goisiscover.gifdi Giuseppe Goisis
[da Un posto vale l’altropeQuod]

Io non c’entro niente con la musica, né suonare né cantare, ma Elia è sempre stato un genio. Dicono che i ciechi hanno certe qualità.
Quella sera eravamo alla cascina.
È dello zio di Michele e ci andiamo almeno una volta al mese. Organizziamo le feste. Se è estate con i falò. Se è inverno con il camino.
Andiamo là e passiamo la sera a ballare e a mangiare, e anche altro, fino a notte. Problemi di rumore non ce ne sono. Siamo in mezzo alla campagna. Al limite la nebbia, o la strada sterrata quando piove. Ma arrivano sempre tutti.
Qualunque tempo fa si sta bene. Ognuno porta qualcosa. Fra di noi è facile stare bene. Siamo gente semplice. Nessuno è ricco o razzista. Mia cugina l’anno scorso ha avuto una figlia con il suo ragazzo senegalese. A parte la nonna siamo stati felici. È nera e si chiama Uanpuire.
Elia alle feste si esibisce con la pianola elettrica. Ne ha una per ogni tipo di strumento e di ritmo. Incita la gente e se non cantiamo ci insulta. A volte qualcuno gli fa uno scherzo e sposta il microfono. È molto volgare, ma suona e canta da professionista. Secondo me alla cascina è sprecato.

Fuori ci sono l’aia, le stalle e il fienile, mentre dentro c’è la stanza con il tavolone lungo, la cucina e un’altra stanza con i divani e il camino. Elia suona lì. Se non si è in troppi ci stiamo, altrimenti alcuni restano a parlare in cucina, o sotto il portico davanti all’aia. Una sera eravamo in centoventitre e lo zio di Michele si arrabbiò perché sparì un badile. È stata l’unica volta però. Non sparisce mai niente, e non siamo mai così tanti. Se siamo in troppi Elia si avvilisce. Non può suonare. E Michele all’inizio è contento, poi però si preoccupa per lo zio. Non va bene essere in tanti.
Quella sera in cui io, Elia e Michele abbiamo deciso il viaggio non c’era niente da festeggiare. Le feste hanno dei motivi oppure no. Dipende. Per esempio quando è nata Uanpuire. O quando siamo tornati dal viaggio nel Chiapas con le diapositive. Ma non è necessario. È per divertirsi. Sei libero e fai quello che vuoi. Molti si sono messi insieme. Io con Sabrina.
Quello che ci interessava in quel periodo era la libertà e allora quella sera parlavamo della libertà, sia la libertà in generale sia specifica, come l’invasione del Kuwait, il proibizionismo, che noi contestiamo perché facciamo uso di ascisc, gli zoo, le serre, la Rivoluzione Francese e i sensi unici alternati, che sono un esempio per far capire che la mia libertà finisce quando comincia la tua, anche se la frase direbbe dove comincia la tua, e c’è chi sosteneva che dove e quando non sono la stessa cosa e la discussione andò per le lunghe con pieghe filosofiche, perché un paio hanno studiato filosofia. A essere onesti però, in cascina più che parlare si gesticola, soprattutto se stai mangiando le costine, ti devi interrompere spesso o per pulirti la bocca tutta unta o per mandare giù, e poi, oltre al mangiare c’è il bere, e forse anche quello fa gesticolare, un po’ per mandare giù, come il mangiare, un po’ perché quando bevi hai più idee ma meno parole giuste per esprimerle, e ci provi con le mani, mentre altre volte litighi, ma nessuno si è mai picchiato.
Io credo che l’idea del viaggio sia nata per quello che è successo dopo cena.
Non aveva ancora cominciato a suonare perché gli stavamo allestendo la postazione ma c’erano problemi con un cavo. Michele si strusciava con una sul divano.
Andò per le lunghe, anche se ho fatto perito elettronico e di fili me ne intendo.
La tipa era nuova, aveva il piercing sulla lingua e una fila di orecchini. Sembrava a disagio. Michele nello slancio la spingeva verso Elia, e si toccavano. A un certo punto sento dire: “Non siamo soli dai…” e Michele rispondere: “Non ti preoccupare, è cieco”. A bassa voce naturalmente, ma se l’ho capito io, che Sabrina mi deve ripetere tre volte le stesse cose, l’avrà capito di sicuro anche Elia, sempre per via che i ciechi hanno certe qualità.
Sistemammo il cavo e il concerto partì. Elia però non era lo stesso. Non si sgolò il rhum, non presentò le canzoni, non insultò nessuno e, soprattutto, non implorò nessuna ragazza di avere un rapporto sessuale con lui. Incredibile. Non che qualcuna ci sia mai stata, ma lui ci prova sul serio. Lo ripete quasi ad ogni canzone. Invece di applaudire dice. Invece di lasciarlo da solo, nel buio. Un paio si sentono in colpa.
Alla fine del concerto smontammo l’apparecchiatura e girarono le ultime canne.
La prima che se ne andò fu Sara, che ha diciassette anni e una figlia di nove mesi. Se la porta sempre appresso e la allatta in mezzo a tutti. Elia va lì e accarezzando la testa della bimba cerca di toccare la tetta di Sara. La supplica di allattare anche lui, ma lei lo caccia indietro.
Poi Giuliana, che noi chiamiamo “autobus”. È una ragazza molto bella. E intelligente. Ha studiato filosofia. Sabrina la trova antipatica perché ne sa sempre più degli altri. Il che è vero, ma se lo dico Sabrina ci resta male. È convinta che fra noi ci sia qualcosa, ma questo non c’entra con quello che Giuliana sa o non sa. E comunque si chiama autobus perché una notte stava male e andò a vomitare nell’aia, poi camminò sino all’uscita e si isolò, sulla strada sterrata, appoggiata a un albero, per un bel pezzo. Faceva freddo e cercammo di convincerla. Lei ci rispose che stava aspettando l’autobus. Fu una battuta molto divertente, ma Giuliana la mattina non se la ricordava e ancora oggi dice che ce la siamo inventata.
Pietro è il favorito di Elia perché è il più intonato, e come al solito se ne andò senza salutare. Te ne accorgi dopo mezzora. Ha i capelli rasta e le mani grandi come i vassoi che i muratori usano per spalmare la malta, è operaio, pacifista, va alle manifestazioni e ama gli animali. In cascina viene sempre con un cane lupo, Asia, e mangiano nello stesso piatto. Soprattutto ama i canarini, ma ne ha fatti morire quattro. Due se li è dimenticati sul balcone durante un temporale, e sono stati fulminati, due sullo stesso balcone ma d’estate, sotto il cellophane, e si sono fusi. Il balcone della morte. Quando è accaduto Pietro ha pianto come un bambino. Fa impressione vedere piangere uno così gigantesco.
Elia stava silenzioso, con lo sguardo spento. Anche i ciechi hanno lo sguardo. Non faceva nemmeno un tiro di fumo. Io avevo capito che c’era rimasto male per la frase di Michele e volevo fare qualcosa. Pensavo magari di chiedere a Sabrina di sedersi vicino.
Michele uscì poco più tardi con la sua tipa trapassata. Oltre alle orecchie e alla lingua aveva i jeans squartati sulle ginocchia e sul di dietro. Cinque minuti e rientrò. Venne accanto e mi disse soltanto che non ne valeva la pena. Anzi, il pene, e scoppiò a ridere come un folle.
Dimitri fu l’ultimo. Non è tanto che c’è. Viene dalla Romania. Da Timisoara. Senza permesso. Elia ci va molto d’accordo perché ha portato una grappa speciale della Transilvania che si chiama Palinca e perché gli parla degli strumenti che usano nel suo paese, come il bucium, che non ho ancora capito cosa è, ma lo citano sempre, dev’essere una specie di flauto che usano in montagna, e delle danze. Una la ballano alle nozze e anche se sono poveri hanno le camicie ricamate e il grembiule doppio. Per la festa di Uanpuire l’abbiamo ballata. Dimitri quella sera ci raccontò di quando l’avevano arrestato alla frontiera, nel bosco. Non ricordo bene il racconto, perché a un certo punto mi accorsi che gli mancava metà dito e mi persi a immaginare. Ricordo però che non lo menarono, ma gli rubarono i soldi. Uscendo dalla stanza disse qualcosa in rumeno, con una smorfia triste, ma nessuno capì cosa aveva detto perché il rumeno non si capisce.
Quando Dimitri si allontanò erano già le tre. Sabrina dormiva sul divano. Io e Michele cominciammo a mettere in ordine. Elia continuava a essere mogio. Michele si avvicinò e gli chiese cosa c’è. Elia disse niente. Michele è uno testardo e glielo richiese. Elia rispose che aveva bisogno di farsi una donna.
Ci fermammo con le pulizie. Io ero preoccupato per Sabrina. Controllavo se si svegliava.
“So io dove portarti”, disse Michele.
“Dove?” domandò Elia.
“A Lugano”.
Per quel che conoscevo io l’unica città di quelle cose era Amsterdam, invece Lugano sembrava lo stesso di Amsterdam, ma più vicina. C’erano posti tipo le case chiuse un tempo, e si poteva andare quando volevamo. Io facevo ssst, perché Michele diceva le cose troppo ad alta voce, e anche Elia. In Svizzera ci sono un sacco di vantaggi. Parlano italiano e la benzina costa meno. Sabrina ogni tanto si muoveva e allora ci immobilizzavamo. Elia fece domande. Michele non spiegava preciso perché in quei posti non c’era mai stato di persona. In ogni caso bisognava decidere e votare. Sabrina fece un sospiro e restammo in statua qualche secondo. Il sabato dopo andava bene a tutti e tre. Sabrina aveva un impegno con le amiche. Lo sguardo di Elia era già migliore. Michele disse chi ci sta alzi una mano. Le avevamo alte proprio quando Sabrina si svegliò e tirò su leggermente. Ci beccò in flagrante. Strinse gli occhi e li sfregò.
“Cosa fate?”
“Votiamo se andare a puttane”, rispose Elia.
“Non la smetti mai tu, eh…” e si scostò dal divano. “Vado un attimo in bagno. Poi andiamo?”
“Sì”, le dissi.
È una grande fortuna quando Elia esagera con le donne. Non gli credono mai.
Aspettando Sabrina prendemmo gli accordi per il sabato successivo.
La partenza fu a casa mia la mattina tardi. Elia in macchina si mise davanti perché c’è più luce. Michele si presentò con ascisc, cartine e una bottiglia di vino. Confronto al solito eravamo vestiti bene. Elia addirittura una specie di papillon.
C’era bel tempo.
Appena in autostrada mi chiese di fermarsi a una stazione di servizio, doveva pisciare. Scendemmo e lo accompagnai. Michele puntò al bar. All’ingresso dei bagni stava una donna grossa con una divisa azzurra. Io portai a braccetto Elia verso uno dei cessi. Lo aiutai a entrarci. Chiuse a chiave. Mi piazzai in mezzo alla stanza, in piedi. Voltai la faccia e vidi la donna grossa. Mi guardava. Non saprei dire come. Poteva essere come schifo o pietà. In silenzio. A parte una ventola che ronzava. Guardava fisso senza staccare un attimo. Io ero anche vestito bene per cui non c’entrava. Doveva proprio essere che era colpita. Giocherellava con le monete. Per fortuna altrimenti c’era solo la ventola. Elia ci impiegava una vita e allora provai a fischiare e spostare la faccia. Lei niente, immobile.
Quando viaggiamo insieme Sabrina non va mai nei cessi pubblici perché dice che sono sporchi. Questi però sembrano puliti.
Sentii lo sciacquone di Elia. Ma non usciva. Avrei voluto chiamarlo. Mi guardava sempre fisso però ora avrei detto che era proprio schifo. Oppure diffidenza, non so, lo stesso di mia zia quando tasta la frutta fuori stagione. Da Elia nessun segnale. Entrarono un paio di tedeschi verso gli orinatoi. Nei bagni delle femmine c’era più viavai, ma la donna non deviava gli occhi e non rispondeva grazie se buttavano le lire nel cestino. Guardava me e basta.
Sabrina non tollera le commesse dei negozi che ti opprimono e non ti lasciano in pace a scegliere. A me non è mai importato ma adesso forse era uguale.
La chiave del cesso scattò. Finalmente. Non usciva. Feci due passi. La donna si mosse dal banchetto. Non era paralizzata dunque. Raccolse una carta per terra e prese uno straccio che stava asciugandosi sul termosifone. Mi guardava ancora. Io pensai che forse lei si aspettava che chi entra dà i soldi all’ingresso, in anticipo. Noi invece siamo passati. Ma no. Non è vero. Le signore dall’altra parte davano i soldi uscendo. Ero praticamente alla porta. Elia da dentro bestemmiò che si era bloccata la lampo. Gli dissi di venire fuori. Ormai anch’io guardavo dritto la donna.
Sabrina dice che ci sono un sacco di lavori terribili. E di facce sfortunate.
La donna tornò al suo posto. Adesso forse era perplessa. Era curiosità. Pensavo la signora non capisce che un cieco piscia ma non smette di essere cieco. Lo so che siamo in autogrill e ha un brutto lavoro. Sabrina avrebbe detto che bisogna capire, capire la signora che non capisce perché siamo qua. Che se uno è cieco è cieco.
Elia aprì l’uscio con il papillon storto e urlò che c’era riuscito con la lampo fottuta. A dir la verità no gli dissi. Ti sistemo che hai fatto un casino. Mi inginocchiai per lavorare meglio. Lui finse che gli stessi facendo un pompino, con tanto di suoni lo scemo. Mi voltai. La donna non aveva cambiato espressione. Ferma là. Come i vecchi sulle strade che sorvegliano i lavori in corso. Aggiustai il casino della lampo. Mi rialzai. Lo presi a braccetto. Disse forte di non dare niente a quelle che tengono i cessi perché il mio dentro era lurido. Ce ne andammo fuori sfiorando il cestino delle monete. Assomigliava davvero a mia zia. Con l’aria di schifo. Di nuovo. Accelerai, ma era come due occhi a grattarmi la schiena. Sono sicuro. Ci stava ancora guardando. Su per le scale. Schifo di cosa poi. Vorrei vedere lei.
Sabrina le avrebbe dato qualcosa.
Al posto del bar, in cima, non c’era molta gente.
I due tedeschi degli orinatoi erano camionisti e bevevano birra insieme ai loro colleghi.
“Quanto ci avete messo…” disse Michele.
Aveva una confezione di biscotti in tasca.
L’alito puzzava già di vino.
Una delle sue specialità, negli autogrill, è rubare. Più che altro mangia scatole di biscotti senza farsi vedere dalle telecamere. Va pazzo per i biscotti eppure è magro scheletrico. E ha il collo lungo. Quando si agita si vedono sopra le vene ingrossate.
Un tedesco con il corpo da Obelix mi diede una gomitata che per poco non mi rovescio addosso il caffè.
Michele mangiò i biscotti lungo il tragitto fino alla cassa. Si infilò una rivista porno sotto la camicia chiedendoci di coprirlo. Per prepararci a Lugano. Pagò un pacchetto di sigarette. Io ero teso perché mi sembrava che la cassiera avesse visto. Invece no. Assomigliava anche lei a mia zia quando controlla la frutta, magari era sorella della signora dei bagni.
Mia zia non la vedevo da almeno sei mesi.
All’aperto mi rilassai.
L’autostrada era sguarnita.
Michele in macchina iniziò subito a sfogliare la rivista e narrarci le sue esperienze. Raccontò di un’avventura con quattro altri, in un locale dove ci si apparta con le ragazze. Nei salottini ci sono tavoli rotondi con sopra le tipe nude che fanno le mosse. Loro stavano seduti su un divanetto più basso che circondava il tavolo.
“Non si paga molto. A un certo momento lei si siede sull’orlo. Ha una bottiglia di spumante e la porge al mio amico. Poi divarica le gambe all’altezza del suo naso. Lui spinge il collo della bottiglia nella vagina. Lo scopo del gioco è che dopo si beve a canna. Il primo il secondo, poi io, poi il quarto. Tocca all’ultimo. Uno che non conoscevo neanche bene. È la prima volta e quasi gli cade per l’emozione. Lei approfitta della pausa e dice a tutti quanti: potete togliere la stagnola almeno?”
Scoppiò a ridere.
Anche Elia e io.
“Almeno capito… ci ha detto almeno. Proprio la figura dei cretini”.
Il viaggio proseguì senza problemi.
Alla radio trasmettevano musica. Elia ce la traduceva, nel senso che indicava gli strumenti e i ritmi, come in cascina sulla pianola prima di partire con un pezzo. Spesso esagera e spiega anche le note o fa le dediche oscene. Ma non durante il viaggio questo. Solo in cascina. Lo censuriamo fischiando. Sui primi accordi ci prova ancora, poi per fortuna comincia.
Dopo alcune canzoni si misero a parlare fitto ma io non li seguivo del tutto. Avevo i miei pensieri. Magari Sabrina non era andata con le amiche e mi stava cercando. Ce n’è una che all’ultimo momento cambia idea e fa cambiare i programmi a tutte. Dipende se la chiama un ragazzo che a lei piace. Le altre si arrabbiano, sia per il cambiamento di programma sia per l’orgoglio sia per il ragazzo che vale poco. Sono molto drastiche nei loro giudizi.
Il discorso fitto di Elia e Michele riguardava il comunismo. Più che altro Michele perché a Elia credo che il comunismo non importa proprio niente. Alla cascina quando capitano le discussioni non apre bocca o ride o tocca le ragazze approfittando perché sono coinvolte e si distraggono. Ricordo che Michele diceva che il comunismo è la vera descrizione della gente, di come la gente vive e che Elia invece di scherzarlo questa volta gli rispondeva e gli diceva che per capire come la gente vive bisogna essere la gente, e che noi non eravamo la gente, ma comodi, ricchi, basta pensare alla cascina, e allora di cosa è la gente Michele non ne sapeva niente. Michele era perplesso. A me venne in mente di dire che è un po’ come se per capire Elia bisogna andare in giro per la strada bendati. Cioè che se uno non è povero, non è che può far finta. Anche questa è una questione filosofica. Giuliana l’avrebbe saputa affrontare. E Sabrina ci sarebbe rimasta male e l’avrebbe criticata. Soltanto che quel pensiero mi riportò a Sabrina e non dissi niente, e la conversazione finì in qualche modo ma non so.
Quando ritornai ad ascoltarli stavano discutendo delle donne che hanno la fantasia di venire quasi violentate. Su questo erano d’accordo. Che le donne si eccitano pensando a qualcuno che le prende con forza. Non con “la” forza, perché quello è proprio stupro, ma a uno anche conosciuto da poco o sconosciuto che a loro piace e che le tratta un po’ violento. Sabrina avrebbe detto che sono discorsi da maschi e che non capiamo niente di loro. Ma non mi interessava molto. Piuttosto mi era rimasto addosso il discorso che bisogna essere poveri. Allora dissi che a proposito di povertà mio padre ha fatto la fame perché la sua famiglia era povera e mio nonno è morto presto, ma che adesso quando gli dico che le arance vanno male e bisogna mangiarle lui mi dice che non fa niente, e se non ci penso io le lascia marcire. Solo che a me le arance non piacciono e non riesco controvoglia. È da quando mia madre è morta che fa così. Non subito, perché fino all’anno scorso le arance le mangiava. Elia commentò che a lui mancano gli occhi ma a molta gente manca la gioia di vedere.
Il collo di Elia è molto differente da quello di Michele. È tozzo e corto, e ha i brufoli e a volte gli spurgano. Da dietro ne vedevo uno enorme.
Chissà perché avevo raccontato quella cosa di mio padre. Sabrina dice che uno non dovrebbe aver paura di esprimere i propri sentimenti. Io sono d’accordo, ma proprio tutti ho dei dubbi. E poi, in questo caso delle arance marce, non lo so che sentimenti sono. Fatto sta che Elia ci spiegò che era stato proprio suo padre a trasmettergli la passione della musica. Quando era piccolo gli intonava la ninnananna ma siccome aveva una voce bellissima Elia non si addormentava e restava sveglio ad ascoltarlo. Michele ridacchiò. Suo padre era stonato. Così stonato che l’unica volta che gli cantò la ninnananna anche lui non si era addormentato. Per il fastidio però. Un’ora. Poi era scoppiato a piangere disperato.
Con suo zio va d’accordo e ci lascia la cascina, ma con suo padre lo odia ancora. Quando è morto disse che si era proprio divertito a guardarlo rotolare da un’orecchia all’altra con gli occhi da gufo terrorizzato.
Proprio lui, a pelo del lenzuolo.
In effetti credo che a certa gente farebbe bene vedere in anticipo la faccia che avrà il giorno della morte.
Per un po’ restammo in silenzio.
Meditavamo.
Ce ne sono pochi di noi che hanno un rapporto felice. Anche Ettore, uno della cascina che Elia disprezza perché non canta. È punk e suo padre un dirigente della fabbrica dove lavora Pietro, quello dei canarini uccisi sul balcone. Adesso Ettore vive in una casa occupata, ma agli inizi usciva dalla villa con l’occorrente per il trucco e i vestiti con le borchie, poi ritornava di notte e sua sorella lo aiutava a ridiventare normale. Sua sorella ha fatto l’università ma gli vuole bene. Lo struccava con gli unguenti speciali che usano le donne e gli faceva lo shampoo per sbiadire il colore. È amica di Sabrina ma non è fra quelle con cui doveva vedersi oggi.
Sempre che sia andata così.
Ettore e suo padre si vergognano ancora.
Michele stappò la bottiglia di vino.
La faceva passare, ma era lui a bere davvero. Anche se in quel momento guidava.
Poi vennero le gallerie.
Significava che ci avvicinavamo alla frontiera.
Quando la avvistammo fu un momento delicato. Avevamo paura che beccassero l’ascisc. Io non ero d’accordo di averlo portato. Michele faceva il gradasso e diceva che se ne sbatteva dei doganieri. Elia che al massimo ci sparavano, e allora? “Così moriamo insieme. Il massimo che si può ottenere dalla vita è una morte condivisa”. A parte la bella frase, morire insieme è impossibile perché muore soltanto uno. Cioè, ciascuno muore per conto suo. Ma poi, a qualcuno può anche non dire niente di morire insieme. Per l’ascisc poi. Ero piuttosto arrabbiato e lo dissi, a me di morire insieme a voi per l’ascisc non m’importa proprio, ma Elia non replicò. Di amici ne abbiamo già persi e non è che siamo morti anche noi. Appunto, disse Elia, a loro non è andata così bene. E intanto i doganieri stavano a centro metri.
Visto che viaggiavano poche macchine le fermavano quasi tutte. Fermarono anche la nostra. Ci chiesero i documenti. Guardavano dentro con le facce guardinghe. Scendemmo. Fecero aprire a Michele il cofano. Controllarono. Gli spiegarono dove acquistare la carta per le autostrade della Svizzera. Fece la colletta e si allontanò. Il fumo l’aveva lasciato sotto un poggia-testa. Dei doganieri uno sbadigliava. L’altro assomigliava a mio cugino. Tutti e due incuriositi da Elia. A un certo punto quello assonnato chiese: “Che ci andate a fare in Svizzera?” Ed Elia rispose: “Andiamo a puttane”. Loro risero. “A Lugano”, aggiunse. Risero ancora di più. Dissero che eravamo fuori di testa. A me non fregava. Basta che non entrassero in macchina. Mentre stavano ridendo Michele spuntò. Da lontano si vedeva che camminava storto.
Con Michele si finisce sempre nei casini.
Dopo tre quarti d’ora Lugano comparve.
A Lugano c’è il lago. Tutto è pulito.
La gente ha la faccia riposata.
C’era un museo con la mostra di un pittore norvegese famoso che piace molto a Sabrina e la gente che faceva la coda sulla strada per centinaia di metri. La nostra visita era meno nobile. Anche se non conoscevamo la città non sembrava difficile. Invece il nome del pittore norvegese sì. Si scrive Munch, ma c’è chi lo dice con la u e chi con la o strana. Sabrina con la o strana. Disegna come se avessero trasmesso un impulso lungo l’orlo delle cose. O come l’acqua mossa che deforma i contorni. Quando fumi o peschi un po’ è lo stesso. Ma a Sabrina non piace per questo. Lei dice che la affascina la luce. Che è triste, calda. Della luna e non del sole. Dice che anche lei si sente così. Io vorrei che fosse più felice. Non per la pittura, ma per lei. Non ce l’ho con Munch.
Avrei voluto chiedere un parere ma a Michele non interessa e per Elia sarebbe una cattiveria.
L’indirizzo l’avevamo. Non il posto giusto, ma la via.
Il primo delle informazioni tentennava. Io non capivo se lo sapeva male o se sospettava il motivo e non voleva accontentarci. Alla fine disse che era meglio assicurarsi con qualcun altro. Il secondo non lo sapeva proprio ma volle a tutti i costi aiutarci. Tirò fuori una mappa e cercò. Si impegnava senza ricavarne nulla. Elia gli chiese se voleva una mano. Era lì per la mostra di Munch. Lo ringraziammo lo stesso.
Una sera in cascina Giuliana autobus ci disse che da piccola sognava di diventare così intelligente da conoscere chi sono tutti quelli dei nomi delle vie. Da allora mi immagino sempre di incontrare uno che li sa e te li insegna. “Via Alessandro Volta… Alessandro Volta il fisico, mise a punto la pila, nato nel 1745, inventore dell’elettrometro condensatore. È la prima dopo il semaforo”. Sabrina disse che era la solita vanità di Giuliana. Io non credo. Gli altri che non c’entra l’intelligenza e comunque era una cosa inutile perché uno in una via ci può andare anche se non sa chi è quello a cui è intitolata. Allora cominciarono a sbeffeggiarla, ma lei non se la prendeva perché ha senso dell’umorismo, e poi perché era una fantasia di quando era piccola.
Il terzo passante risolse i problemi e dopo la spiegazione ci chiese di ripeterla per verificare se avevamo capito. Era un tipo pelle ossa con il pomo della gola molto marcato, simile al mio. In famiglia siamo tutti così. Magari era un altro cugino. Mia madre mi ha sempre parlato di qualcuno in Svizzera.
Finita la doppia spiegazione partimmo.
Ci sentivamo pronti.
Michele sempre con la bottiglia del vino senza offrirla, mentre il fumo facendolo passare.
Dal lungolago andammo verso dentro la città.
La via somigliava a tante altre. Ordinata, e anche se ci sono alberi senza foglie per terra.
Il nostro posto una porta normale con una vetrina buia accanto.
Eravamo in dubbio. L’ho detto, per me l’unica città di quelle cose era Amsterdam. Lì si capisce subito. Sia per le luci che per le donne. I locali hanno chi ti invita a entrare e se dici di no insistono. E poi sono tutti insieme. C’è una strada e ne incontri dieci uno dopo l’altro. Qui invece vicino alla vetrina c’erano due bambini con il monopattino e davanti alla porta la pubblicità di un circo con un pagliaccio che ride.
Io chiesi a Michele, sicuro?
Elia esclamò, e allora?
Michele ci confermò con l’aria da esperto e propose un goccio al bar all’inizio della strada, così i bambini se ne andavano e decidevamo le strategie.
Al bar prese tre whisky, Elia un coca e rhum e io una grappa. Il prezzo era caro, e non sapevamo nemmeno quanto costava il resto. Ma non solo i soldi. Il problema erano le strategie e che Michele all’uscita non stava diritto. Invece di caricarsi si mise a sbadigliare.
Per le strategie pazienza, speravo non fosse complicato. Uno entra e poi vede, ci si arrangia. Parlano italiano. E noi non siamo tipi da agenzie, siamo tipi da autostop. Da avventura. Per i soldi avevo l’ultimo stipendio. Sabrina dice che quando le cose costano troppo sono “uno schiaffo alla miseria”. La sua famiglia non è povera, anzi. Fra le nostre è la più ricca dopo quella del padre di Ettore il punk. Però Sabrina lo dice lo stesso.
Il vero problema era Michele. Quello non ci potevo fare niente, e neanche Elia. C’era il rischio che non ci permettevano di entrare. O che litigasse, quando è sbronzo Michele ha litigato anche con sua nonna, che è paraplegica. Si è fatto sbattere fuori in un sacco di occasioni.
Alla vetrina i bambini stavano giocando ancora col monopattino. Andavano su e giù dal marciapiede. Questa volta però Michele non tergiversò. Si accostò alla porta e suonò il campanello, che non aveva il nome.
Non rispose nessuno.
I bimbi sfrecciavano avanti e indietro e con Elia dovevamo stare attenti.
Michele bestemmiò e suonò ancora proprio mentre la porta si aprì.
Mi prese un colpo, giuro.
Lo stesso naso, lungo, le stesse sopracciglia, cespugliose, lo stesso colore degli occhi, grigio, persino i puntini di forfora, attorno alle orecchie.
L’uomo era vestito da maggiordomo ma sembrava il sosia di mio padre.
Ci disse buongiorno, ci chiese se avevamo appuntamento e anche se non lo avevamo ci invitò a entrare. I bambini si erano fermati con noi e sbirciavano dentro il corridoio.
Gli andammo dietro impacciati. Michele per l’alcol. Elia naturalmente e io per la somiglianza. Fortuna che la voce non c’entrava niente. Mio padre ce l’ha roca e questa specie di maggiordomo invece sottile.
I bambini spiarono fino all’ultimo allungando il collo.
Non che Lugano sia rumorosa, ma appena dentro fu come un mondo dove si parla più basso e si fanno i gesti lenti. Come i campeggi a una certa ora, o le veglie funebri.
Il maggiordomo faceva strada, Michele barcollava e io indirizzavo dalle spalle Elia lungo il corridoio, che aveva la moquette e non aveva porte, e che era interminabile.
Giunto in fondo si fermò di fronte a una porta chiusa. Aspettò tutti e tre, disse prego e la spalancò.
Eravamo finiti in una grande sala, con i divani, le tende gialle, tanti quadri e le scale che portano su. Sui divani sedevano le donne, cinque, più una grassa che venne verso di noi. Avevano le vestaglie, le ciabatte con il peluche sopra, il reggicalze e le giarrettiere. Un po’ come le immaginavo, ma più vecchie di come le immaginavo. Tranne una. Due fumavano dal bocchino. Nel vederci annuirono. La donna grassa ci accolse e ci fece sedere sui tre divani che erano messi a cerchio. Uno per divano con due donne ai lati. Non so gli altri, ma a me toccavano le gambe e mi chiedevano parecchie cose. Quella di destra mi accarezzava intorno all’orecchia. A un certo punto si parlava tutti insieme, prima del viaggio per Lugano e poi fu umiliante, perché una parlò di un libro, e io e Michele non l’avevamo letto, e l’unico ad averlo letto era Elia, in brail. Dopo altri cinque minuti la donna grassa si alzò e disse che era il momento. Io stavo ancora rispondendo a una domanda. Credo quanti fratelli avevo. La donna grassa faceva impressione. La pelle sotto il mento le ciondolava a ogni minimo movimento. Guardai bene e vidi che Michele dormiva con la testa rivoltata all’indietro e la bocca aperta. Prima pensavo che lo stavano baciando. Invece era solo che l’avevano sistemato. Elia chiamò e mi pregò di andare accanto a lui. Chiesi permesso e mi posizionai. La donna rimasta si spostò. Domandò un parere nell’orecchio. Disse che voleva la più esperta. Dissi non saprei. Avevano tutte la pelle come la grassona, con parecchi chili e qualche anno in meno. Una valeva l’altra. Tranne la giovane, sul divano di Michele. Potevo decidere a caso allora o per il trucco o il profumo. Quella con il rossetto viola aveva il sorriso meno fisso. Sempre sul divano di Michele. Il quale russava. Meno male non forte. Le mie due delle domande sapevano di dopobarba. La grassona era fuori gioco e l’ultima stava in bagno e non me la ricordavo. Elia mi tirò la manica e disse che non voleva la più esperta, ma la più bella di faccia. Ci aveva ripensato. In questo caso era facile. La ragazza giovane batteva tutte quante nettamente. Gli diedi subito il parere. Disse che si fidava. La grassona fece fretta. “Voglio lei”, disse Elia, indicando nella direzione giusta. “E voglio che il mio amico venga con noi”, indicando me.
Questo onestamente non me lo aspettavo.
Dopo averlo detto mi trascinò all’orecchia. “Solo all’inizio, quando si spoglia. Così mi descrivi quel che succede. Poi te ne vai”.
Ci pensai.
In fondo, meglio che restare lì. Con rossetto viola, dopobarba uno e due, grassona e l’ultima, tornata dal bagno e peggio delle altre. Il maggiordomo sosia e Michele in quel modo.
Feci va bene.
La ragazza scelta ci guardò.
All’opposto di Elia lei aveva gli occhi veri, ovviamente, ma che è come se guardano per l’ultima volta. Che non vuol dire che sono malati e diventano ciechi anche loro, ma che stanno partendo e non li rivedrai mai più. Per esempio. O che hanno dei brutti presagi. O ne hanno già viste abbastanza e sono stufi. Insomma, fanno soggezione. A osservarla non era italiana. Infatti disse andiamo con l’accento straniero. Aveva la pelle bianca. Infilai Elia sottobraccio. Michele dormiva profondamente. Ci avviammo alle scale. Picchiettò contro il primo gradino impacciato. Poi salì bene. Io chiesi di dove era. Lei rispose della Romania. Da Timisoara. La città di Dimitri della cascina. Elia a sentirlo si galvanizzò tutto e le citò gli strumenti, il bucium, le danze, il Danubio, una minestra con le patate, la macchina Dacia, il mercato nero delle sigarette Kent e dei jeans. Anche alcune parole e alcune persone di Timisoara, se le conosceva. In venti gradini. Non pensavo avesse imparato tanto. Lei era più mesta di Elia e non conosceva direttamente Dimitri o le altre persone, ma qualcuno della sua famiglia sì. Abitavano vicini. Disse che il cielo del suo paese è bello. Poi qualcos’altro in rumeno, come Dimitri quando ci saluta. Ma non si capisce. Arrivammo alla camera. Tirò fuori una chiave. Aprì la porta e ci fece accomodare.
Questa cosa di Timisoara mi colpì.
Ci sono persone che credono a Dio in certi momenti. Come la morte. O la malattia. O la guarigione. A me viene da credere a Dio nelle coincidenze. Tipo quella di incontrare una della stessa città di Dimitri e che quasi lo conosce in un bordello della Svizzera. Come con l’angelo custode. C’è chi pensa che custodisca nelle decisioni importanti. Io invece credo che intervenga quando devi decidere come vestirti o se spostare un mobile. Più che custodirti ti confonde. Sabrina dice che sono concetti strampalati e che non mi capisce. Io non so esprimerlo meglio, ma entrando nella stanza pensavo proprio questo. Che Dio esiste. So anche che Giuliana autobus mi dimostrerebbe che non è un discorso serio.
Dentro la camera feci sedere Elia in una poltrona.
Era una camera molto parca. Un letto, due poltrone scucite, un lavandino con sopra lo specchio e le stesse tende pesanti di sotto, gialle, tirate davanti alla finestra.
La ragazza chiuse la porta.
Elia si alleggerì il papillon e mi disse di sedere anch’io da qualche parte e rispondere sì o no. La ragazza stava in piedi davanti al letto. Non ero proprio a mio agio. Non ero preparato. Cominciò a dire adesso si toglie la vestaglia adesso si toglie le ciabatte, e così via. E lei lo faceva esattamente. Come se fossero istruzioni. Magari perché era rumena e non aveva capito che lui se la stava immaginando. Non è che dovesse ripeterlo per forza. Oppure pensava che il mio compito fosse proprio quello di non farlo pigliare in giro. Oppure si fa così e uno ci si abitua talmente che era naturale, per lei. Ci sono un sacco di perversi. I comandi di Elia invece erano semplici. In quel modo andò avanti. Il reggicalze. Le mutande. Finché diventò nuda. Si stese sul letto. Io confermavo. Non sbagliavano niente. Né lui né lei. Poi scese nei dettagli. Volevo obiettare che questo andava oltre gli accordi. Come con il dito si passava sulla vagina. La allargava. La stringeva. Io dicevo sì. Credo di sì. Perché non riuscivo a vedere qualche volta. Certi particolari li confondevo. Lui sghignazzava e diceva che il desiderio ci vede meglio della vergogna. Lo strano è che a un certo punto non si capiva più bene se arrivavano prima le istruzioni o i gesti, però coincidevano. Lei si introduceva un dito. Poi sfregava i capezzoli. E poi lo leccava. Ed Elia lo diceva nello stesso momento. Io avevo solo da rispondere sì. Soltanto che ogni tanto mi dimenticavo e lo facevo ma con la testa. Allora Elia lo ripeteva ad alta voce e mi ricordavo. Anche le espressioni della faccia erano giuste. Quando teneva gli occhi chiusi e quando aperti. Quando si mordeva le labbra. Quando faceva smorfie come se il piacere le dava la scossa dei disegni di Munch. Quando sorrideva. Quando la faccia era severa, come una sfida.
“Bene”, esclamò Elia all’improvviso.
La ragazza si rotolava sul letto.
“Basta così. Ti ringrazio. Puoi andare”.
Lei si interruppe.
Io mi rialzai.
“Nient’altro?” chiesi.
“Nient’altro”.
“Ci vediamo dopo allora”.
“Divertiti anche tu”.
La ragazza non mi scortò alla porta.
Io la aprii, la richiusi e me ne andai.
Credo durò un’ora.
Scesi da basso.
Dissi no a rossetto viola perché anche se aveva il sorriso meno fisso non mi piaceva per niente.
Michele ronfava.
Siccome ero in imbarazzo decisi di uscire a fare due passi. A differenza della ragazza rumena il maggiordomo sosia mi accompagnò all’ingresso.
L’aria era fresca.
I bambini non c’erano.
Il pagliaccio della pubblicità sorrideva con un’enorme bocca truccata di rosso.
Camminai piano. Passai il bar dove avevamo bevuto prima di entrare. Proseguii. Vidi un’indicazione del lago. Vidi anche un manifesto della mostra di Munch. Un quadro così famoso che lo conoscono tutti. Il grido, o Il verso, o L’urlo. Sabrina lo sa. Me l’avrà detto cento volte. Beh, Il verso non direi. Forse Il grido. A me sembra che gridi. Non che gridare o urlare sia facile distinguerli. Direi anzi che sono la stessa cosa. Allora il quadro potrebbe chiamarsi sia L’urlo che Il grido, dipende dalla traduzione. Bisognerebbe sapere come fa in norvegese. E poi bisognerebbe sapere il norvegese. Urlare o gridare. Forse quando si grida si dicono cose e quando si urla no. Quando si urla sono versi e suoni. Diciamo suoni, altrimenti se sono versi potrebbe chiamarsi anche Il verso. Non so, è complicato. A Sabrina piace proprio perché non è complicato. Non ci devi fare ragionamenti. Ti perfora dentro. A me piuttosto l’uomo di Munch pareva il clown del circo. Anche se il pagliaccio sorride e l’uomo grida. O urla. Chi lo sa. Credo che ha ragione Sabrina. È un bel quadro. Fa bene la gente a fare la fila e tanti chilometri e impiegare tempo per venire a vederlo.
Il lago era di colore cupo. Bello.
Soffiava il vento ma sotto gli alberi le foglie non c’erano lo stesso. Presi un gelato al limone.
Lo mangiai su una panchina.
Tornai dove c’era la coda per la mostra. Si era accorciata. Mi avvicinai. Costava tanto. Dovevo andare da Elia e Michele. Peccato. Vendevano cartoline, magliette e riproduzioni dei quadri. Una cartolina. Per Sabrina. Posso averla trovata dappertutto. Così la attacca in camera sul sughero. Ce n’erano parecchie. Le feci scorrere veloce. Comprai due facce che si baciano e non hanno più i contorni. Si fondono. Pensai ancora a una maglietta. Rinunciai.
Presi la strada del ritorno.
Contento.
L’unica cosa è che mi ero dimenticato di verificare il titolo del quadro.
Più che uno schiaffo alla miseria fu un pugno. Peggio. Calci e pugni. Botte da orbi.
Rientrai nella casa degli appuntamenti.
Mi stavano aspettando preoccupati.
Michele non aveva soldi, o non li trovò. Elia ne aveva pochissimi perché pensava di essere stato invitato da noi. Un’idea di Michele. Non aveva più nemmeno il papillon. Io avevo lo stipendio e bastò. Per un pelo. Addebitarono anche uno specchio rotto da Michele quando si era svegliato per andare in bagno. La ragazza rumena non la rividi. La grassona contò i soldi due volte. Le altre ci annuirono come all’ingresso. Affettuose. Il maggiordomo s’era levato l’uniforme. Vestito borghese la somiglianza era maggiore.
Il viaggio di ritorno fu senza interruzioni. Solo qualche minuto in un autogrill. Scesi io a prendere da bere.
Michele dormiva di dietro. Ogni tanto si svegliava. Restava appoggiato sui gomiti qualche secondo. Ruttava. Guardava da tonto. Dava colpi, sul petto. Sfregava la faccia. Si leccava le labbra. Poi tornava sdraiato. Quando non era così penso che sognava, perché emetteva suoni interrotti come fa il mio cane. Mezze parole, mugolii, sbuffate. Io guidavo e toccavo se c’era la cartolina di Munch nella tasca. Elia parlava e illustrava nei dettagli ogni cosa. In pratica il proseguimento di quello che avevo visto prima di uscire dalla stanza. Persino i graffi e le urla. O i versi. Lei era stata brava e aveva avuto l’orgasmo. In tutto circa mezz’ora. Ho letto che in Europa gli inglesi ventuno minuti e noi italiani quattordici. I tedeschi sedici. Però Elia è onesto e non credo barasse. E poi è un sondaggio inglese. Per quanto mi riguarda non saprei. Alla fine avevano parlato e Elia si era messo d’accordo che potevamo tornare con la pianola e avrebbe fatto un concerto. Me lo chiese e io dissi magari. Non la smetteva più di parlare. Io cominciai a cercare una stazione alla radio. Le trovavo e le cambiavo e non mi fermavo. Sia si sentiva male sia non mi piaceva la canzone. Una cosa che quando la fanno gli altri mi dà molto fastidio. C’è chi va avanti un’infinità e neanche abbassa. Elia dice che a lui mancano gli occhi ma a molta gente la visione periferica. Solo che in quel momento anch’io ero così. Non so perché. Anche Sabrina lo odia.
La ragazza gli aveva detto che rimpiangeva il suo paese. Le capitava di provare tanta nostalgia da darsi i pugni sulla testa. Elia aveva risposto che rimpiangere moltiplica l’esistenza, non serve a niente.
Ritornò sulla questione del concerto. Invece di una volta poteva proporre di assumerlo e diventare la colonna sonora del posto.
A un certo punto ci fu una coda per dei lavori in corso. Elia si interruppe. Michele si issò. Fece le varie operazioni. Guardò fuori. Bestemmiò e si rimise giù.
Superato il rallentamento mancava poco.
Il maggiordomo gli stava antipatico però quando Michele aveva rotto lo specchio era stato calmo. Addirittura aveva offerto una sigaretta.
A sentire il suo nome Michele si svegliò definitivamente.
Si mise a sedere, sbadigliando.
Rimase fermo con gli occhi chiusi.
Poi disse: “Io infatti non rimpiango niente”.
Quando posteggiammo davanti a casa mia, Sabrina era al cancello. Via Matteotti, che fu un socialista e che è stato ammazzato.
Non ci fosse stato Elia avrei escogitato qualcosa. Avevo anche la cartolina. Solo che con Elia non fai in tempo.
Scese dalla macchina per sgranchirsi le gambe, anche Michele. Sabrina ci venne incontro e chiese dove eravamo stati. Non era andata con le amiche. Mi aveva cercato tutto il giorno. Lui cominciò. Lei morsicava le unghie della mano destra e con la sinistra si tirava i capelli vicino all’orecchio. Io stortavo la testa e davo i calci ai sassi. Fu un riassunto rapido, ma a differenza delle altre volte con Elia, Sabrina ci aveva creduto e alla fine tremava con il labbro e con la guancia. Invece Elia ridacchiava e prendeva in giro Michele che non aveva combinato niente.
Ci guardò uno alla volta tutti e tre.
Si vede che stava per piangere.
Un po’ balbettando disse: “Ma non capite che tutto questo è… è… immorale?” e anche se balbettava alzò la voce.
A quella frase guardai lei, tutti e tre e poi Elia.
È complicato dire come si guarda. Non hanno inventato le parole giuste per un sacco di cose.
Quando Sabrina disse tutto questo è immorale Elia la guardò come la donna dei cessi nell’autogrill, o quella della cassa, cioè mia zia sospettosa. Più sospettoso però. Mi fece paura. Elia non è mai duro. In quel momento invece aveva il ghigno feroce.
Rispose: “Essere ciechi, è immorale”, e tra essere ciechi e è immorale ci mise una pausa, come un attore. Ma in quel caso era vero.
Pronunciata la frase si spostò a tastoni verso la macchina. Michele lo aiutò a risalire.
Sabrina rimase lì. Zitta. Si vede che l’aveva convinta. Oppure che anche lei si era spaventata e non aveva il coraggio di replicare.
Partirono, senza più una parola.
Noi fermi al cancello qualche secondo.
Poi corse via piangendo e io non la richiamai.
Domani sera ci sarà una grande festa alla cascina. Festeggiamo la laurea di Giuliana autobus. Elia suonerà e ha detto che vuole discutere del prossimo viaggio. Michele è preoccupato perché verrà troppa gente. Sabrina non so. Perché è la festa di Giuliana e perché dal giorno del cancello non l’ho più rivista. Ha chiamato soltanto per dirmi che ha bisogno di tempo per riflettere.
Io la cartolina la porto lo stesso.
Mancherà Dimitri, che è andato in Romania a trovare la famiglia.
Anch’io sono tornato a trovare mia zia.