di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria, Elèuthera, Milano, 2018, pp. 328, € 18,00

«E se credente ora / che tutto sia come prima / perché avete votato ancora / la sicurezza, la disciplina, / convinti di allontanare / la paura di cambiare / verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti, / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» (Fabrizio De André)

«Quando noi diciamo no al manicomio, diciamo no alla miseria del mondo» (Franco Basaglia)

Come fa notare Pier Aldo Rovatti nella prefazione, “libertà”, “rivoluzionario”, “radicale” e “iatrogeno” sono le parole chiave attorno alle quali ruota l’intero discorso portato avanti da Cipriano nel suo ultimo libro “di denuncia” e “di battaglia”, ricorrendo nuovamente alle parole di Rovatti.

Tanto per essere chiari sin dall’inizio: nel suo nuovo libro Cipriano non si limita, in odor di ricorrenze, a rendere il giusto merito a Franco Basaglia per quel che ha saputo fare ma intende anche denunciare quel che è successo dopo-Basaglia e, soprattutto, portare avanti una battaglia di libertà qui ed ora. Non è tipo da semplici e comode commemorazioni il nostro “psichiatra riluttante”.

Fatta questa premessa veniamo al libro, anzi, a dire il vero si tratta di due libri in uno. La prima parte del volume è dedicata a una breve storia della follia e dell’anti-follia, cioè di quella che da poco più di due secoli si chiama psichiatria. Si badi bene, precisa Cipriano sin da subito, riprendendo Basaglia, che quando si parla di storia della psichiatria si parla sostanzialmente di psichiatri, di diagnosi, di terapie e di repressione e non delle storie di chi l’ha subita. La seconda parte del volume concede invece la parola ad alcuni compagni di viaggio con cui costruire un immaginario e pratiche capaci di portare ad una “nuova 180”.

In apertura la ricostruzione della storia della follia e dell’anti-follia prende il via, come suggerito dalla Storia della follia scritta da Michel Foucault, da un editto francese del Seicento che prescrive l’ammasso presso il Grand Hôpital Géneral parigino di tutti i devianti: «Dai mentecatti ai libertini, alle donne di facili costumi, agli alcolizzati». Un secolo dopo Philippe Pinel «separa i fuori di testa dai fuori di legge». Da una parte i rei, dall’altra i folli. Chi deve scontare una pena da una parte, chi deve sostenere una cura dall’altra. Il carcere per gli uni, l’ospedale psichiatrico per gli altri. Poi si cimenteranno sui folli gli asportatori di brandelli di cervello, gli inoculatori di malaria e i dispensatori di scariche elettriche sino all’arrivo degli spacciatori di psicofarmaci e dei prestigiatori semantici: gli psichiatri. È lungo questo percorso che si arriva ad incastrare a vita una persona: attraverso una diagnosi e una molecola.

Eccoci allora a Basaglia, cioè a colui che negli anni Sessanta del Novecento trova la forza, il coraggio e l’umanità per fare quello che né i padri nobili della psichiatria psicodinamica (Freud, Joung, Adler e Janet), né i fenomenologi (Jaspers, Minkowski, Binswanger ecc.) hanno mai fatto: «mettere in discussione il mezzo con cui la psichiatria opera: il manicomio, ovvero la malattia istituzionale, la iatrogenesi di cui lo psichiatra è responsabile» (p. 20). Ed è proprio a Basaglia che è dedicato il secondo capitolo del libro, ossia a colui che può essere considerato sia politicamente che scientificamente un rivoluzionario. È grazie a persone come lui che viene messo in crisi il paradigma scientifico secondo cui il manicomio è terapeutico. In realtà la distruzione del manicomio è la condizione necessaria affinché si possano porre le basi per una psichiatria terapeutica e non repressiva.

Rispetto ad altre pratiche alternative, secondo Cipriano, l’originalità dell’esperienza goriziana consisterebbe nell’inversione di ruoli: «il vero direttore è diventato il malato». In una relazione del 1964 passata alla storia, così Basaglia stesso riassume le tappe della sua rivoluzione copernicana: 1. Introduzione dei farmaci, grazie ai quali è possibile eliminare le contenzioni; 2. Rieducazione umana del personale; 3. Riannodamento dei legami con l’esterno; 4. Abbattimento delle barriere fisiche: reti e grate; 5. Apertura delle porte; 6. Creazione di un ospedale diurno; 7. Organizzare la vita dell’ospedale secondo lo stile di una comunità terapeutica. Insomma una guerra aperta tra «il principio di libertà» e il «principio di autorità». In concreto, sottolinea Cipriano, nel settimo punto basagliano occorre leggere la necessità che la vita comunitaria diventi assembleare.

Ad inizio anni Sessanta escono diversi libri poi rivelatisi importanti punti di rifermento per il gruppo basagliano nella battaglia contro i manicomi: Storia della follia (1961) di Michel Foucault, Asylums (1961) di Erving Goffman, I dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, Il mito della malattia mentale (1961) di Thomas Szasz; L’io diviso (1961) di Ronald Laing.
Con l’intento di far conoscere quanto si sta sperimentando a Gorizia, sul finire del decennio viene fatto uscire il libro corale L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico (1968) nel quale Basaglia pubblica un contributo intitolato Le istituzioni della violenza in cui sostanzialmente muove una critica a trecentosessanta gradi nei confronti di tutte le istituzioni fondate sulla rigida distinzione di piani: famiglia, carcere, ospedale, università, fabbrica, scuola… Già in questo suo intervento, sostiene Cipriano, emerge

la figura dell’intellettuale non più universale – quello che restandosene fuori dal mondo non solo engagé, à la Sartre, non solo organico, à la Gramsci, ma l’intellettuale tecnico di un sapere pratico che si immerge nelle istituzioni per cambiarle, o per distruggerle: quello che Rovatti definisce intellettuale riluttante. Ecco, Basaglia e i goriziani sono stati gli antesignani di questo nuovo tipo di intellettuale calato nelle istituzioni (p. 62).

Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge 180. Quella che ancora oggi, tanto dai detrattori, quanto dagli entusiasti, viene indicata come una svolta radicale in senso libertario a proposito di sofferenza mentale, all’epoca viene percepita dal gruppo di Basaglia come un compromesso se non, in qualche modo, una sconfitta. In particolare a suscitare perplessità sono il Trattamento Sanitario Obbligatorio e l’apertura di piccoli reparti psichiatrici negli ospedali. È pur vero che quella Legge 180 (successivamente assorbita all’interno della Legge 833 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale), o legge Basaglia (anche se nei fatti non è di certo sua la stesura), scrive Cipriano, forse rappresenta il massimo ammesso da quel contesto storico-culturale; una riforma più radicale avrebbe necessitato di una società più avanzata rispetto a quella dell’epoca.
Nel volume ci si sofferma anche su Le conferenze brasiliane da cui, secondo Cipriano, emerge quanto

Basaglia non sia stato rivoluzionario perché ha fatto la comunità terapeutica a Gorizia, che pure è stata una bomba che poi ha portato a Trieste e che gli altri goriziani esodati hanno portato in altri manicomi per deflagrarli, e neppure sia stato un rivoluzionario perché ha ispirato la scrittura della legge che li ha messi fuori legge, questi luoghi atavici, la sensazione è che davvero rivoluzionario Basaglia lo sia diventato da quel momento in poi. Come Che Guevara che cerca la Bolivia perché non si accontenta di ciò che ha fatto, come un Fanon che cerca la rivoluzione fuori dal manicomio, lui pure sembra cercare un terreno rivoluzionario e va in Brasile a coinvolgere i tecnici psi, e non solo, l’intero popolo brasiliano. (p. 82)

Basaglia, continua Cipriano, era un rivoluzionario anche sul piano politico «apolide e apartitco, probabilmente a suo modo anarchico. Inviso al PCI per la sua troppa carica libertaria […] Inviso all’Università, all’establishment, ai direttori di manicomio e ai manicomiali a cui toglie il potere dalle mani. Inviso per per la sua capacità pragmatica di portare fino in fondo questo suo impegno di uccidere il manicomio» (p. 85). Inviso pure, si badi bene, anche a tutti quegli “antipsichatri” che amavano scagliarsi contro il manicomio più a parole che con i fatti.
Anche sul farmaco la posizione di Basaglia è chiara. Non si tratta tanto di dirsi a sfavore di tutti i farmaci sempre e comunque; si tratta di vedere l’utilizzo che ne viene fatto e la finalità con cui li si somministra:

Noi dobbiamo dire che usiamo i farmaci, Ma cosa significa usarli? Normalizzare mentre stiamo facendo un discorso di liberazione? A me pare che dobbiamo riconoscere che la scoperta di alcune sostanze i grado di diminuire l’aggressività di una persona sia un fatto di lotta contro la natura, e questo discorso non mi scandalizza, perché questi prodotti offrono, ad alcune persone, una possibilità alternativa di esistenza, una contrattualità con l’altro, la possibilità di un rapporto. In realtà il farmaco ha una doppia faccia: terapeutica da un lato, e quindi strumento di liberazione, cronicizzante dall’altra, e quindi elemento di repressione. (Basaglia, Conferenze brasiliane – riportato a p. 86)

Nel terzo capitolo viene ricostruito il dopo Basaglia e qua Cipriano ripercorre lo sviluppo della cura mentale degli ultimi decenni riprendendo quanto approfondito nei suoi saggi precedenti: La fabbrica della cura mentale (2013), Il manicomio chimico (2015) e La società dei devianti (2016). Se aprire i manicomi e liberare i reclusi è stata una lunga e dura battaglia, molto più ardua pare la battaglia per aprire i “nuovi manicomi”:

Aprire il DSM, inteso come Manuale Diagnostico e Statistico, e liberare le persone dalle etichette diagnostiche e del farmaco che pressoché inevitabilmente consegue all’etichetta […] Le due cose, i due manicomi moderni, se così vogliamo definirli, etichette e farmaci, che ne creano uno davvero difficile da aggredire, sono a tal punto embricati che è, e sarà sempre più difficile, distinguere la follia dal suo doppio, il disturbo psichico essenziale dal suo doppio, da tutto ciò che sembra disagio psichico e invece è iatrogenia (p. 119).

Nel libro vengono dunque ricostruite le tappe che hanno portato alla deriva farmacologica della psichiatria ed il ruolo assunto dalla diagnosi, ormai piegata totalmente a una logica che considera malattia qualsiasi disagio psichico. Tutti noi possiamo divenire pazienti psichiatrici: basta manifestare uno stato emotivo forte per vedersi prescritto uno psicofarmaco che, non di rado, diviene responsabile di un nuovo disagio che a sua volta richiede nuovi psicofarmaci in una spirale totalmente illogica se non per le industrie farmaceutiche che si assicurano così un paziente-cliente per lungo tempo, se non a vita.

Il quarto capitolo è dedicato alla necessità di una nuova 180 e al panottico digitale che sembra ormai fare capolino. Sul finire del 2017 i senatori Nerina Dirindin e Luigi Manconi hanno presentato un disegno di legge dal titolo Disposizioni in materia di tutela della salute mentale volte all’attuazione e allo sviluppo dei principi di cui alla legge 13 maggio 1978, n. 180. Si tratta, sostiene Cipriano, di una sorta di 180 bis e se la 180 è derivata dalla battaglia di Basaglia, gli ispiratori di questa 180 bis si possono individuare in Franco Rotelli e Peppe Dell’Acqua. Tale proposta di legge intende intervenire su alcuni aspetti su cui la 180, in quanto legge quadro, non ha dato indicazioni attuative. Si tratta di una «legge-che-ribadisce», che intende far applicare una legge stesa sul finire degli anni ’70 e restata in parte inapplicata. Nel frattempo, però, l’istituzione manicomiale ha assunto nuove e molteplici forme che necessitano di essere messe in discussione.

Viviamo in una società caratterizzata da un nuovo panottico: il web in cui quotidianamente immettiamo informazioni su noi stessi, offriamo la nostra identità permettendo, se non chiedendo, ad altri di “tenerci d’occhio”, di “valutarci” e noi stessi finiamo a nostra volta, sentendoci gratificati da questo, per essere controllori e valutatori. Si tratta di un nuovo manicomio, un manicomio di tipo digitale che però si intreccia facilmente con quello concentrazionario, con quello chimico e quello diagnostico.

Un esempio del manicomio che ci aspetta Cipriano lo individua nell’inquietante progetto Proteus Digital Health a cui sta lavorando la Food and Drug Administration americana.

Il farmaco che deve essere immesso nel corpo di chi ne ha bisogno è l’antipsicotico ora più in auge, l’ultima molecola ritenuta antidoto alla psicosi: l’aripiprazolo commercializzato come Abilify. Tra i più costosi, si capisce. Proteus sarebbe in grado di inserire un sensore attaccato alla compressa, un sensore ingeribile quindi, che comunica con un altro sensore posto su un cerotto computerizzato indossato dal paziente o inserito sottopelle, di modo che il medico prescrittore dal suo tablet possa controllare l’intero percorso de farmaco, dall’ingestione all’assorbimento. Questo perché? Per contrastare la riluttanza delle persone con disturbo psichico ad assumere gli antipsicotici – scarsa compliance, viene definita – o l’assunzione a dosaggi inferiori alla prescrizione. Questo partendo dall’assunto – non provato – che non prendere antipsicotici inevitabilmente porti a ricadute (p. 166)

Per prospettare dove ci potrebbero portare sperimentazioni come Proteus, Cipriano prende spunto da un episodio della serie Balck Mirror intitolato Arkangel in cui si narra dell’impianto di un microchip nel cervello di una bambina in modo che la madre possa monitorarla costantemente intervenendo a distanza, attraverso un un tablet, per censurare agli occhi della figlia tutto ciò che potrebbe urtare la sua serenità. Così la figlia finisce per vivere in una sorta di realtà virtuale pilotata dal genitore attraverso il microchip Arkangel.

Arkangel è ciò che Protus potrebbe fare tra qualche anno. Un meccanismo per cui tutto accade per via digitale. Lo psichiatra fa la diagnosi. Prescrive. Il chip controlla. Il paziente non può più trasgredire. Questo è un mondo futuro, dove il cittadino modello è una sorta di androide, l’androide descritto immaginato narrato da Philip K. Dick, il cittadino modello dei regimi totalitari. Vivremo in una democrazia in ci tuttavia, come scrive Han, “la libertà sarà stata un episodio”. Una democrazia neoliberale sotto il segno del like. Si immagini un collegamento tra il sistema Proteus che monitora l’assunzione del farmaco e il profilo Facebook […] della persona stessa. Prendere il farmaco premiato dal like, non prenderlo sanzionato dal dislike. Essere puntuali nell’assunzione premiato da decine di love, o haha, o wow, disattendere l’assunzione sanzionato da sigh o peggio da grr […] sembra un po’ ridicolo a scriverlo, tutto ciò, eppure lo stiamo già facendo […] una semplificazione lessicale ed emotiva che rassomiglia alla neolingua immaginata da Orwell in 1984, la semplificata neolinuga […] funzionale a semplificare il pensiero (pp. 169-170)

Eccoci di fronte ad un immenso panottico che determina una sorveglianza reciproca. Occorre forse iniziare a pensare davvero a come uscire da questa manicomio diffuso entro cui ormai siamo tutti rinchiusi. E qua si entra nella seconda parte del volume. Una volta tratteggiata la storia della psichiatria, ora l’autore tenta di rispondere ad alcuni interrogativi:

ma chi sono, oggi, i nuovi operatori della salute mentale, gli intellettuali riluttanti, gli inventori di nuove pratiche di salute mentale? E che cosa pensano? Cosa ne pensano, soprattutto, di questa storia della psichiatria e cosa pensano del fatto che con gli studi e i diplomi e le patenti che hanno conseguito hanno scelto di calarsi, di sono calati, si stanno calando, stanno entrando in questa sotiria? Cosa pensano di fare? Come pensano di cambiarlo il corso di questa storia della psichiatria? (pp. 198-199)

Dunque il libro si apre alla coralità, la parola viene in qualche modo lasciata alle tante voci che possono contribuire alla messa in discussione delle vecchie e nuove forme manicomiali e ad un ripensamento delle modalità con cui affrontare la sofferenza mentale. Qua inizia un lungo viaggio in cui ci si imbatte in quelli che l’autore definisce rispettivamente gli “inventori”, gli “impazienti” e i “narratori”. A loro viene data la parola.

Tra coloro che cercano nuove strade per affrontare il disagio mentale, tra gli inventori di nuove pratiche di salute mentale, ci imbattiamo: in uno psicologo che allo studio preferisce l’orto ove lavora con migranti e disabili psichici; in una filosofa che ha operato in un day-hospital senza essere né medico né psicologo scoprendo che i tecnici, con le loro pratiche, si rivelano per lo più incapaci di relazionarsi con le persone; in un infermiere testardamente contrario alle fasce ed all’elettrochoc e in diversi altri operatori non convenzionali.

Poi, dopo gli inventori, la parola passa agli impazienti, agli esigenti, a quelli

dall’altra parte del muro di vetro che divide i sani di testa dai disturbati di testa, quelli che chiamano i pazienti, ma sono sempre meno pazienti, si sono fatti esigenti ed è giusto giustissimo che siano esigenti, c’è chi li chiama ancora utenti, ma non mi piace utente, malato mi piace ancora meno […] c’è chi li chiama ancora matti, chi folli, folle per esempio è bello, teste pieno di vento e di sogni, è un modo romantico ancora di raccontare la sragione, oppure chi li chiama semplicemente vittime della psichiatrica. E quanti di loro vogliono un soccorso. Un rapporto. E non gli piace di essere trattati così, oggettificati cosificati reificati, un numero, io sono una storia non un numero (p. 198)

Infine, nello spazio di mezzo, tra chi non è né malato né terapeuta, Cipriano ci porta tra narratori come Paolo Virzì, Nicola Lagioia, Silvano Agosti e Pierpaolo Capovilla, tra

quelli della società che suole dirsi civile, che sono capaci di pensare e di raccontare, con la propria arte, il mondo della follia e dell’anti-follia, quelli che sono artisti, sono narratori, sono registi, sono poeti, sono attori, sono musicisti, sono cantanti (p. 198)

Ed a proposito di narratori, il volume si conclude con un’intervista impossibile, con Basaglia che incontra Bolaño e con Cipriano che, di nascosto, prende nota.

Terminata la lettura di questo libro “di denuncia” e “di battaglia” ci rende conto come all’interno del manicomio diffuso contemporaneo si passi con estrema facilità dal ruolo di vittime a quello di carnefici.  Quella che continua a portare avanti testardamente Cipriano è una battaglia di libertà che ci tocca davvero tutti e tutte.


A proposito del libro Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018) si veda su Carmilla: Il libro delle metamorfosi – Intervista a Piero Cipriano