di Gioacchino Toni

HakimBey.jpgPeter Lamborn Wilson (Hakim Bey), Le repubbliche dei pirati. Corsari mori e rinnegati europei nel Mediterraneo, Shake edizioni tascabili, 2008, pp. 208, €9,90

Molti testi sulla pirateria nordafricana sono macchiati dall’idea di giustificare la “missione civilizzatrice” dell’imperialismo europeo dell’Otto-Novecento. Non a caso in tanti scritti europei e americani si utilizzano toni ben diversi per la pirateria praticata dagli stati-nazione cristiani e bianchi in opposizione a quella accusata di essere anarco-moresca. Occorre pertanto cercare altrove elementi volti a spiegare quanto ha a che fare con resistenze e insurrezioni nordafricane ed è con tale spirito che Peter Lamborn Wilson analizzata in particolare l’esperienza di Rabat-Salé nella prima metà del XVII secolo. Tale esperienza è particolare in quanto, a differenza di Algeri, Tunisi e Tripoli, non era un protettorato ottomano.

Il testo prende in esame il periodo (XVI-XIX sec) in cui i pirati musulmani provenienti dal Nord Africa dominavano i mari. Dalla fine del XVI fino al XVIII secolo si assiste a un numero esorbitate di conversioni all’Islam da parte di europei soprattutto tra coloro che vivevano negli “Stati della barbaresca”. Tali convertiti erano chiamati da parte dei cristiani europei rinnegati, apostati o traditori. La prima questione a cui il saggio intende provare a rispondere riguarda i motivi di queste conversioni di massa: l’Islam poteva essere inteso come punto di riferimento da parte di antireligiosi e anticlericali, inoltre parte dell’attrazione esercitata dallo scarsamente conosciuto Islam poteva essere dovuta ad una sorta di rifiuto della religione conosciuta, il cristianesimo, e del suo esercizio del potere. Un certo immaginario popolare poteva anche essere attratto da un paradiso coranico libertino, ben più accattivante del casto paradiso cristiano.
Un passaggio cruciale del testo si ha nella contestazione della definizione “banditi sociali” utilizzata da diversi studiosi marxisti in riferimento ai pirati in quanto privi di un contesto “sociale” e nessuna società contadina per la quale fungere da soggetto resistente. Peter Lamborn Wilson sostiene, invece, a differenza di studiosi come Hobsbawm, che i pirati formano vere e proprie sfere sociali e che le loro forme di governo possono essere definite sia anarchiche, nel garantire il massimo grado di libertà individuale, che comuniste, nell’eliminare la gerarchia economica. L’affermazione risulta evidentemente essere di una certa importanza e, proprio per questo, meriterebbe un approfondimento maggiore rispetto a quanto riportato.
Il testo propone una distinzione tra corsari e pirati: il corsaro è da intendersi come un soldato a cui viene data una “lettera di corsa” da parte di un governo per attaccare le navi di un altro paese, mentre il pirata può essere considerato un “criminale del mare”. Il bottino tra i pirati veniva diviso in maniera relativamente egualitaria: solitamente veniva diviso secondo proporzioni che vedevano gli ufficiali trattenere non più del doppio rispetto al compenso dato ai membri della ciurma, mentre ai non combattenti, come i mozzi, spettava un compenso inferiore. Tra i corsari, invece, la suddivisione obbediva a logiche decisamente meno egualitarie: un capitano poteva trattenere fino a quaranta volte il compenso spettante alla ciurma.
Un passo del saggio è però illuminante nel sintetizzare l’approccio dell’autore: «La pirateria può essere vista come caso estremo di mentalità da “lavoro zero”: cinque o sei mesi in panciolle per i caffè moreschi, poi una crociera estiva su un bell’oceano azzurro, poche ore di sforzo e, in men che non si dica, ecco finanziato un altro anno di pigrizia. Se i pirati non fossero stati pigri, sarebbero stati ciabattini, in fonderia o pescatori, ma come i gangster nei vecchi film pensavano “il lavoro è per i fessi”, e usavano qualsiasi espediente per evitarlo». Un passo certamente accattivante ma, occorre dire, non sfugge come il riferimento sia “ai gangster dei vecchi film”, non ai “vecchi gangster”. Forse i pirati raccontati da Peter Lamborn Wilson stanno ai pirati storicamente esistiti come i gangster narrati “dai vecchi film” stanno ai gangster reali. D’altra parte è l’autore stesso che sin dalle prime pagine sottolinea come lo strumento metodologico principale da lui utilizzato, sia in realtà «la piratologia che, come tutti sanno, è territorio esclusivo degli appassionati dilettanti». Può anche essere che la trattazione resti nel solco di questa “piratologia” volta più alla costruzione di un “monumento” che non a una approfondita disamina dei “documenti”… ma, tutto sommato, a noi la storia dei pirati piace (anche) così.

Reading di Hakim Bey da Le repubbliche dei pirati. L’evento si è tenuto nel 1997 presso il Cox 18 di Milano. Disponibile qui.