Bubba.jpgdi Joe R. Lansdale
[da Bubba Ho-Tep, traduzione di Sebastiano Pezzani, Addictions, euro 7.50]

Elvis faceva fatica a pensare a se stesso o alla vita in un contesto che non fosse la fogna, visto che spesso era troppo stanco per evitare di farsela addosso nel sonno, svegliarsi in un mare di piscio o di merda, in attesa che le infermiere o gli assistenti venissero a pulirgli il culo. In quel momento se ne rese conto. Tutto d’un tratto si accorse che erano anni che lo davano per morto…
… Elvis chiuse gli occhi e pensò che si sarebbe svegliato da un brutto sogno ma così non fu. Riaprì gli occhi lentamente e vide che si trovava ancora dov’era prima e che le cose non erano migliorate. Si sporse in avanti e aprì il cassetto del comodino e ne estrasse uno specchietto rotondo e si guardò.

Era uno spettacolo orrendo. Aveva i capelli bianchi come il sale ed era terribilmente stempiato. Aveva delle rughe profonde abbastanza per nascondere dei lombrichi in tutta la loro lunghezza, quelli grandi, quelli che strisciavano di notte. Le labbra carnose non erano più carnose. Sembravano la pappagorgia di un bulldog, dal tanto che sbavava. Si trascinò la stanca lingua da una parte all’altra delle labbra per asciugarsi la bava e si accorse, guardandosi allo specchio, che gli mancavano un bel po’ di denti.
Maledizione! Come aveva fatto il Re del Rock’n’Roll a ridursi così?…

Entrò l’infermiera dalla carnagione color cioccolato e dalle tette come pompelmi. La sua uniforme bianca emetteva lo stesso crepitio di quando si fanno le carte. Sulla sua testa il cappellino da infermiera aveva una inclinazione che la diceva lunga sul suo amore per l’umanità, sul fatto che guadagnasse bene e prendesse l’uccello regolarmente. Sorrise a Callie e poi a Elvis. “Come sta oggi, Signor Haff?”
“Bene” disse Elvis. “Ma preferirei mi chiamasse Signor Presley, oppure Elvis. È una vita che glielo ripeto. Non mi faccio più chiamare Sebastian Haff. Non cerco più di nascondermi.”
“Certo”, disse la bella infermiera. “Ne ero al corrente. Me l’ero scordato. Buon giorno, Elvis.”
La sua voce grondava sciroppo di sorgo. Elvis avrebbe voluto colpirla con la padella.
L’infermiera si rivolse a Callie: “Non lo sapeva che abbiamo una celebrità qui, Signorina Jones? Elvis Presley. Lo conosce, vero? Il cantante di Rock’n’Roll…”
“L’ho sentito nominare” Callie disse. “Pensavo fosse morto.”
Callie tornò alla cassettiera e si accucciò per lavorare vicino al cassetto più basso. L’infermiera guardò Elvis e sorrise di nuovo ma si rivolse a Callie. “In effetti Elvis è morto e il Signor Haff lo sa bene. Non è vero, Signor Haff?”
“No, cazzo!” sbottò Elvis. “Sono qui. Non sono morto, non ancora.”
“Senta, Signor Haff, non ho niente contro il fatto di chiamarla Elvis ma mi sembra che lei abbia le idee un po’ confuse oppure che le piacciano i giochini. Lei era un sosia di Elvis. Se lo ricorda? È caduta dal palco e si è rotta l’anca. Quand’è stato…, vent’anni fa? Si è preso un’infezione ed è stato in coma per alcuni anni. Quando è uscito dal coma aveva qualche problemino.”…

Ero stanco di tutto. La donna che amavo, Priscilla, se n’è andata. Le altre donne erano solo donne. La musica non la sentivo più mia. Nemmeno io ero più me stesso. Ero solo un fantoccio. Gli amici mi stavano spremendo come un limone. Me ne sono andato e non mi è dispiaciuto. Ho lasciato tutti i soldi a questo Sebastian, ad eccezione di una riserva che potesse sostenermi se me la fossi vista brutta. Io e Sebastian abbiamo fatto un patto. Se fossi voluto tornare, lui me lo avrebbe permesso. Era tutto scritto in un contratto, nel caso volesse fare il furbo, nel caso si affezionasse troppo alla mia vita. Il fatto è che la mia copia del contratto è andata persa nell’incendio…
Cantavo come ai vecchi tempi. Facevo delle canzoni nuove. Canzoni scritte da me. L’attenzione che ricevevo era su scala ridotta ma mi piaceva. Le donne si gettavano tra le mie braccia immaginando di stare tra le braccia di Elvis solo che io ero davvero Elvis e giocavo a fare Sebastian Haff che gioca a fare Elvis… Non mi dispiaceva affatto. Non me ne fregava niente se si era bruciato il contratto… Poi ho avuto l’incidente… Stavo cantando ‘Blue Moon’, ma mi è uscito il bacino. Era un po’ che avevo dei problemi col bacino…

… Ed era sostanzialmente vero. Se l’era lussato facendo l’amore con una vecchia signora dalla chioma bluastra che si era fatta tatuare la parola ELVIS sul culo grasso. Non era riuscito a trattenersi e se l’era scopata. Assomigliava a sua mamma Gladys…… ”Come stavo dicendo, avevo messo da parte un po’ di soldi nell’eventualità di una malattia, o altre cose del genere. È con quei soldi che mi sto pagando la degenza”…
“La vuol sapere una cosa, Elvis?” disse l’infermiera carina. “Qui abbiamo anche un Signor Dillinger. E un Presidente Kennedy. Dice che la pallottola l’ha solo ferito e che il suo cervello è conservato in un barattolo di vetro alla Casa Bianca”…
Nell’ala più lontana della casa di riposo, la Vecchia Signora McGee, meglio nota da quelle parti come La Cantante di Yodel, si lasciò andare in uno dei suoi famosi gorgheggi (asseriva di aver cantato in un’orchestra Country & Western da giovane) per poi smettere bruscamente. Elvis manovrò il demabulatore e proseguì. Era una vita che non metteva piede fuori dalla sua stanza. A dire il vero non era praticamente mai sceso dal letto. Quella sera si sentì tonificato perché non aveva pisciato nel letto e così sentì quel suono nuovamente, il ragno nella scatola piena di ghiaia. (Un bel ragnaccio. Una bella scatola. Un bel po’ di ghiaia.) Capire da dove proveniva quel suono gli diede qualcosa da fare… Passò accanto alla camera di Jack McLaughlin, il tizio che era convinto di essere John F.Kennedy e che pensava che il suo cervello stesse alla Casa Bianca e che fosse caricato a batterie. La porta della stanza di Jack era aperta. Elvis mise diede una sbirciata proseguendo. Sapeva fin troppo bene che Jack non avrebbe avuto molta voglia di vederlo. A volte accettava Elvis in quanto vero Elvis e, quando lo faceva, era spaventato e diceva che Elvis era il mandante del suo assassinio… Per lo meno lui a Elvis gli assomigliava: un Elvis invecchiato e malato. Jack era afroamericano — sosteneva che l’autorità costituita lo avesse tinto di nero per tenerlo nascosto — e Mums era una donna convinta di aver subito un intervento che le aveva cambiato il sesso.
Cristo santo! Era un ospizio o un manicomio?…
… Forse sarebbe valsa la pena di stare al gioco fino in fondo, anche se avesse significato giocarci con un negro che era convinto di essere John F. Kennedy e che credeva che una mummia egizia infestasse i corridoi della casa di riposo, scrivesse dei graffiti sui divisori del bagno, togliesse l’anima delle persone succhiandogliela dal buco del culo, la digerisse, e la cagasse nel cesso degli ospiti…

Elvis fece dondolare agevolmente il deambulatore in avanti ma ebbe la sensazione di non averne davvero bisogno quella sera. Era in preda all’eccitazione. Jack era un pazzo e forse anche lui lo era, ma un’avventura era in corso.
Arrivarono al gabinetto del salone. Quello riservato ai visitatori maschi. “Qui dentro”, disse Jack.
“Aspetta un attimo”, disse Elvis. “Non è che mi fai entrare lì dentro e poi cerchi di trastullarti con il mio uccello, vero?”
Jack lo fissò. “Ehi, ho fatto l’amore con Jackie e Marilyn e un’infinità di altre donne e tu pensi che avrei voglia di trastullarmi con il tuo schifoso cazzo vecchio?”
“Ben detto”, disse Elvis.
Entrarono nel bagno. Era grande e dotato di diverse cabine e urinali.
“Laggiù”, disse Jack. Si avvicinò a una delle cabine, ne aprì la porta con una spinta e si fece indietro, vicino alla comoda, per consentire al deambulatore di Elvis di farsi strada. Elvis entrò e osservò quello che Jack stava indicando.
Un graffito.
“Che cos’è?” chiese Elvis. “Stiamo indagando su un lieve rumore di passi nel corridoio, nel tentativo di scoprire chi ti ha assalito la notte scorsa, e tu mi porti qui e mi fai vedere un disegno inciso sulla parete del cesso?”
“Guarda da vicino”, gli disse Jack.
Elvis si sporse in avanti. Non aveva più la vista di un tempo ed era probabile che le sue lenti avessero bisogno di un adeguamento ma riuscì a vedere che, invece di una normale scritta, il graffito era una serie di semplici immagini disegnate.

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L’eccitazione percorse le vene di Elvis, come un sorso di una buona bevanda alcolica. Un tempo era stato un avido lettore delle tradizioni culturali antiche ed esoteriche, come Il Libro Egizio dei Morti e L’Opera Completa di H.P. Lovecraft, e riconobbe subito quello che aveva davanti agli occhi. “Geroglifici egizi”, disse.
“Esatto!” disse Jack. “Amico, sei meno stupido di quanto certa gente ti abbia fatto.”
“Grazie”, disse Elvis.
Jack infilò una mano nella tasca della giacca, ne tolse un pezzo di carta piegato e lo aprì. Lo mise contro il muro. Elvis vide che sopra c’era lo stesso tipo di disegni che si trovavano sulla parete della cabina.
“L’ho copiato ieri. Sono venuto qui a cagare, perché non avevano fatto le pulizie nel mio bagno. Ho visto questa cosa sulla parete, sono tornato nella mia stanza e ho consultato i miei libri e poi me lo sono trascritto tutto. La frase in alto si traduce più o meno così: IL FARAONE FA I POMPINI AGLI ASINI. E l’ultima riga dice: CLEOPATRA È UNA SPORCACCIONA.”
“Che cosa?”
“Be’, più o meno”, disse Jack.