di Donata Feroldi

blog_mariobenedetti_info.jpg[Segnalo la nascita di un blog dedicato alla poesia che esula dagli schemi abituali della blogosfera letteraria: si può interpretare come un’opera in progressiva espansione, colma di riferimenti personali e segnalazioni di testi, traduzioni, voci nuove. E’ il blog di Mario Benedetti (http://blog.mariobenedetti.info), poeta tra i migliori che l’Italia sta esprimendo in questo tempo e già comparso più volte su Carmilla. Dalla moltitudine di contenuti attualmenti presenti sul sito, traggo un intervento, a mia detta fondamentale, che la critica, traduttrice, teorica e lessicografa Donata Feroldi ha steso in margine di una sua traduzione a uno dei testi più penetranti di Marguerite Duras: il finale, C’est tout. Di Feroldi si annuncia per il 2008 un’annata editoriale importante: per i tipi peQuod sta per uscire il suo testo teorico e critico La chiave della porta rossa – Leggere Victor Hugo; parti di un romanzo poematico che sta scrivendo verranno pubblicati da minimum fax nell’antologia Best Off 2008; probabilmente vedrà la luce il Dizionario Analogico della Lingua Italiana di cui è autrice per Zanichelli. gg]

duras_cesttout.jpgI – In limine
Siamo di fronte a un testo liminare. Non solo perché si situa al confine, sulla soglia, tra parola e silenzio (silenzio definitivo, inappellabile), tra vita e morte (dell’io che dice, l’io narrante / lo scrittore), ma anche perché la sua forma si situa al limitare tra prosa e poesia (poème-en-prose, verso, versetto, haiku, calligramma: brevi striscioline di parole lanciate come dadi o shangai sulla pagina bianca, desolantemente vuota). Tutto il possibile che urge nella scrittura sembra sparito. Il bianco sembra solo assenza, vuoto a cui si torna (dopo esserne emersi, ma così lontano). Frasi brevi, lapidarie: lapidi, epitaffi, sepolcri. Cenotafio, in realtà, da cui il corpo dello scrivente è assente: disfandosi, decomponendosi già qui (in vita), se ne va, si sottrae.



Non è un itinerario – mentis in deo o mentis in morte -, perché non c’è alcuna progressione ma solo un tornare ossessivo, come di lampi in una notte oscura, scariche elettriche in reticoli neuronali ormai affondati, assopiti, in un buio muto. Squarci ripetuti, insensati, che non illuminano niente.

Blot-Labarrère: “l’itinerario si spezza, si interrompe”, non va da nessuna parte. Eppure la morte arriva e copre tutto. Il silenzio. La tentazione di mimare l’andamento a scatti, inconsulto, delle parole è forte.

Differenza da un testo per certi versi analogo che appartiene alla nostra tradizione: il Notturno di D’Annunzio, scritto su striscioline di carta nella notte privata della cecità conseguente alla ferita bellica. Ma il Notturno è sfrenato, esaltante, iperletterario nella posa teatrale di trasformare l’evento infausto in scrittura. Qui invece la vita finisce davvero e – pur nella consapevolezza letteraria – non c’è posa.

marguerite_duras.jpgIdentità (assoluta, straziante) tra testo e dramma, tra scrittura e farsi della morte / disfarsi della vita: punto esatto della tela di Penelope in cui l’equilibrio tra fare e disfare è raggiunto, precario: perfettamente invisibile e pericolosamente instabile.

Elementi del ritmo: le date, come in un diario, un bottettino. Partitura del paratesto: le indicazioni dei momenti della giornata. I bianchi: lei non parla più, non scrive più. Non parla già più, non scrive già più. Chi scrive al suo posto? La parola è affidata al tu ormai, come tra poco all’alterità assoluta, all’estraneità estrema della morte. Per un po’ niente, e poi: “più tardi nel pomeriggio”, “più tardi quello stesso giorno”. Tra una scritta e l’altra si dilata (incommensurabile) il silenzio, (si apre) il nulla: il nulla avanza e si mangerà tutto (tutto questo corpo, tutto questo piccolo irrisorio insolente inchiostro). Il bianco avanza e copre tutto. Latta di vernice che si rovescia sulla pagina bianca, già bianca (solo con piccole tracce, zampettature di parole-insetto). La morte avrà i tuoi occhi: avrà tutto di te (dell’io), si porterà via ogni cosa. Vincerà, come il banco vince sempre, la sua eterna partita.

Quaggiù e al di là: l’aldilà non si vede, ma il bianco avanza, questo luogo non-luogo.

Paternità/maternità del testo: non la mano di chi firma ha vergato le parole, ma la mano dell’altro, del tu, nominato nella dedica d’esordio, nell’esergo.

Dice il tu testimone: “Per un anno e mezzo mi ha dettato il suo ultimo testo: C’est tout. In quell’occasione mi resi conto che Marguerite era qualcosa di più  di una scrittrice. Viveva in un disordine totale, ossessionata dalla propria morte. Ma nella confusione apparente che regnava alla fine della sua vita, quando dettava non si lasciava sfuggire una virgola. La scrittura bloccava il disordine. Durava poco ma era fantastico” (Yann Andréa, da un’intervista rilasciata a Jean-François Kervéan, L’Événement du Jeudi, trad. it. di Daniela Maggioni, in “Il Corriere della Sera”, sabato 16 gennaio 1999).

II – Traduzione

La prima difficoltà sta nel titolo, che torna come refrain, elemento di tessiture ritmiche lungo tutto il testo. L’editore decide di mantenerlo. All’interno scelgo la traduzione più neutra, la meno fedele, la più letterale: “è tutto”. Perché? Perché, rispetto a “tutto qui” – preferibile da quasi tutti i punti di vista -, contiene/mantiene la particella verbale e dunque consente di riprodurre/restituire i giochi in cui il sintagma funge da cerniera. “È tutto. Tutto quello che ho da dire” mi sembra funzionare meglio di “Tutto qui. Tutto quello che ho da dire”, che – eventualmente (per alleggerire) – prevederebbe/comporterebbe la soppressione del secondo “tutto”. Ma questa esigua parola (“tutto”) è insacrificabile: perché l’intero testo si gioca
sulla contrapposizione tra tutto e niente, tra pieno (ancora per poco) e vuoto (imminente). Del resto, il pieno (il tutto) non lo è se non in termini relativi: solo rispetto al vuoto incombente ciò che è qui, ciò che esiste, può essere considerato un pieno, una pienezza, una totalità.

E poi: “tutto qui” è un po’ troppo colloquiale, dimesso. Non ha nulla dell’insolenza, dell’orgoglio, della sfida, della superiorità, dell’elevatezza di “è tutto” (“è tutto, non c’è altro” è un congedo, un commiato). “Tutto qui” non congeda, non piove dall’alto delle labbra di una donna appiattita al grado zero della vita. Differenza di registro. Minimizzazione/leggerezza contro laconicità/durezza: ho scelto la seconda sfera, la seconda atmosfera.

Composizione: il primo testo francese con questo titolo (C’est tout), pubblicato nell’ultimo scorcio del 1995, si apriva il 20 novembre 1994 (data in calce alla dedica, ma la prima indicazione temporale interna è il 21 dello stesso mese) e si chiudeva il 1 agosto 1995, con queste parole: «Non ho più bocca, più viso». La strofe conclusiva (a cui appartengono) è la seguente:

Credo che sia finita. Che la mia vita sia al termine.
Non sono più niente.
Sono diventata completamente spaventosa.
Non sto più insieme.
Vieni presto.
Non ho più bocca, più viso.

È evidentemente un invio. Si può parlare di strofe in senso lato: ciò che sta nell’unità spaziale della riga non è evidentemente un verso, potrebbe forse (in quanto unità di enunciazione seppure di lunghezza variabile) essere equiparato a un versetto (come nel Corano, nella Bibbia, con un rimando ai testi sacri in genere o, perché no, alle tavolette di scrittura cuneiforme, o agli ostraka). Non è un verso ma c’è una evidente volontà di spazializzare il testo, una disposizione studiatissima delle parole sulla pagina (lapidaria, appunto). Tutto è tenuto (come una nota), teso (come la corda di uno strumento ad arco appena prima di spezzarsi): punteggiatura, pause, riprese, assenza di rime, di armonici, di riverberi sonori. Gli echi sono smorzati, tolti, spenti (il suono reso ottuso dalla sordina). È un dettato severo.

Un dettato appunto: qualcuno detta. L’io detta al tu. Qualcuno forse ormai non detta neanche più: pronuncia nel delirio, negli intervalli dell’agonia, frasi smozzicate (non è così: “La scrittura blocca il disordine”, lo congela/congeda, lo annulla).
C’è un precedente: M. D. (di Yann Andréa), il libro sul coma, il libro del coma (etilico, farmacologico). Ma allora era stato il tu a firmare.

“Durante la cura [di disintossicazione], Marguerite delirava e io annotavo le sue parole per poi potergliele mostrare. Appena ristabilita, ha letto le mie note: «Ma va benissimo quello che dico, Yann, bisogna che lei ne tragga un libro»”.

L’edizione francese è solo il punto di partenza della traduzione italiana, col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi, il testo si arricchisce delle note che continuano ad arrivare via fax (dalla casa editrice, da Rue Saint-Benoît, da Yann Andréa, da qualche funzionario editoriale, non so). Anonime stampe al computer che integrano a intervalli di settimane, come uno stillicidio, un’agonia che non finisce, una lunghissima morte in diretta, il testo. Così si ricomincia. Dal 12 ottobre 1995. Nuovo incipit (oltre la fine):

Vieni nella mia vita.

E poi, alle 15 e trenta dello stesso giorno:

Sono morta. È finita.

Fino all’explicit definitivo del 29 febbraio 1996 (ore 13), il giorno delle due piccole sincopi che precedono la morte sopravvenuta il 3 marzo. È un saluto lieve:

L’amo.
Arrivederci
.

Dove?

La cronaca della fine, invece eccola. Alla domanda subdola dell’intervistatore: “Marguerite Duras ha smesso di vivere quando ha capito che non avrebbe più scritto?”, la risposta del testimone: “Sì. È morta il 3 marzo verso le otto del mattino. Qualche giorno prima mi aveva detto: «Duras è finita». […] Il giorno in cui ha capito che la morte stava per arrivare, ci si è dedicata completamente. Non l’accettava, voleva vivere. Cercava di trovare una soluzione. Fino all’ultimo. Di notte, accendeva tutte le luci e attraversava l’appartamento per venire a sedersi sul mio letto. «Un po’ di conversazione non fa male», diceva. […] Era un delirio che però aveva un senso. In fondo, era una finzione. Verso le sei del mattino, le dicevo che avevo voglia di dormire. E lei sbatteva la porta urlando: «Ne ho abbastanza di vivere con un pensionato». […] Il 29 febbraio ha avuto due piccole sincopi. La vita se ne andava. Diceva: «Mi vedo all’obitorio, vedo il mio corpo in decomposizione». All’arrivo dell’ambulanza, si è seduta
sul letto e mi ha rivolto queste parole: «Non le ho chiesto di venire con me»”.

A cosa credere?

Dove si svolge tutto ciò? Qual è il luogo? Non l’indirizzo, quello lo conosciamo: Rue Saint-Benoît (per sempre). Una stanza (anonima, incollocabile), un letto (anonimo, qualsiasi): un qualsiasi letto di morte, una qualsiasi stanza d’agonia. Ma, di fronte alla morte (il luogo è appunto: di-fronte-alla-morte), non c’è più stanza, più letto, più luogo. La luce frontale (la parete verticale) della morte non illumina niente: semplicemente sta.

Ci sarebbe da chiedersi quanto possa aver influenzato la postura di Duras nella scrittura il rigore orientale. Ma di questo non sappiamo nulla, non abbiamo notizie. Eppure c’è un Oriente elettivo, una Cina interiore (misteriosa, ieratica). C’è il nulla, al posto di qualunque Dio.

Precedenti. Elisabetta Rasy, dal ritratto/necrologio: “Ma di cosa parlano le non-storie di Marguerite Duras, […] i suoi libri […] difficili, ellittici, rarefatti? Parlano esclusivamente d’amore”. E prima: “Lei aveva dichiarato che scrivere non è raccontare una storia ma raccontare insieme «una storia e l’assenza di questa storia», è «narrare quanto circonda una storia e si va creando attorno ad essa un istante dopo l’altro. Tutto quanto c’è, ma che potrebbe non esserci, o essere intercambiabile, come i fatti della vita. La storia o la sua irrealtà»”. Un io, Don Chisciotte, e un tu, Sancho Panza, stanno ritti – imperterriti – contro i mulini a vento: le pale inesorabili della morte, il vento che spira dal nulla. Ridicoli. Grandi.

III – Ossessione

È il luogo dove il giovane amante incontra per la prima volta nella lettura l’amante più vecchia, la carne molle, sfatta, ancora ossessivamente abitata dal desiderio. La vita se ne va ma il desiderio non muore. Lo sguardo adolescente percorre le righe come un cane avido che fiuta la pista già segnata, quasi destino, mentre si perde a guardare fuori dalle pagine l’icona presente e sfolgorante della distanza. Allora, in quel tempo e in quel luogo sconosciuti, attraverso le pagine del libro (“galeotto”) è accaduto qualcosa (gli occhi si sono cercati ma non potevano incontrarsi). Il libro era soltanto (soltanto?) la dettatura di una donna di ottantun anni (quasi ottantadue) morente al suo amante di quarantadue (quarantatre): i trentanove anni della loro scandalosa differenza d’età tutti lì davanti.

Lui non è solo Yann Andréa Steiner (non è solo l’estrema propaggine di Aurélia Steiner, oltre Vancouver, oltre Melbourne, proprio qui), è anche l’Uomo atlantico.

Lui è semplicemente il tu.

Lui non è solo Aurélia Steiner ma, oltre, è l’Aurélia di Nerval, ancora oltre, Laura, Beatrice, la ‘belle dame sans merci’ della poesia trobadorica, dell’amor cortese.

Dichiara Duras (in La passione sospesa, libro-intervista con Leopoldina Pallotta della Torre): “Tutte le protagoniste dei miei libri e film è come fossero sorelle di Andromaca, Fedra, Berenice: martiri di un amore che le invade, fino alla sacralità”.

Qui il fin’ amor trova la sua incarnazione di necessaria lontananza nel nome e nel corpo di un uomo che l’inclinazione per le persone del suo stesso sesso, continuamente respinta da colei che scrive, continuamente violentata dalla donna-trobairitz, rende perfetta incarnazione e senhal dell’amor de lohn.

Ancora Rasy: “è qualcosa di più sottile dell’amour fou, è la follia del desiderio amoroso, di ogni desiderio amoroso e della sua essenza più segreta e incandescente, che separa gli amanti piuttosto che avvicinarli, come se a ognuno fosse ignoto il vero oggetto del proprio amore e come perso in una lontananza irraggiungibile”. Donne accecate da un’immagine di perdita (Lol V. Stein) o che aggirano il vuoto, il desiderio che non prende corpo (Anne-Marie Stretter).

Così Jacques Lacan vede nei personaggi/situazioni di Duras l’emblema/incarnazione del suo motto: amare è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole (il Ravissement lo incanta).

Lei, la scrittrice, la troubairitz, ha costruito per sé / attorno a sé un’aura che porta a pensarla come creatura del mondo dei libri, imprendibile e immortale. Protetta e tenuta a distanza. Trapassata in mito, come Saffo, come una Fedra che si sia scritta da sola.

Amore come luogo del vuoto e dell’assenza. Già, di già: prima di morire, prima del canzoniere sfrontatamente inalberato davanti alla morte.

Reazioni contrastanti. Bisogna dirlo: tutto ciò che appare oracolare rischia (inesorabilmente) di scivolare nel ridicolo.

È il 1977. Lei ha sedici anni, lui trentotto. Come Tadzio di Morte a Venezia, è sullo splendido e precario crinale dell’adolescenza: un corpo ancora racchiuso nel bocciolo radioso e imperiale delle promesse, già corrotto eppure così innocente, commovente per quanta corruzione emana, richiama attorno a sé. Lui la scopa – potrebbe – come Humbert scava il corpo di Lolita, lo ara, lo dissoda, à jamais: più nessuna innocenza possibile. È il 1977.

E come loro, in un letto americano o indocinese, suscitano curiosità morbose (cosa le farà esattamente? il suo corpo ancora esile, immaturo, sopporterà e incursioni/profanazioni di quel corpo così più pesante, ingombrante?), così le ultime parole – del canzoniere grave e sfrontato – suscitano il voyeurismo dei lettori o – addirittura – sono sospettate di esserne l’esito pilotato, d’aver assunto su di sé l’imperativo del consumo. Voyeurismo, morbosità, col loro corteo di torbidi maneggi. Torbidi pensieri.

I loro corpi hanno vent’anni, su una spiaggia che non è mai esistita. Una spiaggia che esiste soltanto quando i corpi si congiungono e i ventidue anni che li separano si dissolvono. Lì, su quella spiaggia, il corpo più pesante, anziano, diventa ventenne, prepotente, e la stana con insolenza, sicuro della precisione vittoriosa dei gesti compiuti senza neppure guardare, vuole abbatterla, è guerriero. Lì, su quella spiaggia di vent’anni, il corpo di lei si prosciuga ancora, torna a un’adolescenza sfrontata mai avuta in cui regge con spudorata sfida gli assalti bellicosi e combatte fino  all’ultimo istante, riceve trionfante la sconfitta in piedi. Poi crollano, come due giovani leoni. Le nostre forze sono uguali. Uguale il desiderio. Potremmo continuare solo per distruggerci.

Aveva detto (prima che fosse troppo tardi, prima che la penna le cadesse dalle mani): “Je nie la fin qui va venir probablement nous séparer, sa facilité, sa simplicité désolante, car du moment que je la nie, celle-là, j’accepte l’autre, celle qui est à inventer, que je ne connais pas, que personne n’a encore inventée: la fin sans fin, le commencement sans fin de…”.


IV

Di nuovo

La traduzione è il luogo della perdita della lingua, dell’estrema spossessione, spossessamento. Di fronte all’idioma straniero – mirabilmente racchiuso nel suo guscio sonante -, di fronte alla seduzione imperiale dell’idioma straniero, si resta nudi, si resta muti: la lingua nostra è niente, ridotta a un niente. Il legame musaico nella perfezione dell’incomprensibile, l’insignificanza totale che diventa significatività totale :guscio e polpa imperiale del senso, questa mela, questo frutto proibito che vorremmo tanto cogliere, assaporare. Siamo uguali: la lingua nostra ci muore ai piedi, muore ai nostri piedi per amore dell’altra, dell’altro. Si consuma in fuoco. Va in fumo invisibile.

Spiccare il frutto : un modo di farlo morire. Per cibarsene.

Così siamo uguali – io e l’altro, l’altra lingua e la mia – in questo redde rationem. È un punto da cui cominciare. Una morte da cui cominciare.

Lo sfolgorio della lingua dell’altro è silenzio. È fatto di silenzio. Silenzio fatto carne, sostanza. Fatto carta.