di Gioacchino Toni

Al botto di Wall Street l’America arriva di corsa e con i paraocchi, tanto che, soltanto pochi mesi prima Herbert Hoover, durante il Congresso repubblicano, vaneggia sull’avvicinarsi del paese, con l’immancabile aiuto di Dio, al trionfo sulla povertà. Negli anni Venti una parte rilevante dell’America che pende dalle labbra di Henry Ford, ama raccontarsi di un procedere a tutto gas, a braccetto con l’industria dell’automobile, verso una crescita illimitata dei consumi. Sono gli anni in cui si celebra l’eroe Charles Lindbergh, capace, grazie ai prodigi della tecnologia, di volare in solitaria oltre oceano ed il mito del self-made man pare non aver perso il suo potere seduttivo. Il successo individuale, il benessere economico e la celebrità vengono raccontati ancora come alla portata di tutti.

Gli anni Venti sono però anche il decennio in cui il mito sbandierato ai piedi della Statua della Libertà, che vuole l’America capace di concedere la felicità anche ai poveri immigrati che mettono piede nel paese, viene oscurato da una serie di leggi che sanciscono la necessità di ridurre sempre di più la ricezione di stranieri. Al timore per il comunismo si aggiunge dunque quello per lo straniero, come ricorda emblematicamente la storia di Sacco e Vanzetti spediti sulla sedia elettrica nell’estate del 1927. La costruzione di un immaginario capace di arginare le sirene della rivolta sociale diviene indispensabile; all’utopia del socialismo si risponde con l’utopia di una prosperità economica alle porte capace di portare ricchezza e felicità nelle case di tutti.

Nel 1929, pochi mesi prima del crack di Wall Street, esce nei cinema americani Big Business (Grandi affari, 1929) di James W. Horne, opera che congeda Stan Laurel e Oliver Hardy dalla gloriosa stagione della slapstick comedy e, allo stesso tempo, rappresenta il preludio a quella che sarà la loro altrettanto importante produzione sonora. É a questo indimenticabile film che Gabriele Gimmelli dedica il saggio Grandi affari, (Big Business, James W. Horne, 1929) Laurel & Hardy e l’invenzione della lentezza, (Mimesis, 2017).

Oltre che come opera liminale tra le gag mute e la fase sonora delle produzioni della celebre coppia, il film viene analizzato dallo studioso come «uno degli esempi più alti di un tratto specifico della comicità di Laurel e Hardy. La coppia porta infatti nella slapstick comedy dei ritmi nuovi, basati più sull’attesa e la durata che sull’azione e la sorpresa. È quello che si suole chiamare slow burn, alla lettera “combustione lenta”: la distruzione condotta con rigore e metodo, ma lentamente, senza fretta alcuna. Una “invenzione della lentezza”, che rimane il lascito più importante dei due attori al cinema comico americano (e non solo)» (p. 8).

Big Business è però anche un film politico, visto che in una ventina di minuti, sostiene Gimmelli, «riesce a condensare, con spietata efficacia e senza alcun didascalismo, paure e nevrosi più o meno occulte della piccola borghesia americana, colta nel passaggio dagli euforici anni Venti del Novecento ai ben più cupi anni Trenta» (p. 8). Del cittadino medio americano dell’epoca Laurel e Hardy mettono in scena quanto ha di più caro: la casa e l’automobile. «E così facendo, scardinano al tempo stesso la narrazione hollywoodiana classica, che dell’ideologia borghese si fa portatrice, facendola collassare fragorosamente sotto il lento stillicidio delle loro gag» (pp. 8-9).

La storia narrata dalla pellicola è di per sé semplice: due piazzisti attraversano su una vecchia Ford, nel dicembre del 1928, i sobborghi di Los Angeles, tentando, maldestramente, di vendere alberi natalizi porta a porta… fino a quando si innesca uno scontro con un potenziale cliente che conduce inevitabilmente al disastro annunciato.

Fino al termine degli anni Venti la forma di comicità prevalente nella cinematografia statunitense è quella del genere slapstick che spesso mette in scena un’integrazione fallita attraverso il racconto delle peripezie di un individuo solitario incapace di adattarsi alla società in cui vive. Le produzioni a cavallo tra la fine degli anni Dieci e l’inizio del decennio successivo sono sostanzialmente in mano alla Keystone Pictures, che produce cortometraggi comici che narrano di «un’America ancora sospesa fra arcaismo e modernità, fra città e campagna. Quasi a voler rispecchiare la vertiginosa evoluzione della società, l’azione regna sovrana nelle comiche [del regista e produttore Mack Sennett]. Non è un caso che proprio l’automobile assurga ben presto a oggetto-simbolo della commedia di quegli anni» (pp. 23-24).

Tra i divi del comico dell’epoca, Buster Keaton è sicuramente colui che più di ogni altro ha assegnato ai congegni meccanici un ruolo centrale. Nel corso degli anni Venti, nei film, alle macchine si aggiunge anche un paesaggio metropolitano costellato da grattacieli e a questi edifici si legano in particolare le gag di Harold Lloyd che lo vedono, dopo mille peripezie capaci di tenere il pubblico col fiato in sospeso, giungere all’happy ending. «Il ragazzo qualunque che, grazie alla buona volontà, al coraggio e a un pizzico di fortuna riesce a raggiungere le vette non solo metaforiche del successo appare perfettamente in linea con la sensibilità dell’epoca» (p. 26). Charlie Chaplin, invece, alla vita metropolitana della West Coast e alla cronaca preferisce i sobborghi del Vecchio Mondo, i silenzi del Grande Nord e la letteratura d’appendice ottocentesca.

L’arrivo del parlato, agli sgoccioli degli anni Venti, comporta una trasformazione del cinema a cui le tre star del comico rispondono diversamente: Chaplin tende a ripiegare su un cinema introspettivo che indaga il ruolo dell’attore e il suo rapporto col pubblico, mentre Keaton e Lloyd si congedano rispettivamente con un film ricco di citazioni cinematografiche e polemico nei confronti delle Majors, il primo, e con una pellicola incentrata sul tentativo di salvare dal ritiro l’ultimo tram a cavalli di New York, il secondo, probabilmente «una metaforica rivincita dell’ormai obsoleto cinema muto nei confronti del sonoro» (p. 28).

Quando ormai il vecchio modo di fare film pare destinato all’estinzione, sembra resistere ancora per qualche tempo il produttore Hal Roach che, attorno alla metà degli anni Venti, intreccia la sua strada con quelle dell’inglese Stan Laurel (Arthur Stanley Jefferson) e dell’americano Oliver Hardy. Se i due attori indossano per la prima volta “la divisa”, che li avrebbe poi resi celebri, nel 1927, è soltanto nell’anno successivo che i caratteri salienti della coppia cominciano a delinearsi in modo più chiaro: «una peculiare tendenza alla catastrofe, orchestrata però secondo ritmi che non sono più quelli di Sennett e dei suoi epigoni, ma nemmeno quelli di Keaton e Lloyd», che getta così «le basi del procedimento comico noto come slow burn. L’espressione – che si può tradurre con “lenta combustione”, “a fuoco lento” – ha in area anglofona un significato piuttosto ampio. Può descrivere infatti sia una reazione graduale e meditata a un’azione comica (si pensi agli sconsolati sguardi in macchina di Hardy); sia l’azione distruttiva di un personaggio ai danni di un oggetto o di un altro personaggio, che monta piano piano verso un’esplosione di violenza incontrollata. Per questa seconda accezione, alcuni studiosi di Laurel e Hardy utilizzano spesso un sinonimo più preciso: reciprocal destruction (distruzione reciproca). In entrambi i casi, comunque, l’elemento costante è il tempo dell’azione, che nelle mani dei due comici rallenta, si dilata come mai era accaduto prima di allora» (pp. 39-40).

Nel ricostruire le vicende produttive di Big Business, Gimmelli sottolinea come sia Stan Laurel a seguire l’intero processo di realizzazione del film e come l’attore imponga immagini luminose e lunghe inquadrature con pochi primi piani per avvicinarsi all’esperienza della recitazione dal vivo. Laurel insiste anche per l’inusuale e antieconomico metodo di filmare le scene rispettando l’ordine con cui sarebbero poi state montate. La pellicola viene girata nel corso della settimana di Natale del 1928 con riprese effettuate interamente in esterni.

Gli Studi Roach rappresentano negli anni Venti un’anomalia rispetto al cinema ormai avviato verso il dominio dello Studio System e il produttore tenta di differenziarsi sia dalle opere tradizionali sia dalle modalità produttive delle Major. Caratteristici delle produzioni Roach di metà anni Venti sono quei rallentamenti delle reazioni dei protagonisti tra una gag e l’altra capaci di prolungarne notevolmente l’effetto comico. Ciò avviene anche per quella “distruzione reciproca” portata ai massimi livelli proprio da Laurel e Hardy sul finire del decennio.

Roach capisce che i tempi stanno mutando e non solo per le opere comiche. Petr Král (Stan et Ollie, ou l’Unique et son double in Id., Les Burlesques ou Parade des Somnambules, 1986) giunge a sostenere che tale stile lento corrisponde ad un periodo in cui le cose sembrano rallentare, una sorta di “fine della festa” che caratterizza la crisi della fine degli anni Venti e alla frenesia del decennio che si sta chiudendo sembra sostituirsi una ricerca di stabilità. «L’invenzione della lentezza da parte di Laurel e Hardy (con l’appoggio creativo-produttivo di McCarey e Roach) appare quindi legata al mutamento generale dello stile di vita statunitense sulla soglia degli anni Trenta. La “fine della festa” a cui Král fa riferimento si riflette con una certa evidenza nell’estetica dei film della coppia, Big Business incluso» (pp. 53-54).

I luoghi topici della slapstick comedy rimangono in secondo piano nel film di Laurel e Hardy. Se l’ambiente in cui si svolge il film è ancora lo spazio urbano, rispetto alla tradizionale slapstick comedy, la grande città scompare e le sue strade risultano tutt’altro che brulicanti di vita: la vicenda si concentra su un microcosmo riconducibile ad un sobborgo residenziale. «L’impressione è che in questo film, come in molti altri del duo, gli esterni vogliano restituire una sensazione di chiusura» (pp. 54-55).

Per quanto riguarda l’automobile che, insieme all’abitazione, rappresenta il simbolo della commedia degli anni Venti, Gimmelli sottolinea che per quanto nel film la coppia si sposti a bordo di una Ford T pickup, prototipo dell’auto di massa, il mezzo non viene pienamente sfruttato. «L’auto di Laurel e Hardy, quindi, è ormai soltanto un oggetto ingombrante, scomodo da mettere in moto e destinato a compiere percorsi limitatissimi» (p. 56).

L’insistenza e la meticolosità con cui il film si dilunga sulla coppia nell’atto di mettere in moto l’automobile per poi partire appaiono del tutto sproporzionate rispetto alla rilevanza dell’azione compiuta. Si indugia su particolari che sarebbero risultati del tutto superflui per un cortometraggio slapstick di solo qualche anno prima, soprattutto se la scena è incentrata su un’automobile emblema del dinamismo. Certo, nella slapstick comedy tradizionale non mancano distruzioni di autoveicoli ma ciò avviene solitamente a causa di incidenti dettati dalla frenesia metropolitana. In Big Business, invece, «la modernità e la sua frenesia sono già assimilate e lontane nel tempo, mentre all’orizzonte si va profilando la recessione economica. All’azione sregolata e spesso precipitosa della tradizione slapstick, Laurel e Hardy oppongono dunque una sorta di teatrino della crudeltà [i due] non intendono travolgere lo spettatore con una serie di shock visivi: preferiscono invece accompagnarlo, un passo alla volta, verso un destino altrettanto funesto, ma comunque inevitabile» (p. 58).

Dopo alcuni rifiuti da parte di abitanti del quartiere, all’ennesimo tentativo di vendere un albero natalizio prende il via una serie di gag che vede rami e lembi di cappotto restare incidentalmente incastrati nella porta del maldisposto abitante. Certo, la gag dell’abito incastrato in una porta non è nuova per il genere, ma la novità sta piuttosto nella ripetizione insistita dell’azione maldestra e ciò rappresenta una svolta imposta dalla coppia di comici alla slapstick comedy.

Una parte del volume è dedicata alla coppia Laurel e Hardy. In tale sezione vengono ripresi gli studi di Noël Burch (La lucarne de l’infini, 1991) – a proposito del cosiddetto “piano emblematico” con cui vengono presentati di due all’inizio del film -, di Stefano Brugnolo (Strane coppie, 2013) – che indaga come i due personaggi “diversi ma simili” facciano vacillare il principio d’identità a livello di logica, funzioni e ruoli -, di Roland Lacourbe (Laurel et Hardy, 1975) – che si sofferma sul ribellismo individuale e di coppia nei diversi film -, di Charles Barr (Laurel & Hardy, 1967) – sulla gestualità della coppia -, di Marco Giusti (Stan Laurel & Oliver Hardy, 1997), Stuart Kaminsky (Generi cinematografici americani, 1985) e Gilles Deleuze (Cinéma 1. L’Image-mouvement, 1983) – sulle peculiarità dei due personaggi.

Venendo al contesto in cui agisce la coppia, il saggio mette in risalto come l’universo sia molto diverso tanto da quello chapliniano abitato da poveri e poliziotti, quanto da quello keatoniano che ha come contesto l’attiva borghesia dell’epoca. In Big Business viene messa in scena una società che faticosamente ha raggiunto un certo livello di benessere e che, terrorizzata dall’idea di perdere tutto, è disposta a difendere le conquiste ottenute con ogni mezzo necessario. «Colui che in Big Business è chiamato a incarnare tutto questo è James Finlayson […] uno dei comprimari più assidui di Laurel e Hardy […] Maestro del double take, vale a dire di quella particolare reazione comica basata sulla risposta ritardata – sorpresa, spavento o stizza – a una situazione o a una gag inaspettate, in Big Business Finlayson fa ampio uso di una sua “creazione”, il fade away: una smorfia del volto con un occhio chiuso e l’altro strabuzzante, spesso utilizzata per accompagnare il double take, ma perfettamente autosufficiente, nonché particolarmente efficace nei rapidi duelli facciali con Laurel e Hardy, che “riempiono” di quando in quando le pause dello scontro» (p. 69).

Oltre alla mimica facciale Finlayson lavora sul crescendo dell’irritazione che si traduce in a una recitazione sempre più nevrotica e sguaiata che lo porta persino a danzare follemente sull’auto distrutta della coppia. «È come se a contatto con la strana coppia di piazzisti, l’aggressività e la follia represse degli everymen d’America trovassero il modo di emergere in tutta la loro violenza» (p. 72). Alle reazioni sempre più concitate di Finlayson fanno da contrappunto le azioni più misurate e lente di Laurel e Hardy che, come sottolinea Giusti, probabilmente si rendono conto che «la logica dell’occhio per occhio altro non è che “un rito, ripetibile, che fa parte dei rapporti ‘di mondo’ con la società”» (p. 72). Big Business è costruito attorno allo slow burn fra la coppia e l’antagonista; qui «si ha l’impressione che il consueto gioco al massacro raggiunga proporzioni colossali, arrivando ben presto a inghiottire ogni cosa: non soltanto lo spazio dell’azione, ridotto a un cumulo di macerie, ma addirittura […] la narrazione stessa» (p. 72).

Nonostante la vicenda sembri innescarsi all’improvviso a causa di un gesto maldestro, in realtà, sottolinea Gimmelli, tutto deriva da una serie di piccoli segnali disseminati nella parte iniziale del cortometraggio in cui si palesa l’incompatibilità e la conflittualità tra la coppia e il mondo circostante. Le sequenze e le inquadrature sono sapientemente calibrate per costruire il classico “rituale” che porta la coppia a confrontarsi con l’antagonista: «ciascun contendente attende con pazienza che l’altro abbia completato la sua mossa, dopodiché fa una rapida ricognizione dei danni subiti (oppure chiama il pubblico a testimone guardando in macchina) e soltanto a quel punto restituisce il colpo. Ovviamente l’energia distruttiva del trio è destinata a dilagare a macchia d’olio, a coinvolgere spazi sempre più ampi» (p. 77). I tempi d’attesa tra un’azione e la reazione si fanno però via via più rapidi fino a condurre ad un conflitto ormai incapace di rispettare i tempi alternati. In un crescendo vertiginoso le scaramucce lasciano il posto ad una violenza anarchica distruttiva capace di radere al suolo la casa e l’automobile, con i loro portati simbolici, e nulla può l’intervento dell’autorità in divisa.

Se il titolo sembra promettere grandi affari finanziari, «quello che lo spettatore si trova davanti è lo spettacolo di tre scalmanati che si fanno la guerra e che, per soprammercato, si ritrovano alla fine più poveri di quando avevano cominciato» (p. 83). Il cinema di Laurel ed Hardy può dunque essere letto come sovversivo per il suo mettere in scena una frustrazione, per certi versi, antiborghese e anti-hollywoodiana, culminante in un allontanamento dei due in fuga a passo di corsa – inseguiti dall’autorità in divisa irrisa dalla coppia – che, a differenza di quanto avviene nei film di Chaplin in cui il personaggio abbandona la scena scrollando le spalle a un mondo che lo esclude, promette di diffondere il caos altrove.

… a combustione lenta… il caos esploderà ovunque.