in risposta alla Satira (1638 e 1644) scritta da Francesco Buoninsegni, in cui l’intellettuale senese prendeva di mira la moda femminile e con essa le donne. Nella sua replica Tarabotti, oltre a schierarsi per la libertà delle donne di seguire la moda, denunciò come questa toccasse parimenti gli uomini, tanto da insistere particolarmente nel descrivere la vanità maschile.

Nonostante la vita conventuale, la scrittrice riuscì a mantenere importanti contatti con la realtà culturale cittadina anche grazie al parlatoio, una sorta di spazio liminale tra l’isolamento del convento ed il mondo esterno, che «può anche essere visto come una forma di salotto, uno spazio intimo dove si discutevano gli affari pubblici, si scambiavano doni, si organizzavano matrimoni e così via». La studiosa Gabriella Zarri arriva a vedervi un’anticipazione della moda dei salotti francesi che si diffonderà negli stati italiani alla fine del Seicento.

La religiosa riuscì a stabilire legami con gli Incogniti, un gruppo di intellettuali libertini veneziani spesso presi di mira dall’Indice dei libri proibiti, incline ad uno stile di scrittura decisamente sperimentale per l’epoca. «Inutile dire che l’Accademia degli Incogniti era diretta da uomini […] L’Accademia era uno dei più importanti e riconoscibili “punti di ritrovo” per gli intellettuali italiani, sia dentro che fuori Venezia, così come per i letterati francesi».

«Quello che forse l’attraeva di più degli Incogniti», sostiene Paulicelli, «era il loro amore condiviso per la libertà. Deve esserle sembrato che, in questi ambienti, la lingua e le parole fossero libere da regole prestabilite. Nonostante le differenze tra la sua posizione femminista e la misoginia di molti dei letterati degli Incogniti, quello che condividevano era il desiderio di cambiamento e la passione per il potere rivoluzionario delle parole e del linguaggio».

Nelle sue pubblicazioni, Tarabotti si sofferma sull’accesso alla cultura delle donne, sul loro riconoscimento nella vita pubblica, sulla loro libertà e sul loro libero arbitrio. «In tutti i suoi scritti, Tarabotti fa ampio riferimento agli abiti, alla moda, all’apparire e al volto pubblico di uomini e donne, ma è in Tirannia paterna che questo filone del discorso di Tarabotti giunge a compimento. Ciò che collega i suoi scritti sulla moda e quelli sulla tirannia è la questione dell’inganno e di come vengono utilizzati in modo il linguaggio e i segni vengano utilizzati in modo e con scopi mendaci. L’arte di vestire e apparire per Tarabotti è simile all’atto della copertura e della stratificazione che è inerente alla rappresentazione e alla lingua, e dunque, per estensione, alla pratica della dissimulazione».

Nell’Antisatira la scrittrice si sofferma su quegli specifici elementi dell’abbigliamento distintivi della moda maschile nella prima metà del Seicento, denunciando la vanitosa passione degli uomini per le parrucche e i ricci, per i tessuti pregiati e per le vestiti, senza però essere per questo giudicati. «L’attacco di Tarabotti alla mascolinità fu in primo luogo, una risposta meticolosamente dettagliata e ben argomentata che con verve e intelligenza ha decostruito le finzioni della mascolinità come veniva rappresentata sulla scena sociale».

Nel libro la scrittrice si sofferma sull’usanza maschile di alterare, attraverso imbottiture, la forma del corpo, questione dibattuta nel corso del secolo da diversi scritti, come nel caso de La maschera scoperta (1671) di frate Arcangelo Aprosio, in cui viene sminuita la portata morale e simbolica delle trasformazioni del corpo maschile, mentre al contempo viene enfatizzata l’ingannevolezza insita nella medesima pratica da parte femminile. Nella lettura proposta dalla religiosa emerge una differente rappresentazione dell’abbigliamento maschile. «Nel falso ridimensionamento delle immagini di virilità, Tarabotti offre un quadro complesso della politica dello stile, genere e classe durante la sua epoca e offre interessanti argomenti sull’abilità delle donne e sul loro diritto e desiderio di controllare il proprio aspetto e la propria identità culturale».

Il dibattito sul lusso e sulla moda portato avanti nell’Antisatira deve essere collocato all’interno delle questioni della libertà e del libero arbitrio, e per Tarabotti «il diritto legittimo, la libertà e il piacere delle donne di abbellire i loro corpi e le loro apparenze, e il loro accesso a una vita intellettuale/pubblica sono la stessa cosa».

L’Antisatira può dunque essere vista come una risentita e piccata risposta femminile alla tradizionale lettura misogina del lusso donnesco. Il libro, oltre che riprendere la denuncia della disuguaglianza tra uomini e donne presente negli altri testi della scrittrice, è anche «una critica della nozione secondo cui il genere è fisso, una categoria essenziale e naturalizzata. Sovvertendo le regole del gioco, Tarabotti svela l’ipocrisia sociale che aveva visto decorazioni e ornamenti come oggetti della femminilità, e la mascolinità in contrapposizione ad essa». Si può dunque affermare, conclude Eugenia Paulicelli, che il suo testo risulta rivoluzionario per diversi motivi: «in primis perché difende il diritto della donna alla moda e al lusso, collegandolo al lavoro intellettuale, che può essere considerato parallelo alla cura del corpo. In altre parole, difende il diritto delle donne di essere libere e considera la cura di sé, del proprio corpo, della propria anima e del proprio cervello come atti che sono intrecciati e non separati dal controllo della vita, del comportamento delle donne e dell’economia del patriarcato. Affermando che le donne sono autrici della propria immagine e dei propri libri, Tarabotti può essere vista come una femminista radicale. Con riferimento alla chiesa, ha oltrepassato diversi confini difendendo il lusso invece di esaltare soltanto la castità e la modestia per le donne, e ha decostruito il mito secondo cui gli uomini non erano interessati all’apparire e all’eccesso».


Serie completa Estetiche del potere