di Federica Vicino

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XIV

“Artificiale”, bella parola: “artificiale”. Eppure davanti alla capigliatura fosforescente della dottoressa, mi viene in mente un altro aggettivo: “artificioso”. Sono le ultime novità del mio vocabolario: “aggettivo” – “artificiale” – “artificioso”, altre tre parole che ho memorizzato e compreso – e che so ripetere, naturalmente.

– La differenza fra un clone e la sua origine risiede in quest’area del cervello – (e mi tocca la testa, in un punto ben preciso) – qui, secondo gli ultimi studi, hanno sede tutte le terminazioni nervose che determinano il carattere, la personalità, le attitudini, le predisposizioni, ereditarie e non, di ogni singolo individuo: l’intelligenza, se vogliamo impiegare un termine un po’ abusato. Ed è sempre qui che si annidano i punti di collegamento caratteristici, o meglio caratterizzanti dell’io; i più delicati. In medicina si chiamano “sinapsi”.

Sono la parte più preziosa di cui un organismo vivente disponga. Dalle sinapsi dipendono le principali funzioni del cervello: in quest’area sono raggruppate quelle preposte alla memoria, al linguaggio ed all’elocuzione, all’apprendimento… tutte raggruppate in questa piccola, minuscola area, e direttamente collegate fra loro. Il non agire di una sola di esse può comportare un’interruzione nella normale attività del cervello, che in alcuni casi può essere anche patologica. Il non agire di nessuna di esse, implica l’assoluta mancanza di autodeterminazione dell’individuo a livello cerebrale; risultato: l’individuo non ha coscienza di sè: l’individuo in quanto tale non esiste.

Il ragionamento non fa una grinza. La dottoressa Fenner mi guarda e sorride. Sorriso consapevole, il suo: se solo le rispondessi con un sorriso, sarebbe consapevole anche il mio – e lei avrebbe vinto. Potrebbe così dare il via all’ultima fase dell’esperimento.
Sotto quel guazzabuglio di capelli coloratissimi, fluttua un’intelligenza fuori dal comune. La dottoressa Fenner ha capito: ha capito che so parlare, ha capito che sto fingendo, ha capito che capisco tutto quello che gli altri dicono; ha capito che ho capito, e io lo so.

– Coraggio, Sara: dimmi anche solo una parola. La più facile. Ripeti: “sinapsi”.

Sinapsi: esse, i, enne, a, pi, esse, i.

XV

L’infermiera nel gabbiotto continua a sorridermi, mielosa come una gatta in calore; so dai suoi occhi che acconsentirebbe a qualsiasi cosa, potrei prenderla -così com’è- e portarmela in un motel di quart’ordine, sbatterla su di un letto sudicio, sfilarle le mutandine e lasciarla sguazzare nella folla mortale di virus e batteri dimenticati lì dalla precedente scopata. Si lascerebbe condurre senza la minima esitazione, come una martire verso il patibolo. Ma di aprire il portone e lasciarmi passare non vuol saperne: ossequiente dedizione verso il dovere. Tipica caratteristica degli idioti.
E non c’è nulla di più intollerabile di una donna idiota.
Se c’è, poi, un modo per mettere i miei ormoni in uno stato di passività irreversibile, questo è la combinazione di idiozia e disponibilità.
Come se non bastasse, il nervosismo si sta impossessando di me, dalla cima dei capelli alla punta dei piedi. Un portone di vetro infrangibile mi divide da lei, dalla mia Sara. Prima non ci avevo pensato. Mi guardo attorno e non vedo che vetrate autoriflettenti, ingressi bloccati e sorvegliati, sbarre e recinzioni, telecamere a circuito chiuso. L’astronave marziana è inattaccabile.
Metterei bombe a ogni angolo e provocherei la deflagrazione del secolo, pur di riuscire ad entrare – ma ad esplodere, ora come ora, è solo il mio cuore, e in gran segreto.
Forse aveva ragione Behlen: sarebbe stato meglio lasciar fare a lui.
Trascorre dell’altro tempo prezioso: l’infermiera sorride, il gabbiotto gabbiotteggia, il portone portoneggia, il Deposito Sanitario depositeggia, il tempo passa… dovrei dire temporeggia, ma la tragedia è proprio questa, nonostante l’etimologia, il tempo non temporeggia. Non temporeggia mai. Delirio alle stelle; nemmeno quando sono fatto mi impelago in ragionamenti così… è evidente che sono disperato.
Sono disperato. Voglio Sara. Non riesco quasi a pensare ad altro: voglio la mia Sara.
Il volere a ogni costo, pensiero fisso che mi rintrona nel cervello, mi riporta al passato più remoto cui potessi approdare: quei lontanissimi giorni di scuola in cui frequentavo il corso di teatro; l’insegnante era una regista dall’età indefinibile (bambina nei modi, donna nell’aspetto), molto affascinante, per nulla idiota. Era una delle poche donne al mondo che riuscivo ad ascoltare, nonostante parlasse in continuazione. Ebbene, l’ultima lezione che facemmo con lei si concluse con una specie di rito mediatico, che ancora ricordo: ci chiese di scrivere su di un foglio ciò che non avremmo mai acconsentito a fare su di un palcoscenico; poi ci chiese di chiudere quel foglio in una busta da lettera e di sigillarla. Fine dell’esercizio. E quella busta sarebbe rimasta sempre solo nostra, immobile nel tempo e nella storia delle cose che avrebbero attraversato il palcoscenico della nostra vita. Aveva a che fare con il “volere”, l’intera faccenda, perchè la regista-insegnante sosteneva che ciò che un attore in palcoscenico non sa fare corrisponde esattamente a ciò che non vuol fare: una specie di blocco psicologico, un trauma che va rimosso – se la si vuol dire con il buon vecchio Freud. Insomma una di quelle idee che infiammano la mente degli adolescenti più d’una massiccia dose di allucinogeni. Mi venne in mente il mio foglietto bianco e la mia busta da lettere; mi venne in mente quell’unica parola che ci scrissi su, un verbo, rigorosamente all’infinito: rinunciare.
Ciò che non farei mai, nemmeno se me lo chiedessero, nemmeno se me lo chiedessero sotto la minaccia delle armi, è rinunciare. Sul palcoscenico come nella vita, nuda e cruda.
Mi sentii quasi un eroe, allora, per questo: non chiedetemi mai di rinunciare. Lo scrissi sul foglietto, fiero di me e della mia forza; e quella busta è ancora custodita da qualche parte, in uno degli angoletti polverosi della mia vita. Non l’ho mai aperta; soprattutto per non ritrovarmi davanti al naso una buona motivazione per l’autoannientamento. Quanto alla regista-insegnante, non l’ho più incontrata; ma se mi dovesse capitare di rivederla, la ringrazierei con tutto il sarcasmo che merita, per avermi dato quella grande lezione di vita, che non è servita a farmi diventare nè un attore nè un uomo.
L’erba clonata che si distende davanti ai miei occhi risveglia anche quest’incubo. Fino a questo momento, nella vita ho rinunciato praticamente a tutto: adesso come adesso rinuncerei perfino alla discussione con questa infermiera idiota. Ma una cosa è certa: non rinuncerei mai a Sara. E dunque, se questa storia del giochino teatrale era vera – e davvero ciò che si riesce a fare corrisponde esattamente a ciò che si vuol fare e viceversa – allora un’altra carta da giocare devo pure averla! Basta concentrarsi, pensarci un po’ su. Mi concentro. Ci penso. E il ragionamento va più o meno così:
Domanda: dunque, cos’è che so fare io?
Risposta: sicuramente non parlare. La conversazione non è il mio forte.
Domanda: e dunque cos’è che so fare sul serio?
Risposta: scrivere.
Certo, scrivere!
Carta e penna ce li ho: scrivo un biglietto, personale, per questa non meglio identificata dottoressa Patricia Fenner. Dalle viscere tiro fuori il sorriso più suadente che ho, per ottenere dall’infermiera idiota che, almeno, faccia in modo che il biglietto giunga a destinazione, nelle mani della Fenner, di lei e nessun altro.
– Ci vorrà un po’… – mormora l’infermiera.
– Posso aspettare. – mento.

Ora mi maledico e stramaledico, perchè di tempo ne ho aspettato così tanto da sentirmi completamente svuotato. E anche l’idea del biglietto, da una buona manciata di minuti ormai, ha iniziato a sembrarmi un’autentica cazzata, visto l’esito della mia geniale trovata: nel Deposito Sanitario non mi fanno entrare; è la dottoressa Fenner a venir fuori, con un’aria a metà fra l’indignato e l’impaurito. Mentre mi godo l’assurdità dei riflessi dei suoi capelli rosso vermiglio, mi afferra per un braccio e mi trascina in disparte, sul retro dell’astronave marziana, nel fitto della vegetazione clonata.
Il cuore le palpita in un petto inflaccidito, nonostante i molti miracoli chirurgici. E’ evidente che l’ho messa in agitazione. E’ il momento degli sguardi. In un’ombra di plastica, che non ripara affatto dalla patologica afa metropolitana, la dottoressa Fenner mi studia, tenendo l’ansia per sè e imponendosi una buona dose di self-control.

XVI

Autocontrollo: concetto decisamente umano; segnale inequivocabile di equilibrio interiore, saggezza, civiltà; primo indizio di ottima salute mentale.

1a VOCE. Avete idea di quanto controllo sia necessario per riuscire a mentire? E per far sì che la menzogna sia credibile?
2a VOCE. Dottoressa Fenner, vuol essere più chiara, per favore? Cosa vorrebbe asserire?
1a VOCE. Ho bisogno di più tempo, per trarre le esatte conclusioni sul caso del clone.
2a VOCE. Dottoressa, ho qui in mano i suoi rapporti, e tutte le cartelle cliniche relative agli esami che lei ha effettuato: documenti che attestano l’assoluta assenza di qualsiasi attività cognitiva in quell’essere! Vuole forse mettere in discussione il suo stesso lavoro?
1a VOCE. Non metto in discussione nulla di ciò che fin qui ho certificato. Chiedo solo un po’ più di tempo!
2a VOCE. L’esperimento è concluso, dottoressa. Abbiamo tutti i documenti in regola ed il consenso di Sara Bestern in persona per la soppressione del clone: per quanto mi riguarda l’argomento è chiuso.
1a VOCE. Dottor Jordan, la responsabile della parte psichiatrica dell’esperimento sono io, e io non ritengo sufficienti i dati fin qui raccolti per legittimare la teoria secondo cui quell’essere sia privo di attività cerebrali di carattere razionale e cognitivo!
2a VOCE. (alterata) Il clone le ha forse parlato? Ha articolato un qualsiasi suono? Un sospiro, un singulto, così per sbaglio… ha pronunciato una sola sillaba? Mi risponda, dottoressa: è stata in grado, lei, responsabile della fase più delicata e decisiva dell’esperimento, di farci sentire la voce di quell’essere?!
1a VOCE. (dopo una breve esitazione) No.
2a VOCE. Non mi sembra ci sia altro da aggiungere.
1a VOCE. Il clone ha delle reazioni emotive: ne sono sicura.
2a VOCE. Anche le cavie, in laboratorio, manifestano delle minime reazioni emotive: cosa vogliamo insinuare con questo?
1a VOCE. Il fatto è che il clone le controlla, le sue reazioni emotive!
2a VOCE. E con questo?
1a VOCE. Le controlla: cioè le tiene nascoste, per evitare che noi ce ne accorgiamo. Non so perchè lo faccia, probabilmente per paura, ma lo fa!
2a VOCE. Non capisco dove si voglia arrivare con queste ipotesi.
1a VOCE. Io sto parlando di finzione! Dottor Jordan, le sto dicendo che sono quasi sicura che quell’essere sia in grado di fingere. E fingere è una delle più elaborate attività intellettive: uno dei livelli più alti! Se davvero fosse così, questo dimostrerebbe che il clone ha delle notevoli capacità e, soprattutto, una precisa cognizione di se stessa in quanto individuo.

E’ andata più o meno così, mi racconta la dottoressa Fenner. Lei ha tentato di salvare Sara, ma la Direzione Sanitaria le ha risposto picche: troppo scottante, la storia del clone risvegliato, per portarla ancora avanti.
– Anzi – sostiene con un rammarico che non mi riesce di credere autentico – forse quel mio tentativo ha finito col peggiorare le cose, perché ho ipotizzato ciò che loro effettivamente temevano: e cioè che il clone fosse un organismo vivente a sè, consanguineo di Sara Bestern, ma completamente differente da lei. Così, per evitare rischi, hanno deciso di eliminarlo: si immagina quale scandalo sarebbe scoppiato se si fosse scoperta tutta la vicenda?
Mi guarda negli occhi, ripassando a mente ciò che ha appena detto, e le sfugge un sorriso. Un sorriso complice. Il mio biglietto ce l’ha ancora stretto fra le mani: lo osserva con rinnovata apprensione. Trascorre una interminabile manciata di secondi: io ho la mia solita tattica offensiva, il silenzio. Lei non ha tattica. E butta lì una frase, infelicissima:
– Quanto vuole per quella cassetta?
Ora sono io a ridacchiare.
– No, davvero! – insiste la Fenner – Posso pagare anche cifre considerevoli!
Mai immaginata un’arma più vile del ricatto, e più efficace. Patricia Fenner trepida; la scena è quasi penosa. Verrebbe voglia di abbandonarla al suo destino di logorante tortura, la rossa dottoressa. Ma trepido anch’io – e la mia è la condizione peggiore. Il pensiero e lo sguardo salgono su, lungo la parete liscia e bruna del Deposito Sanitario, sulle vetrate a specchio; sulle finestre sigillate e protette da solide sbarre, in alto, all’ultimo piano.
– Sara è lì su, non è vero? – domando.
La dottoressa non risponde, ma io so che Sara è in una delle stanzette dell’ultimo piano. Con forza ripeto a me stesso, ininterrottamente: non possono averla già addormentata.
Addormentata… bella parola! Degna del penoso paternalismo con cui la dottoressa racconta la favoletta, cercando di difendere la sua integrità morale e professionale.

XVII

– Così dicono…
– Addormentare?
– Sì. I cloni non nascono e non muoiono: vengono svegliati o addormentati.
– E perchè proprio “addormentare”?
– Perchè loro credono che non faccia male.
– E invece fa male?
– Non lo so: non sono ancora stata “addormentata”. Ma svegliarsi fa male, questo sì, posso dirtelo con certezza.
– Cambiamo argomento.

Quando tornai dall’ambulatorio di Sorrel ero confuso ed angosciato.
Sorrel, il mio vecchio compagno di banco del liceo, aveva studiato medicina, come suo padre aveva voluto, ed era diventato medico, come suo padre. Studio avviato, pazienti a frotte, soldi, benessere, moglie, figli, ferie e qualche svago (non sempre lecito). Nella sua vita, io facevo parte dell’ultimo capitolo, quello fra parentesi; oltre ad essere un suo paziente. Ho sempre pensato a lui come al peggiore dei medici generici sulla piazza, ma siccome quando si tratta di salvare la pelle un dottore vale l’altro, e tutti valgono zero, avevo preferito lui alla folla di costosissimi illustri sconosciuti che avrebbero giocato a rimpiattino con i miei mali facendo leva sulla mia ignoranza.
Quel mattino lo attesi davanti all’ingresso ancora chiuso dello studio, contando ininterrottamente 8 passi, 4 in su e 4 in giù sul vialetto d’accesso. Mi accorsi che era arrivato, perchè udii la sua voce rimbombare nel silenzio ottuso dei miei sensi: scoprii così che davanti al portoncino, nel frattempo, s’era radunata una piccola folla di giovani precocemente invecchiati, di politrapiantati divorati dal caldo e dall’anoressia, di pazienti anonimi e anomali dalle facce verdi e gialle. Avevo i conati di vomito.
– Cosa c’è, Eric, stai davvero così male?- sorrise Sorrel – E’ la prima volta, da quando ci conosciamo, che ti vedo in piedi prima di mezzogiorno!
Scivolai diritto nella saletta delle visite, e mi lasciai cadere sulla poltrona.
– Sei veramente a pezzi! – insistè Sorrel- Cosa ti è successo?
Fu un errore parlargli dell’incredibile incontro della sera prima, lo intuii quasi subito. I suoi occhi bovini si riempirono di una serietà tutta compìta e professionale, che mi chiuse improvvisamente in faccia le porte della nostra antica confidenza, non appena la storia cominciò ad apparire per quella che era. Del resto avevo rinunciato quasi subito a pensare a lui come ad un amico; per anni ci avevano legato solo gli interessi, quelli terra-terra del magnifico proibito: brutti giri di squallide persone nei quali io praticamente ero nato, ma dove gente come Sorrel, il dottor Mingus Sorrel, rischiava di rimetterci le penne, ovvero la faccia, la rispettabilità, la professionalità, e anche la famiglia! – moglie, figli, genitori e parenti tutti. Delicato, il mio ruolo, in questa telenovela dello statu quo medioborghese: ero il depositario del terribile segreto, la perversione sessuale di Sorrel. Della quale, in realtà, non sapevo molto di più del fatto che esistesse – da tempo immemorabile – e consistesse in qualcosa di inconfessabile. Ogni volta mi toccava l’ingrato compito di trovargli ragazze rigorosamente disposte a tutto e di consegnargliele condite di massicce dosi di allucinogeni, “perché non si rendessero conto di cosa gli accadesse” – s’era limitato a spiegare. Ed essendo Sorrel un medico, avevo preferito rinunciare anche solo ad immaginare cosa accadesse alle ingenue disperate prostitute che cadevano nella mia rete.
Questo vecchio rapporto di sordida complicità rendeva il mio medico curante leggermente manipolabile, da parte mia. Fidando sulla sua proverbiale vigliaccheria, m’ero risolto di andare da lui, a parlargli dell’assurdo incontro della sera prima, pur non essendo ancora ben consapevole di ciò che realmente volessi sapere. Il primo dubbio che avevo era frutto del mio male primo ed incurabile: l’ipocondria. Dovevo assicurarmi che il clone non avesse potuto trasmettermi una qualche inimmaginabile infezione durante il rapporto sessuale.
– Ieri sera al pub – iniziai – ho conosciuto una ragazza… Anzi, per essere precisi, credevo di aver conosciuto una ragazza.
All’inizio Sorrel fu incredulo; anche perchè, andando contro la mia indole, spesi un fiume di parole prima di riuscire a centrare esattamente l’argomento. Poi lo vidi rabbuiarsi. E questo mi mise in allarme. Dopo menate e battutacce sulle droghe sintetiche, delle quali mi aveva più volte raccomandato di non abusare; dopo grasse risate e finta meraviglia di finto amicone; quando gli raccontai del tatuaggio d’origine impresso sulla spalla di Sara, tacque di colpo. Tacque e basta, senza chiedermi altre spiegazioni. Mi domandò solo se ricordavo il codice impresso nel tatuaggio: io lo ricordavo con esattezza, ma risposi di no.
A quel punto era ormai chiara la portata dell’errore che stavo commettendo. Sapevo della rete d’informazione riservata del Servizio Segreto di Sicurezza Sanitaria Nazionale; e potevo facilmente intuire dalle sue reazioni che Sorrel fosse al corrente del “disguido” occorso al Deposito Sanitario cittadino, del risveglio, dell’esperimento e della fuga del clone! Ma cosa diavolo ero andato a fare lì, nello studio di quel viscido pervertito, allora? Lo sguardo mi cadde sul monitor del computer, che mi volgeva le spalle e sparava una luce azzurrognola sugli occhiali di Sorrel: fu tutto chiaro. La rete, il circuito segreto del Servizio Sanitario Nazionale: una banca dati assolutamente inaccessibile per un non-medico, ecco cosa cercavo lì dentro, ecco cosa volevo da Sorrel: doveva farmi entrare in rete, dal suo computer! Dovevo scoprire se Sara era a quell’ora già ricercata, se il Servizio Segreto era già mobilitato, se e quali indicazioni erano state date ai medici per far fronte all’emergenza.
Sorrel fu categorico: si trincerò nella roccaforte del segreto professionale, della deontologia, degli obblighi istituzionali e degli impegni presi sotto solenne giuramento. Divenne un macigno inattaccabile; vacillò dinnanzi alle mie minacce di raccontare le sue scappatelle pseudoerotiche, ma tornò saldamente in sella con un decisissimo:
– Non hai le prove!
Lo incalzai, ma fu subito chiaro che la battaglia era persa.
– Ti sputtano Mingus! – gridai – Giuro che ti sputtano con tutti: con tua moglie, con i tuoi genitori, con i tuoi colleghi medici! Se apro bocca ti rovino, lo sai!
– Non hai una sola prova contro di me!
– Le ragazze! Tutte le ragazze che ti sei trascinato qui dentro! Sarebbero centinaia di testimonianze, tutte contro di te.
– Non ne convincerai una sola di quelle ragazze ad aprire bocca, Eric! Sono state pagate! Tutte! Ed anche molto bene.
– Vedremo.
– Sono state pagate così bene, che tornerebbero qui stanotte stessa! Qui: nude, passive e silenziose, a mia completa disposizione! E senza battere ciglio!
– E’ quello che vedremo!
– E poi, come potresti mai convincerle a parlare, tu, Eric?! Ma ti sei visto? Quale credibilità… quale dignità potresti mai… Guardiamo in faccia la realtà: sarebbe la parola di un disadattato senza arte nè parte contro quella di uno stimato professionista! A chi crederebbero, secondo te?
Negli ultimi istanti la tensione era arrivata alle stelle, la mia, quella di Sorrel… mi ritrovai a pochissimi centimetri dalla sua faccia, il bavero del camice incastrato nei miei pugni irrigiditi, il monitor del computer che vacillava vertiginosamente.
– Sai già tutto, non è vero? – gli sibilai addosso.
Non rispose, ma accennò un sorriso che la diceva lunga sul suo livello di consapevolezza. Lo mollai.
– Solo un pazzo come te poteva finire con l’invaghirsi di un clone! – commentò.
Ero distrutto. Mi ritrovai a implorarlo:
– Dimmi solo chi è la sua origine. Ti chiedo solo questo.
Sorrel si ricomponeva, con una meticolosità ed una lentezza irritanti.
– Te lo chiedo in nome della nostra vecchia amicizia.
Allora mi piantò lo sguardo occhialuto negli occhi, e disse, scandendo ogni parola:
– Hai una sola fortuna, Eric Drexter: contrariamente a quello che pensi tu, io sono un professionista serio, e per questo motivo non ti denuncerò. Per il resto, ti consiglio di sbarazzarti quanto prima del clone, perchè la faccenda è molto più delicata di quello che pensi. Soprattutto, levati dalla mente quest’assurda idea del volerla salvare. Non ce la farai mai! I cloni sono cloni, Eric, non esseri umani. E adesso, fammi il favore, levati di torno! E trovati un altro medico curante.
– E tu trovati un altro puttaniere.
(Ora, quest’ultima battuta, che pronunciai con la schiuma alla bocca, non ha una sua importanza specifica ai fini della storia che sto raccontando; ma deve essere riportata, perché almeno in cuor mio possa continuare ad albergare un senso di infantile, ma imprescindibile, giustizia. Stimato professionista vs puttaniere: 1 a 1).

(10-CONTINUA)