di Luca Cangianti

EssiVivonoIl Capitale di Marx è un romanzo fantahorror. All’origine dell’opera c’è infatti il tentativo di dimostrare, attraverso un lungo viaggio dialettico, che i fenomeni non spiegati dalle teorie economiche convenzionali sono conseguenze di una più profonda e invisibile realtà: “Ogni scienza sarebbe superflua”, ricorda il filosofo, “se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero” (Marx, 1981, III, 930).

Noël Carroll ha individuato due grandi insiemi nei quali far rientrare le trame fantahorror: quello delle narrazioni basate sul disvelamento di una realtà nascosta e quello connotato dalla tracotanza dello scienziato folle che si spinge verso le zone proibite del possibile. Come esempi di quest’ultimo gruppo possiamo ricordare: Frankenstein, Il dottor Jekyll e il signor Hyde, L’isola del dottor Moreau. Il Capitale, invece, mostra interessanti analogie con il primo tipo di struttura, che secondo Carroll si articola in quattro fasi: l’inizio, la scoperta, la conferma e il confronto (Carroll, 1990, 97 e sgg.).

Facciamo un esempio. Il film di John Carpenter Essi vivono (Usa, 1988) inizia con l’arrivo di John Nada in una Los Angeles devastata dalla crisi economica. Tutto sembra procedere nella calma più deprimente se non fosse per una serie di strani messaggi pirata che periodicamente si inseriscono nei programmi dell’onnipresente televisione. Tali trasmissioni anomale e farneticanti invitano il genere umano a ribellarsi contro un invasore occulto. John, in un primo momento, non le prende sul serio. Un giorno però, nella baraccopoli dove ha trovato alloggio, nota un andirivieni di persone che trasportano scatole di cartone. La sera stessa la polizia attacca violentemente la bidonville senza apparente motivo. Rovistando tra le macerie John ritrova una delle scatole misteriose e si accorge che contiene degli occhiali da sole. L’uomo scopre che le loro lenti permettono di vedere la realtà circostante in un modo diverso: le riviste patinate e i cartelloni pubblicitari perdono testo e colore lasciando comparire crude ingiunzioni quali: “obbedite”, “sposatevi e prolificate”, “spendete”, “non pensate”, “uccidete la fantasia”. Sulle banconote appare la scritta “sono il tuo Dio”, sopra i semafori degli altoparlanti sussurrano: “dormite”. Ma la cosa peggiore è che guardando attraverso i suoi occhiali John scopre che alcuni esseri umani sono in realtà alieni mostruosi. La fase della conferma si apre quando il protagonista cerca di comunicare la sua esperienza al suo amico Frank. Questo, come il Cardinal Bellarmino di fronte al telescopio di Galilei, rigetta a tal punto la possibilità di una realtà deviante che rifiuta perfino di guardare attraverso le lenti deoccultanti. Segue una delle colluttazioni più lunghe della storia del cinema che simbolizza la difficoltà del cambio di prospettiva percettiva. Alla fine John riesce a imporre a Frank di inforcare gli occhiali e i due si uniscono alla resistenza umana. Nel frattempo si viene a sapere che gli alieni sono “liberi imprenditori per i quali la Terra è solo un pianeta di cui sfruttare le risorse”. Essi sono arrivati sulla Terra nel XIX secolo e l’hanno ridotta a un cumulo di rifiuti tossici. Hanno il loro quartier generale nei sotterranei della città, trattano gli umani come polli d’allevamento e accusano i componenti della resistenza umana di essere pericolosi “comunisti”. A questo punto dovrebbe iniziare la fase del confronto, invece si ripete a un livello superiore quella della conferma, o per meglio dire si apre una fase in cui conferma e confronto coincidono. La lotta contro i mostri, infatti, consiste nello smascherarli agli occhi di tutti. Gli alieni però non sono visibili in quanto tali, poiché hanno adattato la loro biologia alle condizioni atmosferiche terrestri e nessun occhio o telescopio riesce a scorgere le loro astronavi che atterrano e decollano. Ciò è possibile grazie a un segnale emesso da un trasmettitore che copre via satellite tutta la Terra. Alla fine John riesce a distruggere l’antenna aliena. È ferito e forse morirà, ma i mostri ormai hanno perso la loro arma più terribile: sono visibili agli occhi di tutti gli umani e possono essere affrontati.

La struttura appena descritta, con le dovute variazioni del caso, è facilmente rintracciabile in molti classici della letteratura e della cinematografia fantahorror, da Dracula a It fino a Matrix e Dark City.

All’inizio del Capitale, Marx spiega come il modo di produzione capitalistico appaia alla superficie come una società armonica di cittadini liberi e uguali che vivono scambiandosi beni e servizi. L’origine del profitto, dell’accrescersi della ricchezza, rimane tuttavia inspiegato. Inoltre eventi anomalie misteriosi emergono inaspettatamente: si tratta delle crisi di sovrapproduzione che in una società basata sulla produzione per il consumo, così come il capitalismo fallacemente si presenta, non dovrebbero verificarsi.

La causa di tali distorsioni dell’ottica sociale risiede, a detta di Marx, nella visibilità del solo scambio paritario: il lavoratore cede la sua forza-lavoro in cambio di un salario monetario che ne rappresenta il valore, cioè la somma necessaria all’acquisto di tutti i beni e i servizi atti alla sua riproduzione materiale e intellettuale in un determinato contesto storico-geografico. Ciò che resta nell’ombra è che l’uso della forza-lavoro produce più di quanto costa, produce qualcosa di invisibile, un plusvalore. Tale eccedenza viene appropriata dal capitalista dando luogo allo sfruttamento. In questo modo il velo di Maya della libertà, dell’eguaglianza e della democrazia viene lacerato, lasciando il posto a un mostro che nutrendosi di linfa lavorativa si configura come una sorta di vampiro. Se nel primo libro del Capitale il percorso della discesa agli inferi è connotato dal passaggio dal semplice e superficiale al complesso e profondo, attraverso le tappe logiche della merce, del denaro, del capitale, del plusvalore e dell’accumulazione, una volta appurata l’esistenza del mostro dello sfruttamento, Marx nel terzo libro intraprende il cammino contrario, ma non coincidente, della conferma. Il filosofoè ora capace di spiegare l’origine del profitto e della crisi; può quindi ricostruire tutta la realtà sociale mediante categorie che si fanno sempre più empiriche e visibili, ma al tempo stesso concrete, grazie all’avvenuta scoperta del meccanismo dello sfruttamento. Tali categorie sono quelle del profitto e del saggio di profitto, dei prezzi, delle diverse forme di capitale (commerciale, monetario, industriale), della rendita, dei redditi (salari, profitti, rendite) e dei relativi percettori (lavoratori, capitalisti, rentier).

Il Capitale descrive in questo modo una realtà doppia: da una parte abbiamo il mondo egualitario, solare e visibile della sfera della circolazione popolato dalle categorie del terzo libro; dall’altra quello ctonio, invisibile e violento del primo libro, cioè la sfera della produzione in cui si descrivono le fattezze del mostro dello sfruttamento e dell’ineguaglianza. Da questo punto di vista, stando alla classificazione di Tzvetan Todorov (1977), il genere del Capitale apparterrebbe al meraviglioso, ma essendo l’oggetto della scoperta lo sfruttamento, la meccanica del suo occultamento e la dinamica catastrofica dello sviluppo capitalistico, possiamo dire di trovarci all’interno di un contesto meraviglioso-orrifico, o meglio di orrore soprannaturale – intendendo per naturale ciò che dalla scienza economica convenzionale è comunemente accettato.

E la fase del confronto? Dov’è nel Capitale? Una prima differenziazione rispetto al classico scontro finale risiede nella struttura dialettica del rapporto tra lavoro salariato e capitale. Il capitale non è un qualcosa di totalmente alieno dal lavoro salariato. È quest’ultimo a generare il primo, anche se poi ne è dominato. Il confronto tra i due non è un confliggere di forze estranee e indipendenti, quanto piuttosto un determinarsi reciproco, correlativo, anche se conflittuale. Non c’è madre senza figlio. La madre non può uccidere il figlio senza negare se stessa in quanto madre. In più il rapporto lavoro/capitale, a differenza della mera correlazione madre/figlio, non è un qualcosa di statico, ma di contraddittoriamente orientato dalla tendenza all’accumulazione del capitale e dalla caduta tendenziale del saggio di profitto. Il confronto si sviluppa dunque all’interno di tale rapporto e la struttura del finale narrativo può essere esemplificata da una spirale di sequel in cui l’ultima puntata può essere determinata solo astrattamente e asintoticamente come punto in cui la produzione interamente automatizzata rende liberi, posteconomici, tutti i beni e i servizi. È all’interno delle spirali di crisi e ripresa di questo processo seriale che si situa il confronto storico tra il mostro capitalistico disvelato e il suo antagonista salariato. In ogni sequel le condizioni sociologiche del confronto cambiano con il mutare della composizione di classe e delle conseguenti modalità di vita, di socializzazione e di lavoro (cfr. Budra, 1998).

Il Capitale appare così una narrazione a finale aperto, non tanto perchè sia un’opera incompiuta, ma perchè la sua struttura logica, potentemente astratta, arriva ad affermare che c’è un mostro con il quale occorre inevitabilmente scontrarsi senza specificare chi sarà il vincitore, né se questo scontro sarà l’ultimo. Ma chi mai pretenderebbe ciò da una buona opera di fantahorror?

 

Budra, Paul, 1998, “Recurrent Monsters: Why Freddy, Michael, and Jason Keep Coming Back”, in Part Two: Reflections on the Sequel, University of Toronto Press.

Carroll, Noël, 1990, The Philosophy of Horror: Paradoxes of the Heart, Routledge.

Marx, Karl, 1981, Il Capitale, Editori Riuniti.

Todorov, Tzvetan, 1977, La letteratura fantastica, Garzanti.