neoconlies.jpgdi David J. Rothkopf

Un dibattito filosofico sempre più aspro vede i sostenitori della politica dell’ex presidente George H. W. Bush e molti membri della sua vecchia squadra di esperti di politica estera, con a capo il consigliere della Sicurezza nazionale Brent Scowcroft, contro coloro che sostengono le opinioni del presidente George W. Bush e della sua squadra, composta dal vicepresidente Dick Cheney, il segretario alla Difesa Donal Rumsfeld e il segretario di Stato Condoleezza Rice. Quelli che Scowcroft chiama i «tradizionalisti» della squadra di Bush padre sono opposti ai «trasformazionisti» dello staff di Bush figlio: pragmatisti contro neocon, internazionalisti contro unilateralisti, le persone che parteciparono alla fine della Guerra gredda contro quelle che presero parte all’inizio della Guerra al terrore. È curioso che fino a poco tempo fa molti di costoro erano visti come parte di un solo gruppo. Che cosa è successo?

Durante il primo mandato Bush, quando Condoleezza Rice era consulente nazionale alla Sicurezza, fu più vicina al presidente di tutti i suoi 16 predecessori. Secondo quanto disse lei stessa, passava spesso anche sei o sette ore al giorno al fianco del presidente. La sua visione della presidenza e le sue idee su come dovesse funzionare il braccio esecutivo derivarono, come per molti esponenti della squadra di Bush, dall’esperienza nel National Security Council (Nsc) durante l’amministrazione di George H.W. Bush e, in particolare, dagli insegnamenti di Scowcroft, l’uomo che ha reso l’Nsc un modello di organizzazione e gestione studiato nelle università. La Rice si trova al centro della divisione all’interno dell’amministrazione, contesa tra il suo mentore tradizionalista e il suo presidente trasformazionista. Questo braccio di ferro ha generato ripetuti scambi poco amichevoli tra Rice e Scowcroft, originati dalle critiche rivolte da quest’ultimo alla politica dell’amministrazione in Iraq. Ne è conseguito che l’uomo che ha aiutato Bush senior a scrivere le sue memorie è stato bandito dai circoli dei consiglieri del figlio (al punto che recentemente non gli è stata rinnovata la posizione di capo del Foreign Intelligence Advisory Board).
Quando Rice parla del presidente non ci sono tracce di ambiguità. È appassionatamente leale e in lei si notano ammirazione e affetto in parti uguali. «Questo presidente – dichiara – ha più attitudine per la strategia di ogni altro presidente con cui ho lavorato. Un qualche particolare dell’intelligence lo mette in moto e lui prende il via su questioni strategiche. Lavoriamo parecchio su queste cose a Camp David o al ranch. Ci mettiamo a parlare di qualche problema e poi lui all’improvviso se ne esce, “Stavo pensando alla… situazione cinese…”. Credo che sia un aspetto del presidente poco conosciuto. Se non si passa del tempo con lui nella stanza ovale non lo si capisce».
Anche Colin Powell, il predecessore di Rice al Foggy Bottom, che ha lavorato in entrambe le amministrazioni Bush, vede un profondo contrasto tra padre e figlio. «Bush figlio è simile a Bush padre, nel senso che è pronto all’azione, ma per il padre si trattava di un processo maggiormente riflessivo, mentre il figlio è guidato più da un potente sistema inerziale che dall’intelletto. Sa approssimativamente quel che vuole fare e quel che vuole sentirsi dire è come farlo».
Quelli che conoscono bene il presidente dicono che la risolutezza di Bush potrebbe essere attribuibile a un potere maggiore. Alla fine dello scorso anno Scowcroft ha dichiarato: «È possibile che la trasformazione sia avvenuta con l’11 settembre e il presidente attuale, che è una persona molto religiosa, abbia pensato che ci fosse qualcosa di unico, se non di divino, nel fatto che una catastrofe del genere accadesse mentre lui era in carica. Che fosse destinata a succedere e che la sua missione fosse occuparsi della guerra al terrorismo». Ma come nota sempre Scowcroft, il problema delle opinioni assolutiste «è che possono farti cadere nella trappola di credere che il fine giustifichi i mezzi. Può essere pericoloso credere che le proprie ragioni siano così nobili da giustificare qualsiasi cosa si faccia».
Oltre alle guerre ideologiche tra tradizionalisti e trasformazionisti, le divisioni all’interno dei circoli ristretti dell’Nsc sono anche una conseguenza della personalità di gestione dei personaggi chiave. Di nuovo i contrasti con la squadra di Bush padre e con il suo operare armonioso sono evidenti. Anche se molto lodata all’interno dell’amministrazione per l’attento sostegno che offre al presidente e per lo stile gestionale accessibile, Rice è stata anche criticata all’interno da chi crede che abbia trasformato l’Nsc in un’organizzazione al servizio delle esigenze individuali di Bush alle spese dell’interesse nazionale. «Ci sono due modi per svolgere il ruolo di consigliere per la Sicurezza nazionale – osserva Scowcroft -: essere lo staff del presidente o far funzionare l’organismo. Il trucco è fare entrambe le cose».
Molti di coloro che lavorano all’interno dell’amministrazione e anche nell’Nsc la mettono in un modo diverso: come consigliere della Sicurezza Rice era così preoccupata di stare al fianco del presidente ogni momento, di essere il suo «alter ego nelle questioni di politica estera» che ha lasciato indebolirsi il ruolo di coordinatore dell’Nsc. «Non sto dicendo che non cercasse di ricoprire il ruolo dell’onesto mediatore – dice una persona -. È onesta, appassionata e molto intelligente. Ma non riesce a essere in due posti contemporaneamente… I membri di questa amministrazione sono dei veterani, sono esperti e non li si può lasciare agire come vogliono o ti tolgono il piatto da sotto». Un anziano componente della commissione indipendente sull’11 settembre è stato ancor più esplicito: «Il nostro gruppo è giunto alla conclusione che il National Security Council non funzionava a dovere».
Un ex vecchio funzionario dell’amministrazione di Bush padre, riflettendo sul primo mandato del figlio, afferma: «Lo staff dell’Nsc crede che il segretario alla difesa abbia quattro porte di accesso alla Casa Bianca. Può andare da Condi per le cose semplici, da Andy (Card, capo dello staff della Casa Bianca) per le cose un po’ più difficili, da Cheney, per quelle veramente difficili, e poi, per le cose decisive, dal presidente stesso. Non si può istituire un sistema di questo genere e aspettarsi che funzioni».
Molti alti funzionari dell’amministrazione erano frustrati dalla scarsa propensione del Dipartimento della difesa (Dod) a rispettare le regole, che si manifestava arrivando non preparati alle riunioni, rifiutando di discutere o di proporre questioni e operando attraverso canali sotterranei. Un membro dello staff dell’Nsc si lamentava di dover passare metà del suo tempo a «mettere a posto i pasticci del Dod, in gran parte al Pentagono, a cercare di ammorbidire la leadership militare che era stata snobbata o irritata da Rummy e dai suoi».
Al di là del presidente, il vicepresidente Dick Cheney è visto da molti come il motore che muove la dinamica del gruppo. Cheney ha lo staff più numeroso di qualsiasi altro vicepresidente della storia americana, più numeroso dell’intero staff dell’Nsc che aveva ai suoi tempi il presidente John F. Kennedy. La stima del numero totale degli impiegati, consulenti e di coloro che sono distaccati in altre agenzie che lavorano per il vicepresidente su questioni legate alla sicurezza nazionale varia da 15 a 35 persone; è impossibile saperlo con certezza, poiché le misure del Freedom Information Act non si applicano all’ufficio del vicepresidente, per cui non è tenuto a svelare i dettagli del suo funzionamento.
Rice descrive Cheney come un elemento «prezioso», in quanto «è stato capace di fare il capo senza avere un dominio burocratico da difendere, così è sempre soltanto una voce meravigliosamente saggia durante le sedute dei consigli». Altri la vedono in modo differente, come molti dei funzionari dell’amministrazione che credono che il vero valore di una seduta del consiglio sia permettere alla squadra della Sicurezza nazionale del presidente di avere una discussione franca e aperta sui pareri che si vogliono fornire al presidente. Sfortunatamente quando Cheney è al tavolo non è semplicemente, come lo definisce Rice, una vecchio e saggio capo senza portafoglio. Viene visto come un imponente gorilla le cui idee hanno molto più peso di quelle degli altri e di conseguenza alterano le discussioni e schiacciano il dissenso aperto.
Richard Haas, che ha lavorato sia nell’amministrazione di George H. W. Bush che in quella di George W. Bush e attualmente è presidente del Consiglio delle relazioni con l’estero, ricorda che Cheney faceva la parte del leone. «Il suo staff è presente a ogni meeting. Poi lui veniva alle riunioni dei capi e infine vedeva il presidente da solo. E viste le opinioni che uscivano dall’ufficio del vicepresidente, la cosa aveva un certo peso sul sistema. Di conseguenza mi pareva che quasi in tutti i meeting il Dipartimento di Stato partisse con vari punti di svantaggio».
Qualcuno nell’establishment repubblicano riconosce che l’11 settembre è stato il catalizzatore che ha rivelato le opinioni essenziali o i tratti caratteriali dei membri del gruppo. «I tradizionalisti credono nella necessità di operare all’interno delle tradizioni della politica estera americana del XX secolo – osserva Scowcroft -. Cioè che si debba procedere, in politica estera, assieme o in accordo con i nostri amici, con gli alleati e con le organizzazioni internazionali. I trasformazionisti sostengono al contrario che l’11 settembre ha mostrato che il paesaggio mondiale andava deteriorandosi rapidamente e che dovevamo essere audaci. Gli amici e gli alleati ci avrebbero solo impedito di procedere. Sappiamo che cosa bisogna fare e abbiamo la forza di farlo: trasformare il Medio Oriente in un assieme di democrazie. Questo porterà alla pace e alla stabilità e, a conti fatti, ciò riceverà il plauso del mondo».
L’ascesa dei trasformazionisti sarà seguita dalla realizzazione della loro visione? Un fattore chiave nel dare una risposta a questa domanda sarà se riusciranno a mantenere la loro influenza nei prossimi anni, soprattutto con l’attenuarsi nella memoria dello choc dell’11 settembre.
Con l’uscita di scena di Powell molti hanno pensato che con l’inizio del secondo mandato dell’amministrazione Bush, i neocon vedessero consolidarsi il loro potere. Tuttavia in gioco ci sono anche delle forze moderate. Innanzitutto c’è la vecchia legge di Washington per cui «uno sta dalla parte che il suo ruolo gli impone». Rice sarà cambiata dal Dipartimento di Stato più di quanto possa cambiarlo. Dovrà procedere nei suoi impegni e sarà più incline all’ascolto dei molti funzionari di carriera del Foreign Service. Sarà l’artefice di importanti progetti che emergeranno nell’ambito degli sforzi per attuare una politica realmente più ampia in Medio Oriente, e ciò la motiverà e gratificherà. Inoltre ha messo insieme una squadra di esperti consiglieri che sono di tendenze tradizionaliste. Molti di loro hanno una grande esperienza nelle relazioni transatlantiche, cosa che induce a pensare che una delle massime priorità sia il desiderio di ricucire le alleanze tradizionali. La Rice difficilmente sarà intralciata dalla ricorrente rivalità tra segretari di Stato e consiglieri della Sicurezza nazionale, dato che il suo ex vice, Stephen Hadley, le succederà all’Nsc.
Inoltre, se gli Stati Uniti riusciranno gradatamente a diminuire l’impegno in Iraq e se non ci sarà nessun altro grande attacco terrorista, la «militarizzazione» della politica estera americana (come l’ha definita un funzionario del Dipartimento di Stato) subirà un rallentamento e diminuirà di conseguenza l’importanza di un Dipartimento della difesa già segnato dai suoi errori. Sono dei grandi «se», ma con il desiderio palese di spostare l’interesse verso questioni interne come la previdenza sociale, probabilmente la mentalità da «ministero della Guerra» dei circoli esclusivi di Bush andrà attenuandosi un poco, ridando forse maggior peso alla rivalità tra Dipartimento di Stato e Dipartimento della difesa che è stato un elemento centrale dell’Nsc dal suo inizio.
Alla fine, naturalmente, il voto determinante toccherà a Cheney e soprattutto al presidente George W. Bush. L’Nsc è costruito diversamente da altre parti del governo americano, dove le strutture istituzionali rimangono più importanti dell’influenza di una singola persona. Se il presidente sceglie di usarlo come un sistema in cui gli vengono presentate opinioni diverse, da verificare prima che siano messe in atto, tende a funzionare piuttosto bene. Se sceglie di usarlo come un meccanismo volto all’azione, più che al dibattito – o troppo al dibattito rispetto all’azione effettiva, come talvolta può accadere – allora non funziona.
In ogni caso, le prove di forza su questioni ideologiche sono nella tradizione dell’Nsc e la lotta di oggi ha molto in comune con quelle del passato, in particolare con quelle che hanno diviso il partito repubblicano durante tutto il periodo moderno. Il presidente Dwight D. Eisenhower fu combattuto tra gli anticomunisti più duri che volevano che agisse con forza (e unilateralmente se necessario) per cacciare indietro i sovietici e voci più moderate che volevano un approccio più morbido, affidato ad alleanze e istituzioni internazionali che aiutassero a contenere il comunismo e a promuovere i valori americani. Goldwater e in seguito Reagan appoggiavano opinioni conservatrici per cui «l’estremismo in difesa della libertà non era un male» e attaccavano la realpolitik promossa da persone come Kissinger e Scowcroft.
Dietro queste battaglie c’era il dibattito sulla natura della leadership statunitense e sul fatto che essa potesse essere indebolita dalla ricerca della cooperazione con la comunità internazionale che gli Usa avevano contribuito a costruire. La questione è se i prossimi quattro anni continueranno a vedere il flusso e riflusso di questi opposti punti di vista o se siamo veramente entrati in una nuova era in cui la natura delle minacce che ci stanno davanti giustifichino i metodi proposti dai trasformazionisti. La guerra al terrorismo sarà soppiantata da altre questioni economiche o politiche che detteranno nuove priorità? Queste nuove esigenze politiche porteranno frutti? Quando si scopriranno le risposte a queste domande si capirà anche se le spaccature all’interno dell’establishment della politica estera repubblicana rappresentano una crisi momentanea o degli spostamenti tettonici all’interno del partito che ora controlla il comitato responsabile di governare il mondo.

Ex membro dell’amministrazione Clinton, David J. Rothkopf ha lavorato insieme con molte delle figure chiave del National Security Council (il Consiglio per la sicurezza nazionale) che hanno segnato la storia degli Stati Uniti degli ultimi 25 anni. L’intervento qui pubblicato, tratto da Foreign Policy, è uno stralcio del libro Running the world (Public Affairs, New York, da maggio nelle librerie americane), nel quale Rothkopf traccia l’evoluzione del «più potente comitato della storia del mondo». Partendo dagli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale fino alla lotta globale al terrore, il testo offre una lunga serie di ritratti e oltre 130 interviste a personaggi politici di primo piano. Rothkopf è stato presidente della Intellibridge Corporation, ha insegnato relazioni internazionali alla Columbia University e scritto diversi libri di politica internazionale. Attualmente insegna al Carnegie Endowment for International Peace è membro del Council on Foreign Relations e del President’s Advisory Council of the U.S. Institute of Peace

[dal Corriere della Sera, 17.3.05]