Revisionismo, la storia capovolta e umiliata
di Rosario Bentivegna

partigiano.jpgQuale revisionismo? Di chi? E’ revisionismo la sciatteria
di alcuni "storici", anche di sinistra, pronti a montare sciocchezze e/o veri e
propri falsi su avvenimenti appena orecchiati e non approfonditi adeguatamente? E fino a
che punto è giusto definire "revisionismo", doveroso da parte di studiosi di
qualsiasi settore della scienza, ciò che invece è frutto della superficialità
vanagloriosa, o della mistificazione e della falsificazione usate solo a scopo politico?
Renzo De Felice tenta, a suo modo, un’operazione
revisionista. Egli parte da una profonda e onesta ricerca documentale sulle fonti e sulla
storicità dei fatti (lo rileggo volentieri e spesso, e i riscontri oggettivi che propone
mi confermano ogni volta la validità della mia scelta antifascista). E’ molto
interessante, per esempio, il suo secondo volume (postumo) dell’opera "Mussolini
l’alleato" per la quantità e la correttezza delle informazioni che fornisce. Ma
cade in errore, a mio avviso, quando giunge a titolare quel volume: "La guerra
civile", riassumendo in quel titolo le conclusioni della sua riflessione che appaiono
nella lunga intervista concessa a P. Chessa , "Rosso e Nero" (Baldini e
Castoldi, Milano, 1995)


De Felice e la guerra civile
Secondo De Felice, quindi, dall’8 settembre del ‘43 al 25
aprile del ’45 fu combattuta sulla testa degli italiani, caduti ormai nella più
totale disperazione e in attesa solo di una pace qualsiasi che costasse il meno possibile,
una "guerra civile" tra circa 200.000 combattenti partigiani e circa 200.000
combattenti della Repubblica di Salò.
A parte il fatto che né Kesselring, né altri dirigenti politici e
militari tedeschi dislocati nell’Italia occupata, hanno mai parlato di "guerra
civile" nelle memorie pubblicate subito dopo la guerra, questa conclusione è erronea
perché non tiene conto che:
– ad aprire le ostilità contro l’Esercito Italiano (sia pure
regio), furono i tedeschi;
– malgrado la vergognosa fuga del re, dei suoi ministri, dello stato
maggiore, numerosi reparti dell’Esercito – non solo a Cefalonia e a Lero, non
solo per merito della Marina – ma a Roma, a Bari, a Brindisi, a Piombino, a Trento, e
in molte altre località in Italia, in Sardegna e nella penisola balcanica –
tentarono di opporsi all’ occupazione nazista, o si affiancarono alle forze
partigiane che già da molti anni tenevano fronte al nazismo in Jugoslavia, in Albania e
in Grecia;
– laddove quei reparti che si opposero ai tedeschi furono sconfitti, i
superstiti presero spesso le vie della montagna, e crearono i primi nuclei della
Resistenza italiana armata, dove li raggiunsero altri ufficiali e soldati sbandati, ma
anche civili, uomini e donne, che avevano accolto l’invito alla lotta giunto loro dai
partiti antifascisti, che con loro formarono le brigate partigiane e costruirono, insieme
a chi era rimasto a valle o nelle città, quel tessuto politico e di solidarietà che
permise alla Resistenza di condurre la Guerra di Liberazione Nazionale fino alla
insurrezione del 25 aprile.
La spinta non fu, allora, la disperazione ma, al contrario, la
speranza: è questo che De Felice non ha capito.

Militari e borghesia moderata
L’errore più grave compiuto negli anni ’45-50 dai politici e
dagli storici della sinistra (il revisionismo di sinistra!) è non aver tenuto
conto del grande contributo nell’iniziativa e in attività militari, talvolta eroiche
e disperate, di quella parte dei militari e della borghesia moderata o della destra non (o
non più) fascista, che seppero trovare subito il loro posto di combattimento in un quadro
di sostanziale reciproca lealtà accanto agli antifascisti "storici" e ai vecchi
e nuovi partiti dentro e fuori del Comitato di Liberazione Nazionale.
I residui "fascisti" che si arroccarono nella ridotta di
Salò sono solo il fantasma, a mio avviso politicamente insignificante, del fascismo come
movimento politico, che si era liquefatto già il 25 luglio del ’43, al momento del colpo
di stato monarchico, e i dati sulle adesioni al PFR, molte delle quali non certo
spontanee, ne sono la conferma.
Non è un caso che tra i 650.000 giovani soldati rastrellati in Europa
dai tedeschi dopo l’8 settembre, malgrado fossero nati e cresciuti nell’Italia fascista,
si trovarono solo 50.000 uomini disposti a tornare nell’Italia di Salò, e di questi,
appena tornati, la grande maggioranza disertò (tra gli altri, che rimasero nei campi di
concentramento, si contarono alla fine della guerra ben 44.000 caduti).
Non è un caso che molti combattenti partigiani fossero ex-balilla,
ex-avanguardisti, ex-giovani fascisti, ex-iscritti al PNF. Che gli impiegati dei ministeri
fascisti, che i generali, gli ufficiali dell’esercito regio, che nella grande maggioranza
avevano appoggiato il fascismo, o lo avevano accettato per la carriera, e avevano
partecipato anche lealmente alle guerre fasciste, e perfino quelli della Milizia fascista,
si rifiutarono quasi tutti alla chiama delle formazioni di Salò, ma anzi moltissimi di
loro si schierarono dalla parte della Resistenza o combatterono nelle formazioni
partigiane guidate dai partiti antifascisti.

Cos’erano davvero i repubblichini
Fu così che ci scontrammo con le diverse formazioni repubblichine, che
furono raramente impiegate sui fronti di guerra. I "combattenti" della
Repubblica Sociale ebbero come compito solo operazioni di polizia politica e di
salvaguardia dello "ordine pubblico nazista" applicando le "leggi di
guerra" e la "strategia del terrore" della Germania di Hitler.
In buona sostanza, i "soldati di Mussolini" erano solo
"collaborazionisti" – "ascari" – che potevano sopravvivere
solo per la protezione che forniva loro l’esercito di occupazione tedesco, da cui
erano armati e sfamati. Hanno sparato solo contro di noi e contro le popolazioni civili
che ci appoggiavano, mentre i nostri obbiettivi erano le formazioni e le postazioni
militari tedesche, e solo di conseguenza le spie e le formazioni dei collaborazionisti
italiani.
Kesselring, nelle sue "Memorie di guerra" (Garzanti,
1956) scrive: "Poiché Mussolini non era riuscito a mutare l’intima
avversione del popolo per la guerra in se stessa, avrebbe dovuto astenersi
dall’entrare nel conflitto. Il fatto però che i partigiani abbiano partecipato con
passione alla lotta contro le forze armate tedesche fa supporre che la popolazione non
fosse sprovvista di spirito guerriero
".

Il popolo e i partigiani
Egli, da esperto militare, riconosce l’intima avversione del
popolo italiano alla guerra combattuta a fianco del nazismo, ma riconosce altresì la
capacità di lotta (lo "spirito guerriero", secondo il suo stile di vecchio
militarista pangermanico) degli italiani ed ammette quindi che lo schieramento militare
della Resistenza – la Guerra di liberazione nazionale – derivava direttamente
dall’appoggio che "i partigiani" avevano da parte della
"popolazione"
D’altra parte, l’iniziativa militare dei partigiani, che ha
inciso così profondamente nel pensiero del comandante in capo della Whermacht in Italia,
come traspare da altri capitoli delle "Memorie" citate, non ci sarebbe stata
senza l’apporto e il contributo concreto delle popolazioni dei territori occupati dai
nazisti, di cui, del resto, i partigiani erano figli, erano emanazioni dirette.
Il rigore scientifico di Renzo De Felice, malgrado gli errori delle sue
interpretazioni (del resto, in biologia, la funzione antibiotica del penicillium
notatum
fu interpretata correttamente solo da Fleming, malgrado altri, prima di
lui, avessero incontrato e classificato quella muffa e ne avessero osservato gli effetti
sulle colture batteriche) non può essere certo posto allo stesso livello dei mille
mistificatori e falsari, che si proponevano la parificazione tra i "volontari della
libertà" e i "repubblichini" di Salò, o di superficiali e non
disinteressati "storici" , che, senza perder tempo nella faticosa ricerca di
documentazioni attendibili, hanno occasionalmente sparato "cazzate", solo per
sostenere, con i falsi, la mistificazione delle valenze storiche, etico-politiche o
militari degli eventi, o per "compiacersi" – e sentirsi citare – per la
propria "oggettività".
Sono stato partigiano in condizioni molto diverse: gappista in città,
comandante di brigata sui Monti Prenestini, dietro la linea tedesca sul fronte di Cassino,
ufficiale partigiano nella Divisione Italiana Parigiana Garibaldi, reparto regolare
dell’Esercito Italiano che si batteva in Montenegro contro i tedeschi e i cetnici (che, in
Serbia e in Montenegro, facevano la parte degli ùstascia in Croazia, ed erano altrettanto
feroci). Ovunque ho sempre trovato disponibilità, comprensione, collaborazione e aiuto da
parte della gente comune (la "popolazione non priva di spirito guerriero", come
dice Kesselring), e soprattutto un rapporto umano straordinario.

Il caso de l’ "Unità"
Un "revisionismo" mistificatore e falso ha colpito
soprattutto la Resistenza romana e la sua guerra di liberazione, e in particolare uno dei
suoi episodi più drammatici, la strage delle Fosse Ardeatine, che i nazisti perpetrarono
nella massima segretezza e con la massima fretta per paura delle reazioni preventive della
cittadinanza, dei parenti dei prigionieri in mano nazista e della Resistenza . Qui la
fantasia dei falsari e dei mistificatori ha raggiunto cime eccelse, e ne abbiamo colto
significative manifestazioni perfino su "L’Unità" di Furio
Colombo
, dove il 24 marzo scorso, in memoria di quella strage, si riproponeva una tesi
cara a tutti gli attendisti, e cioè che l’attacco partigiano di via Rasella, in cui
fu annientata la 11° compagnia del terzo battaglione dell’SS Polizei Regiment
Bozen
"fu un atto di guerra, dettato da emotività più che da un
preciso ragionamento, discutibile sul piano dell’opportunità e sbagliato se messo in
relazione con le finalità che si volevano raggiungere
" (a parte lo spazio dato
nei mesi precedenti ad alcuni scritti del Vivarelli ove si ricordavano le benemerenze
patriottiche della X Mas e del suo eroico comandante, il principe golpista Valerio
Borghese, o le amene considerazioni sullo stato di "città aperta" di Roma, con
un titolo, il 15 agosto 2001, addirittura esilarante)
La nostra gente, pur affamata e terrorizzata, e ben sapendo di correre
rischi mortali, ci aiutava, checché ne dicano il De Felice, o il Montanelli, o il Lepre,
ecc. ecc., che sopravvennero dopo i primi exploit dei giornalisti repubblichini
Spampanato e Guglielmotti, o dello "storico" Giorgio Pisanò, cantore
dell’epopea repubblichina, o, nel 1948, in piena "guerra fredda", dei
Comitati Civici dell’Azione Cattolica di Pacelli e di Gedda.
Quella nostra gente ci nascondeva, ci sfamava quando poteva e ci curava
se ammalati o feriti, rifiutava di denunciarci, così come del resto aiutava e non
denunciava i giovani renitenti di leva, gli uomini che si sottraevano al lavoro forzato
imposto dai nazisti, i soldati e gli ufficiali sbandati, gli ebrei, i carabinieri, i
prigionieri alleati evasi, i ricercati politici antifascisti e i politici fascisti che non
avevano aderito al P.F.R. (bisogna pur ricordarlo: dei quadri del fascismo, solo il 10% di
quelli periferici e il 15% di quelli nazionali aderirono al governo collaborazionista
della Repubblica Sociale; degli oltre quattro milioni di italiani iscritti al P.N.F.,
costretti ad avere quella "tessera del pane", solo 200.000 – il 5% – si
iscrissero al P.F.R.).

I romani e la rete di solidarietà
I romani poi, dietro il loro menefreghismo ironico e apparentemente
opportunista, seppero costruire spontaneamente una rete straordinaria di solidarietà
attiva nei confronti delle centinaia di migliaia di ricercati e perseguitati che
affollavano la loro città. Essi, pur temendo per la loro vita e imprecando a parole
contro chi poteva turbare la loro sacrosanta voglia di quiete, non esitarono a schierarsi
nei fatti dalla parte della libertà e contro la crudele presenza dei tedeschi e dei
fascisti, isolati e "schizzati".
Da questa Resistenza, fatta di fame e di sofferenze, ha preso le mosse
la Guerra di liberazione nazionale, che è iniziata proprio a Roma, subito dopo l’8
settembre, oltre che con una intensa attività diplomatica, politica, di agitazione, di
"intelligence", anche con iniziative militari che hanno fatto della nostra
città la capitale dell’Europa occupata che ha dato più filo da torcere agli
eserciti tedeschi (Dollman), che ha fatto dire a Kappler che dei romani non ci si poteva
fidare, che ha fatto raccontare a Mhulhausen la paura che lo stesso Kappler aveva dei
partigiani e della gente di Roma.
Dice Renzo De Felice: ("Il Rosso e il Nero", pag. 60):
"Roma fu la città col maggior numero di renitenti: un po’ per la sua
configurazione sociologica, un po’ perché era stata l’unica città in cui si
era tentata la resistenza armata contro i tedeschi dopo l’armistizio, un po’ per
la presenza del Vaticano e del gran numero di luoghi ed edifici dove i renitenti potevano
nascondersi. Al primo posto ci fù la "difesa di se stessi", sia da parte di chi
rispose al bando, sia per chi riuscì a nascondersi, come per chi fu costretto a salire in
montagna. Molti di questi divennero valorosi partigiani. Per molti altri pesò sempre il
vizio di origine di una scelta opportunistica
", che, aggiungo, ha aperto lo
spazio a tutte le fantasie e le menzogne della vulgata antipartigiana.
In quei terribili nove mesi Roma – anche per ragioni geografiche
(eravamo a poche diecine di chilometri dal fronte) – è stata all’avanguardia (politica e
militare) di tutte le città italiane occupate: la sua gente, i partigiani che da essa
provenivano, hanno reso impossibile il disegno strategico del nemico, che voleva fare di
Roma, dei suoi nodi stradali e ferroviari, dei suoi servizi, un comodo transito e un
rifugio per i mezzi e le truppe da e per il fronte di Cassino e di Anzio, una tranquilla
base per i suoi alti comandi, il luogo dove permettere un piacevole ristoro ai suoi
soldati impegnati sul fronte.
I romani, con i loro figli partigiani che colpivano e sabotavano il
nemico ogni giorno e ogni notte in città, nelle campagne intorno Roma e nel Lazio, con la
loro capacità di aiutarli, nasconderli, proteggerli, fecero di Roma "una città
esplosiva", come dovette ammettere Kappler, il boia delle Ardeatine, nel processo che
subì alla fine della guerra.
Questa era la strategia della Resistenza romana, che perfino il
collaboratore de L’Unità mostra di non aver compreso.
Il Maresciallo Clark, comandante della V Armata americana, ebbe
a dire personalmente a Boldrini che soltanto quando le truppe anglo-americane entrarono in
Roma i Comandi Alleati capirono senza più alcun dubbio che l’Italia era con loro.

Il costo della lotta partigiana
Abbiamo pagato cara questa nostra Resistenza: 650 Caduti, tra il il 9 e
il 10 settembee 1943, nella battaglia per Roma. Di essi 400 erano ufficiali o soldati, e
dei civili ben 17 furono le donne.
Oltre 50 furono i bombardamenti Alleati, dovuti alla presenza in città
di comandi, mezzi e truppe tedesche (altro che "città aperta"!); fame e
miseria; deportazioni; rastrellamenti in tutti i quartieri, centrali e periferici; il
coprifuoco alle 4 del pomeriggio; unica città in Italia, fu proibito a Roma l’uso delle
biciclette (altri mezzi, oltre quelli pubblici, non erano consentiti ai civili); feroci
esecuzioni e rappresaglie, le Ardeatine, Bravetta, La Storta, il Ghetto, il Quadraro, le
razzie, gli arresti, le torture (via Tasso, Palazzo Braschi, la pensione Oltremare, la
pensione Jaccarino, Regina Coeli, ecc.: operavano in Roma ben 18 "polizie",
tedesche e italiane, pubbliche e "private"!), gli assassinii compiuti a freddo
nel centro della città e nelle borgate.(10 fucilati a Pietralata, 6 renitenti fucilati a
Ladispoli, 10 donne fucilate a Portuense, dieci donne fucilate a Tiburtino 3°, circa 80
fucilati a Bravetta, 14 fucilati alla Storta…..più la strage del Quadraro: su 700
cittadini deportati ne sono tornati solo 300!… più la strage degli ebrei , circa
duemilacinquecento deportati, ne sono tornati circa 120….
I partigiani romani uccisi in combattimento, morti sotto la tortura o
fucilati, nei nove mesi che vanno dal 9 settembre 1943 al 5 giugno del 1944 sono 1.735,
oltre ad alcune migliaia di cittadini romani, ebrei e non, deportati nei campi di
sterminio in Germania e che non sono tornati; ma in questi stessi nove mesi in Roma furono
condotte azioni militari e di sabotaggio che in numero e in qualità non hanno pari, nei
limiti di quel periodo, in nessun’altra città d’Italia.
Fu così che il nemico pagò cara la sua permanenza in città, e si
vendicò manifestando la sua brutale ferocia.
Ma quando gli eserciti alleati incalzarono, i tedeschi e i fascisti
abbandonarono Roma precipitosamente, contro gli ordini di Hittler e Mussolini, che
volevano impegnare battaglia in città casa per casa e deportare tutti gli uomini validi
per il lavoro coatto, secondo i piani già approntati dal generale delle SS Wolff.
Roma era una "città esplosiva", e la non lontana esperienza
di Napoli convinse anche i più feroci tra i nostri nemici a non correre rischi già
sperimentati.
La Resistenza romana ebbe caratteristiche di spontaneità e di
diffusione capillare che è difficile trovare altrove. Sono diecine le formazioni
impegnate, grandi come come quelle dei partiti del CLN, in particolare i tre partiti di
sinistra, PCI, Pd’A e PSIUP, come Bandiera Rossa, o i Cattolici Comunisti, o come il
Centro Militare Clandestino dei "badogliani", ma anche piccole o piccolissime,
che, per non aver potuto o voluto trovare il collegamento con i partiti del CLN, operavano
autonomamente contro i tedeschi e i collaborazionisti fascisti.
Sono noti episodi di iniziative solidaristiche, ma anche di sabotaggio
e di guerriglia, condotti addirittura da famiglie o da singoli, fino all’ultimo
giorno dell’occupazione tedesca.
Tutto ciò, e per molte ragioni, che ha esaminato di recente anche Alessandro
Portelli
nel suo splendido libro "L’Ordine è stato eseguito"
ed. Donzelli, che ha ottenuto nel 1999, con il Premio Viareggio per la saggistica il più
ambito riconoscimento letterario italiano, si è attenuato nella memoria storica della
città perché ha prevalso la disinformazione attraverso l’uso ripetuto di falsi e
mistificazioni, malgrado le smentite documentate e l’uniformità delle delibere di
tutti i livelli della magistratura, fino alle Cassazioni civili, penali e militari.

Guerra di liberazione nazionale
La nostra è stata una "guerra di liberazione nazionale", la
guerra di tutti gli italiani per la libertà e per la democrazia: furono i
collaborazionisti dell’invasore che cercarono di trasformarla in guerra civile, ma ci
riuscirono solo in parte perché la grande maggioranza degli italiani li respinse insieme
ai loro protettori e padroni nazisti.
Del resto anche i dirigenti politici e militari di Salò, ma anche i
tedeschi, sapevano molto bene come stavano le cose, altrimenti le feroci rappresaglie
messe in atto nelle città, e quelle ancor più feroci e indiscriminate compiute sui monti
e nelle campagne non avrebbero avuto motivo contro una popolazione schierata in qualche
consistente misura dalla loro parte.
Due canzoni, una delle brigate nere e una delle brigate partigiane,
ricordano in modo emblematico il clima in cui vivevamo: "Le donne non ci vogliono
più bene / perché portiamo la camicia nera
" cantavano i fascisti; e dall’altra
parte: "Ogni contrada è patria di un ribelle / ogni donna a lui dona un sospiro"
cantavano i partigiani.
Basti ricordare, per chi c’era, l’atmosfera di cupo infinito silenzio
della nostra città, delle nostre contrade, deserte nei mesi dell’occupazione, e
l’esplosione improvvisa di gioia, affollata, urlata, felice, che accolse le forze militari
anglo-americane.
Eppure è sempre più frequente che la nostra guerra di liberazione
venga ricordata come guerra civile. Fa parte di una delle brecce che il revanscismo
fascista è riuscito ad aprire nella memoria corrente.

("la RINASCITA della sinistra", venerdì 18 ottobre 2002,
pagg 28-29)