di Biagio Catalano

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Abraham era un “tipo strano”; terzo di sette figli, fino all’età di sette anni rimase costretto nel suo lettuccio, affetto da malattie che nessuno riusciva a diagnosticare. Eppure, dopo quel periodo la vita di quel fanciullo malaticcio mutò quasi del tutto direzione: amico di personaggi “particolari” come Wilde e Byron, provvisto di un’ottima cultura personale, il triste ragazzino apatico si trasformò in un gigante dai capelli rossi, conseguì la laurea in matematica, divenne un atleta di indubbie doti e l’agente teatrale di uno dei maggiori attori dell’epoca, oltreché uno degli scrittori più famosi della letteratura moderna.

Abraham “Bram” Stoker (1847 – 1912) deve le sue fortune a una sola opera: infatti, il suo Dracula (1897) è sinora il terzo bestseller al mondo di tutti i tempi. Il perché di questa fortuna non risiede in intrinseche qualità artistiche dell’opera in questione: molto probabilmente (ma non ne abbiamo le prove certe) Bram fece parte di qualche conclave misterica (forse l’Astrum Argentum, affiliata all’Ordo Templi Orientis), e ciò potrebbe in parte giustificare la presenza nella sua opera omnia di quei temi che ne hanno fatto la fortuna.
Si trattava di archetipi, di elementi culturali ben presentiti a livello di inconscio di massa, ma che affondavano al dilà di quelli apparenti: nulla di strano, quindi, se egli ebbe tanta fortuna con il suo capolavoro. Malgrado la critica lo abbia sempre ritenuto semplicemente un “romanzo gotico”, l’intreccio del Dracula implica la presenza di concetti contaminanti a vasto raggio, che lo rendono qualcosa di più che il prototipo par excellence del romanzo gotico: per Stoker il vampirismo è un pretesto discorsivo folkloristico su cui sostratizzare elementi di ben altra natura (magna cum parte miscelati agli eventi della sua vita), vieppiù insospettabili, elusivi, striscianti, misterici, che eludono e si appropriano di quelli folkloristici standard e delle derivate critiche sull’ambiente vittoriano modificandoli, plagiandoli, piegandoli a piacimento alle sue necessità narrative. Stoker fu un grande scrittore non perché il Dracula sia il non plus ultra della raffinatezza formale: lo fu perché esso è un messaggio “cifrato” a metà strada fra l’onirico e il “metafisico”.

Le basi arcaiche

Il territorio che comprende gli odierni Carpazi anticamente era stato sottoposto all’egemonia di un popolo molto strano: i daci o geti. Geniali costruttori edili, abili metallurgisti e molto versati in astronomia (perlomeno stando al fatto che parecchi loro monumenti ciclopici risultano orientati secondo determinati allineamenti e costruiti in base a particolari proporzioni), essi furono sicuramente in stretto contatto con egizi, celti e greci, finchè non svanirono ad opera dei romani; i daci adoravano parecchi dèi, fra i quali un certo Gebeleisis (poi assimilato al dio Vahagn, il san Giorgio armeno) e una dea dell’amore sua sposa: ma quello che forse è il più enigmatico fra tutti fu un tal Zalmoxys.
Secondo molte fonti, quest’ultimo fu una sorta di profeta; celebrato da Platone, Erodoto, Strabone e tanti altri, di lui si dice che fosse sparito per tre anni e ricomparso al quarto apportando nozioni straordinarie (un po’ come Apollonio da Tiana): ma la cosa più strana di questo personaggio consiste nel fatto che egli andasse predicando la possibilità di divenire immortali sia nel corpo che nell’anima. Quando, ogni cinque anni, i geti desideravano comunicare con lui, infilzavano un messaggero fra tre lance; vale a dire, né più né meno lo impalavano (un metodo molto spiccio ma “logico” per metterlo in comunicazione con “l’aldilà”). Il totem dei geti era il drago; essi stessi, poi, si chiamavano “popolo-lupo” (vedasi anche il legame con la glossa est-iranica verhkan, “terra dei lupi”). Difficile non vedere in Zalmoxys, il dio nascosto e semi-demoniaco dell’immortalità, un’oscura e arcaica fonte del Dracula romanzesco.
Analogo discorso può essere fatto anche per quanto riguarda concezioni similari a tutt’oggi vive in Albania, nella quale nazione sopravvivono ancora tradizioni condivise soprattutto in tutto l’alveo balcanico sul vampirismo e sull’idra (kuçedër o mamadräge – “mamma-drago” -). Il mito di Scanderberg, eroe culturale albanese assimilato a san Giorgio, è stato costruito anch’esso sulle imprese di un personaggio storico, Gjergj Castrioti (1405 – 1468; quasi contemporaneo di Vlad Tepes), la prima redazione della cui biografia, effettuata ad opera di Marinus Barletius, risale al 1510: Scanderberg, combattente anch’esso per l’indipendenza contro i turchi, era nato dopo che sua madre aveva sognato di mettere al mondo un drago, è invulnerabile perché “nato con la camicia” (ossìa avvolto nella placenta), riesce a soffocare 50 nemici fra le proprie braccia e vola con un cavallo magico; alla sua morte i suoi compatrioti si fabbricano amuleti con le sue ossa (e forse i resti del terribile Tepes hanno fatto la medesima fine…).
Il mito di Scanderberg è codificato su quello dell’eroe-drago, spesso figlio del re (quindi, principe) che lotta contro i turchi, mentre nel nord dell’Albania è figlio del popolo, è “nato drago” ed è capace di volare: simili concezioni si ravvisano anche in seno alle tematiche derivate da tradizioni bosniache intessute sull’altro eroe nazionale albanese, il pastore e cacciatore Muj. Quest’ultimo è dotato di una forza sovrumana (come lo è il Dracula stokeriano): capace di sradicare le querce, Muj annienta gli slavi, muore una prima volta e resuscita grazie all’aiuto del proprio fratello Halil (tema di Castore e Polluce), ed infine muore una seconda volta, scomparendo sottoterra, ove attende il ritorno dell’età degli eroi.

Inchiodando lo Spettro sull’Asse del Mondo

Come oramai noto, il nome Dracula è stato fatto inerire al personaggio storico del principe Vlad Dracula (1430 – 1476), detto “Tepes” per la simpatica abitudine di punire i nemici impalandoli o squartandoli; l’iconografia deriverebbe, più propriamente, dall’ordine del Drago (Sarkany Rend – il cui emblema era il drago su una croce -, fondato nel 1347 con l’approvazione di papa Eugenio IV), del quale era stato investito suo padre Besarab Dracula a Norimberga nel febbraio 1431 da parte dell’imperatore Sigismundo di Lussemburgo, ma risulta comunque, per uno “scherzo del caso”, connesso in origine alla glossa drakul, che significa “il diavolo” o “piccolo drago”, e, per estensione, “figlio del drago” o “di Satana”.
La cruda realtà è pertanto che il mito balcanico di Dracula venne codificato da Stoker sulla figura di Tepes, che fu un cristianissimo eroe nazionale rumeno ricordato a tutt’oggi addirittura nel corso di funzioni religiose solenni: tanto fu fatto per motivi politici (si trattava anche dell’eterna polemica contro le classi nobiliari agiate, dei “succhiasangue del popolo”), da parte delle minoranze etniche sassoni e germaniche stanziate in Transilvania e Valacchia, che il voivoda penalizzava commercialmente e politicamente. Vlad fu identificato in un vampiro solo da Stoker, e la sua storia riadattata cripticamente a tematiche che lo scrittore dovette conoscere alla perfezione. Il tema del vampiro venne soltanto sfruttato con cognizione di causa ed effetto prima dalle suddette minoranze, nella fattispecie, e poi da Stoker (che era irlandese e molto addentro alla mitologia celtica, anglosassone e germanica), previe informazioni fornitegli da alcuni suoi corrispondenti ungheresi e, forse, rumeni: la valenza è quella di un’entità a carattere luni-solare, ma anche legata a concezioni basate sul tema del Drago e del suo avversario.
La Romania medievale fu un crogiolo di varie nazionalità (veneziani, olandesi, sassoni, turchi etc.); come conseguenza, fu anche un melting pot di folklore, credenze e costumi. In questo settore specifico, tali sorgenti sono addirittura inflazionate: parecchie concezioni ruotano attorno al tema del vampirismo, e tutti questi formats non sono altro che referenze a tematiche nidificate sul typos dell’eroe solare, delle quali quello del palo di frassino è un tema portante.
Nell’area norreno-germanica, sussistevano diverse tradizioni che si ricollegavano a temi del genere, e che, in relazione al modello di sacrificio “redentivo”, confluivano in un nodo gordiano di miti e concetti di profilo popolare. In questa mitologia, l’asse del mondo, ossia la croce, era il frassino Yggrdrasil (l’ashvatta hindu, il non-morto), legato al dio supremo Odin, che per questi popoli corrispondeva a “Mercurio”, sebbene la demarcazione non fosse affatto così stretta (vedasi il caso dell’analogia tra il greco Hermes e Kumarbi, il “Saturno” hurrita): su quest’albero, alle cui radici stava arrotolato il drago del caos Midgardrsomr, il dio si inchiodava e si feriva in omaggio a se stesso, con una lancia di frassino anch’essa. Questo stesso dio, noto come Wotan in area germanica, fu poi “sincretizzato” nel folklore germanico con personaggi quali l’Hellerkonge, un “demone” decapitato, noto per il tema della Grande Caccia di Yule, ossia il Midvinterblot (“Mezz’inverno di sangue”) scandinavo.
Con l’instaurazione dei rapporti commerciali e culturali fra area brétone, baltica, Transcaucasia, Scandinavia e Irlanda (nella quale ultima sussisteva l’usanza di conficcare un palo nel petto dei cadaveri al fine di immobilizzarne il fantasma: palo che, proprio in Transilvania così come in Slesia, era sostituito da uno di quercia), queste nozioni iniziarono a filtrare a vasto raggio oltre l’area in questione. Il fatto che nel mito di Dracula si riscontrino temi proprii agli schemi mitici mitteleuropei o scandinavi, non deve quindi stupire. Già in area gaelica ritroviamo tematiche analoghe, poi riconnesse in vari modi al ciclo arturiano ed infine in quello di Robin Hood (che riaffiora velatamente nella Robin Hood Bay del romanzo): in Irlanda troviamo Bran (molto probabilmente versione “raffinata” di Crom Cruach), un dio dei morti decapitato, assimilato a Saturno ed a Wotan stesso, che associa il modello dello shapeshifter a quello del nemico dell’ordine, una sorta di Golia indeuropeo. A proposito, un particolare curioso consiste nel fatto che il castello (tuttora esistente) nel quale visse Dracula per un breve periodo, si chiami “rocca di Bran”.
Il concetto-base del Dracula affonda pertanto nel mistericismo a carattere dionisiaco “cristianizzato”, sulla falsariga del tema della lotta contro il mostro del caos e della rivalità del “terzo incomodo”, unificato a temi di sacrificio. A ben più elevato ingrandimento, saltano fuori dei dettagli alquanto interessanti, che ci riallacciano allo schema calendariale e simbolico proprio ai miti complessi, riassunto e cifrato in maniera “psichica”.
Troviamo il numero 50 (49 casse più quella in cui Dracula stesso dormiva) nel totale delle casse di terra natìa che il protagonista porta con sé in Inghilterra sulla nave Demetra (un nome alquanto indiziario); è un numero che abbiamo trovato anche, ad esempio, nel mito analogo di Scanderberg o nelle 50 donne con cui giacciono Bran e Asclepio, oltrechè a proposito del culto dei morti e dell’usanza della preghiera per i morti in Irlanda. Stoker fa iniziare la vicenda del suo romanzo il 1° maggio (Beltan) 1897, e terminare il 1° novembre dello stesso anno, ossia il capodanno celtico; e questa è una demarcazione cronotopica e calendrica che si rifà al metodo Fagan / Bradley (l’asse Aldebaran / Antares), già usato dai sumeri per dividere il loro anno in due stagioni “esatte”. E che era noto pure ai popoli celto-germanici.
Peraltro, lo scrittore evitò di scoprire troppo delle componenti palesemente misteriche: così, la vicenda effettiva iniziava il 4 maggio, ossia – come lui stesso precisa – la vigilia di san Giorgio (“quando le forze delle tenebre celebrano la loro vittoria”, scriveva nell’opera), e terminava esattamente sei mesi dopo.
I dettagli sono miriadi, per poterne parlare diffusamente; tra l’altro, furono criptati in maniera egregia, e in questo Stoker fu magistrale, degno di “Giovanni” e Omero. L’opus maxima di Stoker è qualcosa che converrebbe analizzare molto più in profondità di quanto non sia stato fatto; forse lo scrittore voleva dirci qualcosa che non poteva esprimere apertamente, nel clima bigotto della sua epoca.