di Gioacchino Toni

Marc Augé – Jean-Paul Colleyn, L’antropologia del mondo contemporaneo, Milano, Eléuthera, 2019, pp. 118, € 14,00

L’antropologia contemporanea si trova a dover evitare da un lato di prestarsi a un riduzionismo culturale volto a conformare l’intero globo al modello occidentale e dall’altro di contribuire alla costruzione di una distinzione artificiosa tra tale sistema ed il “resto del mondo” che “non ha saputo evolversi” in tale maniera. Che si tratti di assimilazionismo o di primitivismo, l’Occidente continua a mostrare tutte le sue difficoltà nel confrontarsi con l’alterità.

All’antropologia culturale del XXI secolo Marc Augé e Jean-Paul Colleyn hanno dedicato nel 2004 un libro tradotto e pubblicato una prima volta in italiano un paio di anni dopo da Eléuthera ed ora riproposto, dal medesimo editore, in una nuova edizione: L’antropologia del mondo contemporaneo (Eléuthera, 2019).

A lungo, sostengono i due studiosi, gli antropologi hanno pensato di compiere viaggi nel tempo mentre in realtà si muovevano nello spazio. Al convincimento, oggi scarsamente sostenibile, che lo spostamento in terre lontane consenta di rintracciare “civiltà antiche”, si è sostituita la consapevolezza che, indipendentemente dal modo di vita degli esseri umani delle più diverse società, esistano riferimenti in comune e che l’antropologia, nel suo spiegare la variabilità dei fatti umani, debba saper comprendere anche le somiglianze e gli universali.

Se dal punto di vista valoriale la distinzione Occidente / resto del mondo e l’idea di uniformare in un’unica grande categoria l’umanità “non industriale” sono del tutto inaccettabili, dal punto di vista scientifico, sostengono Augé e Colleyn, non di meno la sfasatura tra “moderni” e “altri” necessita di essere indagata.

L’antropologia occidentale si è sviluppata all’interno di un percorso culturale che ha avuto le sue tappe principali nel pensiero greco-romano, nell’illuminismo e nella rivoluzione industriale. Condannato l’evoluzionismo che pretenderebbe di imporre una tendenza orientata da parte di tutte le forme sociali verso tale modello, occorre però, ribadiscono i due studiosi, prendere atto di come il modello occidentale abbia finito col farsi globale, sebbene, a ben guardare, risulti meno razionale di quel che pretende. L’economia della società postindustriale più avanzata resta infatti fortemente toccata dal simbolico, dall’ideologia e dalle credenze.
Nonostante tale sistema abbia condotto ad una professionalizzazione della ricerca tecnico-scientifica, l’Occidente non può pretendere di detenere il monopolio della riflessione critica:

non tutte le culture aderiscono a un modello scientifico basato sul confronto di argomenti razionali con l’unica preoccupazione di ricavarne leggi, regolarità, strutture. Ciò che oggi è in discussione è il fatto di capire se l’autonomizzazione della scienza e della ricerca introduca, rispetto a tutte le altre forme del sapere, una cesura epistemologica, o se la categoria isolata sotto il nome di “scienza” altro non sia che una forma relativa di sapere tra le tante (p. 119)

Lo schema base dell’agire dell’antropologo prevede: la costruzione di un oggetto di studio, la scelta di un tema legato a forme di vita collettiva, il portarsi sul campo al fine di svolgere l’indagine etnografica, affrontare la letteratura esistente sull’oggetto di ricerca, infine l’intraprendere la scrittura dei risultati ottenuti.

Circa l’oggetto, se un tempo era confinato a piccole società esotiche che si volevano indagare prima che venissero assorbite dall’espansione della civiltà europea, oggi, con l’avanzare del processo di globalizzazione, il contesto da indagare si estende all’intero globo. Ovunque le genti risultano “locali” solo in funzione di una precisa configurazione storica e, in un sistema mondiale come l’attuale, si mostrano sempre più interdipendenti. Dunque, l’antropologia è passata dallo studio dei popoli a quello dei temi, con le inevitabili specializzazioni. Nonostante si siano così strutturate, ad esempio, un’antropologia del diritto, della religione, della malattia, della città e così via, resta indispensabile, a parere di Augé e Colleyn, il mantenimento di un minimo di visione generale dell’umanità nel suo insieme.

Quando si parla di campo in ambito antropologico, si intende contemporaneamente un luogo ed un oggetto di ricerca ed a proposito di esso i due studiosi ribadiscono come il metodo su cui si basa l’antropologia resti quello dell’etnografia: il lavoro sul campo durante il quale il ricercatore prende parte alla vita quotidiana di una diversa cultura, osserva, registra, tenta di accedere al punto di vista indigeno e ne scrive.

L’immersione in una cultura consente un apprendimento spontaneo (per familiarizzazione o impregnazione) che dovrebbe impedire al ricercatore di proiettare sulla realtà sociale indagata ciò che vuole vedervi; l’antropologo deve riuscire ad evitare di inserire ciò che osserva all’interno di categorie appartenenti alla sua tradizione culturale e di trasformare ciò che si trova di fronte in differenza ed estraneità a tutti i costi rispetto alla sua cultura di provenienza.

L’attuale analisi transculturale si è formata sulla base dei tentativi degli anni Settanta di analizzare la realtà sociale dal suo interno, ed altrettanto importanti per la ricerca contemporanea sono state le ricerche antropologiche che hanno avuto come oggetto di analisi l’esperienza antropologica stessa in quanto forma della conoscenza prodotta dal contattato tra due diverse culture. Grazie ai postcolonial studies è stata invece messa in evidenza la dimensione politica del ruolo dell’antropologo nel suo derivare dal colonialismo.

Nell’attuale realtà globalizzata, segnata dalla mobilità delle culture e dagli spostamenti delle popolazioni, il lavoro sul campo si trova ad assumere una forma “reticolare”, richiedendo un’indagine delle “comunità sparse” tanto nel paese d’origine quanto in quello di approdo. L’inchiesta, però, sottolineano i due studiosi, non può ridursi a descrizione di quanto osservato sul campo: «essa non può fare a meno di prospettare fenomeni che la determinano dall’esterno, spesso studiati da altri specialisti: geografi, demografi, storici, linguisti, psicologi…» (p. 98)

A proposito della fase di lettura, Augé e Collyn ricordano come l’antropologo si trovi a tentare di comprendere l’universo sociale di una cultura che non consce e di come, a tal fine, debba confrontare quanto osservato sul campo con con il sapere accumulato dalla letteratura circa altre forme sociali presenti nel tempo e nello spazio evitando così di piegare l’esperienza diretta a quanto già conosce e allo stesso tempo di trarre stimolo dalle sue conoscenze. Ciò differenzia il campo dal reportage.

Attraverso la letteratura il ricercatore può dialogare con autori di epoche e culture diverse in modo da evitare di essere del tutto determinato dalle condizioni storiche in cui vive. I classici dell’antropologia, pur con tutti i limiti storico-culturali, mantengono elementi di utilità e di attualità. Tali ricerche necessitano di essere lette alla luce dei contesti culturali in cui sono state prodotte cercando in esse quanto resta di utilizzabile alla luce delle attuali conoscenze.

Circa la fase di scrittura è ovviamente necessario che l’antropologo si interroghi a proposito del linguaggio che intende utilizzare e, salvo rare eccezioni, è soltanto dall’inizio degli anni Ottanta che le modalità espositive sono state realmente problematizzate. «Ogni stile postula una teoria (una concezione generale di ciò che si discute), una tradizione intellettuale (la “letteratura”) e un impegno etico (non giudicare, ma capire)». (p. 104)

Da qualche tempo si tende a concedere maggior spazio a “voci altre” rispetto a quella del ricercatore: voci d’archivio, di interlocutori sul campo, di altre discipline, di narratori e così via. Il ricorso da parte di alcuni antropologi agli audiovisivi impone una particolare attenzione al fine disciogliere la mediazione di tali strumenti nella restituzione; che si abbia a che fare con la scrittura o con gli audiovisivi si tratta sempre di “discorsi costruiti”.

Se l’antropologia classica (1920-1975) aveva il suo genere preferito nella monografia, che si propone come ricerca esaustiva di una società localizzata, successivamente è stato preferito il saggio che, nel suo proporre un punto di vista argomentato, tenta di confrontare il locale con una realtà più allargata nello spazio e nel tempo. L’antropologia contemporanea ha dovuto anche prendere atto che i soggetti indagati sono spesso a loro volta lettori dei risultati ottenuti dal ricercatore e non mancano di discuterei e criticarli.

L’antropologia e la sociologia contemporanee operano nella convinzione che l’attualità si è fatta caotica e con l’implosione delle grandi narrazioni tutto tende ad essere visto sotto la lente del dubbio.

Dire che ogni testo è una costruzione è un’ovvietà, affermare che un testo di scienze umane è una finzione, in quanto non può pretendere di arrivare a una verifica definitiva, è un abuso di linguaggio o un espediente retorico. É bene infatti distinguere con cura tra finzione, errore, menzogna, falso, argomento ideologico, modello, ipotesi… (pp. 110-111)

L’idea soggiacente all’antropologia coloniale votata alla classificazione etnica, secondo i due studiosi, ha preannunciato il comunitarismo contemporaneo.

In entrambi i casi si trattati sottrarre una “società” dal suo ambiente storico, di preservarla dall’insieme che la contiene, lo Stato […] In Europa, se oggi si sviluppa uno spirito comunitario, ciò è dovuto a un indebolimento del potere di integrazione dello Stato e alla malintesa volgarizzazione di un’antropologia dilettantesca venata di moralismo. In questa ideologia, è la celebrazione delle differenze culturali che funge da a priori, non la comprensione dei meccanismi che stanno alla base della struttura identitaria e quindi delle alterità. I movimenti identitari non chiedono all’antropologo un giudizio morale. Esistono, e bisogna cercare di spiegarli, quindi di capirli (pp. 115-116).

Non sorprende, affermano Augé e Colleyn, che

le persone si raggruppino, adattino la propria cultura alle sfide del momento, sfruttino creativamente il proprio passato per cercare di trovare il proprio posto e di trarne qualche vantaggio. L’antropologo può deostruire queste ideologie, mettendo in luce come tutte le forme dell’esclusivismo – razziali, etniche, classiste, religiose, sessuali – siano falsamente presentate come qualità essenziali, ma deve anche fare opera di storico per studiare le condizioni che le hanno fatte emergere (p. 116).

Negli anni Ottanta si è iniziato a parlare di “antropologia indigena” a proposito delle ricerche svolte da appartenenti a “gruppi minoritari”: chi è stato a lungo oggetto di studio inizia a produrre a sua volta ricerche. Se deve essere accolto positivamente il fatto che l’Occidente divenga oggetto di studio da parte di chi “non ne fa parte”, non si deve però perdere di vista l’asimmetria tra le possibilità offerte a tale tipo di ricerca rispetto a quelle di cui dispone la ricerca occidentale.

Nel libro viene sottolineato come le località in cui sia individuabile un’autentica autoctonia siano restate davvero poche e di come sia ormai convinzione diffusa tra gli studiosi che l’etnicità sia

una una relazione più che una proprietà di un gruppo, che l’economia di mercato e le istituzioni statali consono incompatibili con strutture di lignaggio, che un movimento di guerriglia può ricorrere alla trance di possessione, che gli scambi “globali”, sotto forma di traffici di ogni genere, di migrazioni, di trasferimenti di beni su lunghe distanze e di lunga durata, non sono cominciati con l’invenzione della macchina a vapore (p. 125)

L’antropologa contemporanea non ha come obiettivi la ricerca di “paradisi perduti” o l’individuazione di modalità di “resistenza all’occidentalizzazione”. Non si tratta di scoprire gruppi sino ad ora sconosciuti o di completare la mappatura culturale del globo; l’antropologia, sostengono Augé e Colleyn, dovrebbe piuttosto preoccuparsi di «proporre un’analisi critica delle modalità di espressione culturale nel contesto storico che dà loro un senso» (p. 125).

L’antropologia, così come la sociologia, dovrebbe anche riflettere sulla deriva individualista della società contemporanea tenendo conto dell’enorme impatto dei mezzi di comunicazione e dell’indebolimento delle istituzioni tradizionali che storicamente assicuravano i legami sociali.