di Marilù Oliva

“il fratello greco” di Diego Zandel, Hacca, 2010, euro 14

zandelok.jpgPer presentare “il fratello greco” (sic in minuscolo) parto da un dato estetico non essenziale ma neppure irrilevante: la copertina è una delle più suggestive che abbia visto tra i libri di quest’anno. Il libro sembra un portaritratti, con tanto di cornice usurata, foto d’epoca e sostegno in quarta di cartoncino duro. Il contenuto non delude le aspettative indotte dall’illusione ottica: il romanzo narra il delicato ma potente percorso di Errico Sapori, nome che evoca il più grande anarchico italiano (Errico Malatesta), su un triplice piano: interiore, spaziale, familiare. Errico è oggi un marito non più appagato dalla famiglia ma soprattutto è un ex manager cinquantenne appena sottoposto a pensionamento. L’isola di Kos come destinazione di ripiego si rivela luogo d’elezione per un viaggio nei ricordi, nel non-svelato, dove pezzi di memoria si sfumano in un presente inedito.
Perché Kos?

I motivi sono due, di cui uno di carattere squisitamente narrativo: qui era stato in guerra il padre di Errico, Achille Sapori, fante del 10° Regina, e qui era sopravvissuto ai tedeschi fuggendo e nascondendosi in un ovile, protetto da una ragazza del luogo. L’altro è un dato biografico: di nuovo, dopo L’uomo di Kos (2004), Zandel ripropone l’isola greca perché la conosce come le sue tasche. L’autore, nato nel campo profughi di Servigliano, allevato da una nonna istriana di dialetto ciakavo croato, sposato con una donna di madre originaria dell’isola di Kos appunto, dove vive parte dell’anno, ha fatto di questo scorcio di Grecia luogo ora elegiaco ora intriso di storia: «Il panorama, alla loro sinistra, si allargava sulla piana di Linopoti, quindi al mare, alle isole, alla costa d’Anatolia, con i suoi scogli deserti. La cupola del cielo sull’Egeo, che spariva in orizzonti lontani, raccoglieva sullo sfondo gli ultimi accecanti bagliori del sole che a occidente si avviava verso un tramonto ormai prossimo, dietro l’isola di Kalimnos. Ma ancora dominava l’azzurro. Anche il vento, nella sua purezza, sembrava nascere da esso».
“il fratello greco” è un romanzo intriso di colori, vita, delusione, desideri spenti e riaccesi, pizzicato dalla storia del novecento, dominato dalla scrittura decisa, a tratti poetica, a tratti precisa, sempre limpida, di chi, con la scrittura, si misura da sempre.

“Incubo di strada” di Derek Raymond, Meridiano Zero, 2010, euro 13

Raymond IncuboRGB.jpgPiù che Parigi come luogo prescelto, è la strada evocata nel titolo il vero scenario di “Incubo di strada” di Derek Raymond (pseudonimo di Robert William Arthur Cook), romanzo scritto nel 1988 (tit. orig. “Nightmare in the Street”), inedito in Italia ma già pubblicato in Francia nella serie “Thriller” di Rivages, ora voluto da Meridiano Zero e tradotto da Marco Vicentini. L’autore, morto nel 1994 nella Londra in cui era nato 63 anni prima, è sgusciato presto via dal mondo borghese della famiglia e ha viaggiato, tra gli altri posti, in Marocco, Turchia, Italia, arricchendo il curriculum e le esperienze di vita poi confluite nei suoi numerosi libri che già risentivano, in via francese, dall’esistenzialismo di Sartre: Raymond ha riciclato auto in Spagna, è stato insegnante di inglese a New York, tassista e trafficante di materiale pornografico.
Hard boiled ammorbidito da un sentimento purissimo d’amore, “Incubo di strada” racconta appunto l’incubo di Kleber, poliziotto sospeso dagli incarichi, un’esistenza segnata dalla strada e il riscatto nell’amore incarnato da Elenya, prostituta polacca che lui aveva affrancato consacrandola a suo angelo. Ma Kleber è devoto all’amicizia, deve restituire un favore all’amico di sempre, il suo codice etico gli impone di non sottrarsi. E qui cominciano i guai, sempre in agguato nelle vie infide, sia che siano ricordi lontani: «Lei aveva paura di tornare per le strade e nei bar in cui si erano incontrati, anche se era il quartiere che preferiva», sia che si tratti di luoghi ben definiti che restituiscono più cruda la parvenza della minaccia, come boulevard de Sébastopol. In entrambi i casi, la strada è varco per concetti più alti: «La vera miseria si trovava nelle strade, ed era nelle strade che lui la affrontava. Il senso dell’esistenza (se ce n’era uno) aveva cominciato pian piano ad apparirgli chiaro: bisognava identificarsi nell’altro. La necessità spingeva sia lui che tutti gli altri verso il peccato: sulla strada era meglio perdere l’anima che digiunare».

“i cani di via lincoln” di Antonio Pagliaro, Laurana Editore, 2010, euro 16,50

i-cani-di-via-Lincoln-194x300.jpg“i cani di via lincoln” (tutto in minuscolo) di Antonio Pagliaro è una storia di mafia ma soprattutto di umanità diverse in cui la criminalità spadroneggia con la collusione di potentati locali, politici, massoni e dell’usuale bassa manovalanza. In primo piano Palermo e le sparatorie, Palermo e i corpi crivellati, Palermo coi suoi quartieri caldi di fine maggio e i marciapiedi coperti da montagne di sacchetti di immondizia. Romanzo polifonico: tra le altre voci, un tenente dei carabinieri dalla moglie bruttissima, un giornalista, una sostituta procuratrice dal seno prosperoso, un presidente della Regione Sicilia, Salvino Cusimano, ora politico di destra ma che un tempo era stato fascista e poi si era piegato a secondo dell’opportunità (e dell’opportunismo) del momento. Un uomo che si prodiga alle folle di questuanti e ammiratori, sempre pronto a concedere e, all’occorrenza, poi a chiedere il conto. La criminalità si integra all’ambiente e due cani che altalenano al vento diventano la proiezione di un più cupo disegno: «Una brezza di tre gradi Beaufort scendeva dai monti, scombinava i capelli di due innamorati in attesa di un treno alla stazione centrale, soffiava sugli alberi secolari dell’Orto botanico, increspava di onde il laghetto delle ninfee in fiore, muoveva le foglie delle piante carnivore, sollevava le carte che cittadini avevano gettato sulla via e, giunta quasi al termine di via Lincoln, cullava i due corpi impiccati alle lanterne rosse».
E se i cani penzolano dalle lanterne di un ristorante cinese, Grande Pechino, e, a breve tempo, nello stesso ristorante si consuma una strage — otto persone massacrate a colpi di kalashnikov e una donna è in fin di vita —, il mistero si carica di ineffabilità.
L’autore, palermitano classe 1968, al suo secondo romanzo dopo “Il sangue degli altri” (Sironi), mette in atto una storia cruda con la naturalezza di chi ne conosce gli epiloghi. Il suo è un linguaggio fluido, efficace, intenso, con riuscitissimi dialoghi dalle incidenze locali e con tratteggi psicologici magistrali (vedasi ad esempio il capoclan Saro Trionfante e il figlioletto battezzato alla mafia).

“La felicità dei cani” di Adamo Dagradi, Mursia, 2009, euro 17

la-felicita-dei-cani-195x300.jpgIl romanzo si consuma gli ultimi tre giorni di un anno non definito, in una città di mare non nominata ma liberamente ispirata a Genova, con i carruggi della città vecchia e i vicoli di Prè. La polizia del XX distretto indaga su un triplice omicidio di donne e il cimitero, luogo di ritrovo dei cadaveri, col suo tetro guardiano, potrebbe deviare il corso delle indagini. Non è un semplice poliziesco, questo. Certo, la scena è dominata da una squadra di agenti capitanati dal nuovo commissario Eugenio Orlando, uomo imperfetto e assillato dalla sua fobia di “portar iella”. Ma i personaggi, come marionette indipendenti di un più profondo dramma, spiccano forti nelle loro imperfezioni e nelle loro debolezze interiori. Basti per tutti l’ispettrice Jelena, poliziotta randagia che arrotonda con piccole estorsioni, però poi quando indaga non si risparmia e gioca al ribasso con la vita cercando di scrollarsi le ceneri di un padre alcolizzato e di una sorella appena scomparsa. E piange, quando la solitudine glielo consente e la fatica diventa insostenibile.
Dagradi, che di mestiere è giornalista e critico cinematografico, in questo suo primo romanzo, oltre i tipi umani e le vicende, oltre lo sguardo dei cani che rimandano a un diverso tipo di (in)consapevolezza, snoda con scioltezza e con una scrittura solida questa città evanescente, invernale, multietnica — zone dove si addensa un settanta per cento di immigrati africani alternate a strisce di quartieri che gli indiani hanno trasformato in un carnevali d’incensi —, una città che all’improvviso spalanca scorci insospettabili come la Corte: «È come se la città si restringesse all’improvviso lungo il corso irregolare di corso Italia. Sul lato orientale della larga arteria si apre una ragnatela di vicoli che scendono al porto vecchio come capillari intorno a una pupilla. Le case sono così decrepite che pendono le une verso le altre, rendendo la sottile striscia di cielo tra i tetti quasi invisibile […]. In tutto il quartiere il buio convive con un assortimento di luci variegato come un impossibile arcobaleno notturno».