di Sandro Moiso

Milan Kundera, Praga, poesia che scompare. Seguito da Ottantanove parole, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 102, 12 euro

Nel libello appena pubblicato da Adelphi, nella collana «Piccola Biblioteca» con il numero 803, è impossibile non riconoscere nel ritratto culturale e letterario di Praga che ne scaturisce, attraversato da un fremito di commossa nostalgia, un autoritratto, che rivela, forse meglio di qualsiasi saggio critico, la genealogia segreta da cui scaturisce l’intera opera di Kundera. Dentro a quello stesso laboratorio ci conduce anche Ottantanove parole, un dizionario personale nato nel 1985 dall’esigenza, per l’autore che ancora scriveva in ceco ma pensava a come ogni frase sarebbe suonata in francese, di chiarire al suo pubblico le « parole chiave », le « parole trabocchetto », le « parole d’amore » attorno alle quali erano costruiti i suoi romanzi.

Dalla riunione dei due testi, entrambi usciti in origine su « Le Débat », risulta evidente la volontà di rivendicare un’appartenenza occidentale per la città e la cultura letteraria, ma non soltanto, del paese d’origine di un autore di cui Adelphi è stata la prima e fortunatissima casa editrice in Italia, mentre la Francia, che lo aveva ospitato fin dal 1975, costituiva la seconda patria. Se non la prima, considerato che Kundera è stato spesso indicato come «scrittore, poeta, saggista e drammaturgo francese di origine cecoslovacca e etnia ceca». Una rivendicazione e una forma di nostalgia che derivavano sia da una forma di riconoscenza nei confronti del “nuovo mondo” che lo aveva accolto nell’esilio e, contemporaneamente, dalla nostalgia tipica del profugo nei confronti della patria lasciata alle spalle.

Una rivendicazione ostentata di accostamento, se non di appartenenza, non solo della sua opera ma di un’intera cultura nazionale che si scontra però, in maniera paradossale, con la storia di una città che, come altre ai “confini orientali” d’Europa e un tempo integrate nell’impero asburgico o austro-ungarico, ha visto incrociarsi sul suo territorio e nel suo background culturale lingue, religioni, popoli e culture spesso profondamente diverse. Sicuramente la lingua tedesca, quella ebraica e yiddish, quella slava insieme alle rispettive religioni di appartenenza (cattolica, protestante, ortodossa ed ebraica). Cosa che se da un lato può aver dato vita a conflitti e divisioni in numerosi momenti storici (si pensi soltanto alla defenestrazione dei delegati cattolici a Praga del 1618 che di fatto diede vita alla guerra dei Trent’anni e che, invece, l’autore nel testo in questione sembra voler far coincidere con la rivendicazione dell’occidentalità della cultura praghese, mentre quello fu proprio l’inizio di una divisione interna all’Europa che, di fatto, sembra non essersi chiusa ancora adesso nonostante la leggenda dell’unità europea e delle sue radici cristiane), dall’altro ha creato quelle condizioni di ricchezza culturale e linguistica che ha caratterizzato la sua letteratura.

Basti far riferimento a Franz Kafka e alla sua famiglia, in cui le origini e le tradizioni ebraiche del padre in qualche modo si scontravano con quelle “tedesche” della madre. Anche a livello linguistico. Motivo per cui lo scrittore scrisse le sue opere in tedesco, risultando poi essere il principale esponente della letteratura ebraica in quella lingua.

E’ soltanto un esempio, tra i tanti che si potrebbero fare, per riportare sui giusti binari la polemica a favore dell’identità culturale ceca che anima l’opera e l’intento di Milan Kundera (Brno, 1929 – Parigi, 2023). Ma è anche chiaro, però, che la polemica e la rivendicazione ceco-occidentale di uno dei più conosciuti autori praghesi della contemporaneità, contenuta in un testo scritto nel 1980, è dovuta soprattutto alla pesante e massiccia azione di rimozione e risistemazione culturale e politica operata dall’Unione Sovietica a seguito della spartizione territoriale d’Europa seguita al secondo conflitto mondiale e alla Conferenza di Yalta.

Una forma di sudditanza agli interessi sovietici che, anche se fatta rispettare direttamente dagli scagnozzi in divisa e dai burocrati di Stalin e degli altri segretari del PCUS fin quasi alla caduta del muro di Berlino, derivò proprio dalle scelte politiche e militari di quell’Occidente liberale e democratico che troppo spesso l’autore sembra idealizzare. In fin dei conti quella spartizione conveniva ad entrambi i reggitori del mondo, come la fine del condomino russo-americano sul pianeta ha finito con il dimostrare anche a danno dell’immagine statunitense, cosicché i popoli che ne furono vittime nell’Europa Orientale (dai lavoratori in rivolta a Berlino Est nel 1953 agli insorti ungheresi del 1956, fino agli studenti praghesi del 1968 e gli operai polacchi degli anni Settanta e Ottanta) possono ancora “ringraziare” tutt’ora sia i carri armati sovietici che le fasulle promesse democratiche americane per la repressione, quasi sempre durissima, che li colpì ripetutamente ad ogni tentativo di rialzare la testa.

Così il nazionalismo culturale di Kundera, perché è di questo che si parla in sostanza, rinvia a quell’immagine delle piccole patrie già così ben descritta, nel loro livore e nelle loro divisioni fratricide, nei reportage di George Simenon contenuti in Europa 331 che, nel 1933, sottolineava le ambizioni, le piccinerie, gli egoismi e le rivalità che separavano tra di loro le piccole nazioni sorte sul finire del Primo conflitto mondiale ad opera della suddivisione dell’impero austro-ungarico messa in atto a Versailles, sotto l’influenza e l’azione del presidente americano Wilson.

Odii, rivalità, pretese, sabotaggi politici ed economici che vediamo in atto ancora oggi, in occasione del conflitto russo-ucraino, e che spesso i media mainstream riducono a filo-putinismo o a disattenzioni per le regole democratiche dettate dall’Unione Europea, ma che in realtà nascondono interessi politici, economici e territoriali infinitamente complessi e spesso dettati da un nazionalismo di origine, tutto sommato, recente per alcuni casi (ad esempio la divisione tra Repubblica ceca e Slovacchia) o più antico e ancora caratterizzato da mire espansionistiche in altri (come i rimpianti imperiali della Polonia che pensa ancora in termini simili a quelli della dinastia jagelloniana, che in realtà era di origine lituana, oppure alle rivalità sui territori e popoli della Transilvania tra Ungheria, Romania e Ucraina stessa).

Ed è per i motivi qui appena delineati che dispiace vedere tirate in ballo l’indiscutibile grandezza e l’ironia incomparabile, questa sì autenticamente praghese, di autori come Franz Kafka, Jaroslav Hašek (forse il più grande scrittore antimilitarista di tutti i tempi) e di Bohumil Hrabal, tutti e tre sicuramente “universali” nella loro fulgida grandezza letteraria, per sviluppare un discorso che nel difendere l’identità letteraria e culturale ceca e praghese finisce con l’esaltare un nazionalismo fasullo che finge una coincidente linea di attrazione “fatale” tra cultura e politica boema e libertà occidentali (sempre e soltanto presunte anch’esse).

A chiarire, diciamolo pure, la sudditanza culturale, questa sì, dello stesso autore nei confronti di un Occidente di cui è stato a lungo corteggiato ospite, dovrebbe bastare una delle ottantanove definizioni date nel secondo testo: quella di ROMANZO (europeo), di cui Kundera giunge a dare la seguente definizione e definitivo giudizio:

Il romanzo che io definisco europeo nasce nel Sud dell’Europa agli albori dei Tempi moderni e rappresenta in sé un’entità storica che in seguito amplierà i propri confini al di là dell’Europa geografica(in particolare nelle due Americhe). Per la ricchezza delle sue forme, l’intensità vertiginosamente concentrata della sua evoluzione, il suo ruolo sociale, il romanzo europeo (così come la musica europea) non ha eguali nelle altre civiltà2.

Manifestando così una sorta di nostalgia per un’Europa e una cultura che ancora si pretendeva superiore sul resto del mondo, più che una coscienza delle infinite trasformazioni, delle lotte e dei conflitti che ne hanno definito e disfatto, allo stesso tempo, l’identità e la sua crisi, sviluppatasi in forme drammatiche e contraddittorie fino ad oggi e, certamente, non soltanto a causa dei “barbari” provenienti dall’Est.


  1. G. Simenon, Europa 33, Adelphi Edizioni, Milano 2020. In particolare nel lungo reportage che da il titolo al volume da p. 11 a p. 126.  

  2. M. Kundera, Ottantanove parole, in M. Kundera, Praga, poesia che scompare, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 91.