di Tommaso Rooms
[foto di Ryan Divambeigi. Questo reportage è apparso sulla rivista ‘Finibus Terrae’]

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“L’intenzione genocida dei leader iraniani è chiara”
Daniel Jonah Goldhagen

La forte copertura mediatica data alle dichiarazioni del neo-Presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad riguardo l’opportunità o meno dell’esistenza dello stato d’Israele sulle cartine geografiche, ma soprattutto sulla faccia della terra, ha suscitato diversi clamori. (La copertura mediatica, diciamo, e non il fatto in sé, poiché questo già si presenta da tempo con periodiche scadenze per bocca di svariati, autorevolissimi personaggi del regime).
Tra queste reazioni, più o meno giustificate, c’é quella di Goldhagen, il quale si domanda se gli alleati di Israele, “gli altri stati democratici, non farebbero quanto in loro potere – compresa la distruzione manu militare” per fermare la “latente capacità genocida degli aspiranti sterminatori”.

Senza voler qui entrare nel merito delle cancellazioni e dei genocidi, una cosa la possiamo dire: alla domanda che Goldhagen pone (sperando evidentemente in una risposta affermativa) noi ci auguriamo che nessuno vorrà mai prestare l’attenzione.
iran2.jpgAl di là dell’idiosincrasia per le distruzioni militaresche, l’augurio nasce dal fatto che l’Iran lo abbiamo conosciuto abbastanza per sapere che la sua realtà è troppo complessa e schizofrenica per essere giudicata in blocco, come si usa fare a casa nostra. Le stesse immagini di bandiere americane e israeliane date alle fiamme, presentate come espressive dei sentimenti del paese, sono totalmente mistificanti. È curioso che fino a quando i “riformisti” erano “al potere”- cioè fino a sei mesi fa- gli iraniani teletrasmessi non erano impegnati ad appiccare incendi, bensì a spalmarsi vistosi rossetti mentre guardavano i film di Hollywood, o ad ascoltare il Pop americano tra un collegamento in rete e l’altro. Ne concludiamo che la realtà sociale iraniana poco si addice alle necessità semplificatrici massmediatiche.
Qui, ad ogni foto che scattiamo ne corrispondono dieci di cui siamo i soggetti; ci fissano, ci riprendono se hanno una telecamera. Ce ne sarebbe abbastanza per montarsi la testa, se non fosse che niente di ciò avviene in virtù delle nostre pur note beltà, ma del solo status di gente straniera. Siamo eventi curiosi, noi e i nostri modi.
In effetti, per quanto nessun mappamondo ne possa dar conferma, l’Iran è proprio un’isola che galleggia su acque pochissimo trafficate. L’inglese non lo conosce quasi nessuno, il francese ha solo poca fortuna in più. Roma, Milano, nomi generalmente incollocabili nello spazio. Ci chiedono da dove veniamo, se siamo spanish, alemagne, perfino se siamo japanese. Ne approfittano per fare ogni genere di domanda, ma si rallegrano della nostra presenza anche perché orgogliosi di poter svelare il vero volto del paese a degli occidentali. Fuori, non ne vengono proposte altro che riproduzioni sbiadite o fasulle.
In sostanza, molti iraniani non sanno niente del mondo che non è Iran; e molto di ciò che noi credevamo di sapere dell’Iran è falso.
La rivoluzione del rossetto, di cui tanto abbiamo letto fino a qualche tempo fa, è un’esclusiva del ceto medio di Teheran, la capitale (di cui Ahmadinejad era il sindaco, prima del nuovo incarico). Le ragazze di qui hanno sostituito il chador con foulard d’ogni tipo, che altro non sembrano se non ornamenti, come in una nostra città dove se ne fosse imposta la moda. Ma già Tabriz, altro dei grandi agglomerati, sembra un corpo disseminato di nei, tutte le donne indossano il chador nero nella sua forma integrale, che lascia libero solo il viso.
A Teheran, poi, ci sono le parabole. A Teheran, tutti sanno chi è Paolo Maldini. A Teheran, l’ultimo rito dei giovani è la chirurgia plastica: chi non può permettersela si fascia comunque il naso con un cerotto, per nascondere falsi postumi d’una inesistente operazione. Il resto del paese a questo non ci arriva neanche con la fantasia.
Alla diversità centro-periferia, si somma quella economica. Molte delle lamentele riguardano, prima della questione delle libertà individuali, il portafogli. Difficile negare che all’origine del successo elettorale di Ahmadinejad, per quante possano essere state le volte che ogni pashdaran ha votato, ci sia l’esasperazione degli stanchi di essere poveri in un paese ricco.
Quali che siano i motivi, gli scontenti del regime escono vincitori schiaccianti rispetto ai supporters dello stesso, almeno stando al bilancio che possono fare le nostre orecchie.
Fuori dalle mura di casa la presenza del regime teocratico, nonostante i visitatori siano scontati dalla repressione poliziesca, ci appare evidente. L’estetica della Persia contemporanea, benché variegata, presenta un tratto totalmente comune: se non hai una gigantografia degli Ayatollah ad un raggio di duecento metri, vuol dire che non sei in Iran (o che ti sei perso nel deserto). L’iconoclastia dei sunniti non ha corrispondenza nella cultura sciita: sono frequenti anche le rappresentazioni di Alì, Imam discendente di Maometto. A noi, dicevamo, la polizia non dà problemi (il peggio che ci capita è uno sbirro di frontiera che tenta di convertire quello di noi che si dichiara ateo e, stretto alle corde, pure fedele seguace del cantante rock Bob Marley, da cui la sua strana capigliatura che tanto allibisce; o un caldo invito a rincasare là dove ignoravamo ci fosse il coprifuoco in vigore). Ma di detenzioni per reato di passeggiata mano per mano con ragazza nubile, di intimazioni a coprire il ciuffo di capelli refrattario al chador, di frustate a causa del vino, di ragazze conciate troppo a puttane (ovvero con lo smalto sulle unghie) per avere libero l’ingresso agli uffici, ne veniamo costantemente a conoscenza.
La tolleranza del regime si è in realtà continuamente accresciuta negli ultimi dieci anni, e questo tutti ce lo confermano. Non possiamo però non rimanere straniti dai ragazzi che per strada precedono di due metri le amiche, dagli autobus divisi tra le vesti nere delle donne nella parte posteriore e gli uomini in quella anteriore, o dai cinema puniti coi roghi per la loro lascivia.
Ancora più trasversale delle effigi di Khomeini, è l’ospitalità della gente. Ciò rende il viaggio di gran lunga più semplice, e interessante. Se vi capita (noi ve lo auguriamo) di passarci, dalla Persia, solo preparatevi alla fatidica domanda: di che religione siete? Non nasconde minacce, potete rispondere quel che vi pare. Solo non concepiscono il non appartenere ad alcuna. È come dire di non essere nato in nessun luogo, o sotto nessun segno zodiacale. Ridono, credono che sia una battuta, e la discussione, ancora una volta, può andare avanti il tempo di diversi chai.