ansa_5255324_03470.jpgSono moltissimi gli interventi in Rete di Simona Torretta (nella foto), la responsabile di ‘Un ponte per…’ rapita oggi a Baghdad insieme a Simona Pari. Ne pubblichiamo una, particolarmente significativa, insieme a un intervento audio della stessa Simona Torretta, per sottolineare l’impegno pacifista di un’operatrice volontaria, scesa in Iraq anch’ella per evitare, secondo la delicata espressione che Vittorio Feltri usò a proposito di Enzo Baldoni, la banalità dell’Alpitur. [gg]

Raggiungere l’ospedale di Adnan significa attraversare una città che dopo l’arrivo degli americani è stata messa a ferro e fuoco. I saccheggi e gli incendi stanno distruggendo Baghdad ed è una diretta conseguenza della guerra: sono stati presi d’assalto edifici civili e centri commerciali, ma anche la Biblioteca, il Museo archeologico, perfino la Scuola di musica, dove sono stati irreparabilmente danneggiati strumenti antichissimi. Ed è attraverso questo percorso di devastazione, passando ponti cosparsi di auto distrutte, sorprese dal fuoco incrociato, con tantissime vittime civili, che arriviamo all’ospedale. Che finalmente è “protetto” dai carri armati americani: peccato che sovente impediscano l’ingresso anche ai feriti.

Abbiamo assistito a un episodio del genere: a un uomo con una ferita di arma da fuoco a una gamba non è stato permesso di entrare perché sul pick-up su cui era arrivato, accompagnato da altre persone, era stata trovata una pistola. Invece di sequestrare l’arma i soldati hanno preferito mandare via tutti. I militari di guardia esercitano anche una sorta di censura giornalistica, permettendo l’ingresso soltanto ai fotografi americani e negandolo a quelli degli altri Paesi. E’ uno dei tanti soprusi di questa guerra.
L’ospedale di Adnan non è stato colpito durante i bombardamenti, ma quello che un tempo era uno tra i centri specialistici più famosi del Medio Oriente oggi è diventato solo un immenso, rudimentale pronto soccorso, che accoglie feriti da tutto l’Iraq. Arrivano qui fino a 200 persone al giorno, vittime dei regolamenti di conti che avvengono continuamente e che sono resi possibili dalla dissoluzione di ogni autorità seguita all’arrivo dei carri armati.
I medici sono nervosi, depressi e arrabbiati, finiscono per prendersela con tutti. Raccontano di aver visto le bombe cadere vicine, di aver assistito impotenti all’arrivo delle vittime dei bombardamenti, mutilate e squarciate e di continuare ogni giorno a veder arrivare feriti per i quali possono fare pochissimo. E, come tutti, assistono preoccupati e frustrati a questa occupazione che per loro rappresenta solo la distruzione di ogni tipo di regola, di organizzazione del lavoro e della vita. I medici che lavorano all’ospedale di Adnan sono tutti volontari, perché non contano e non sperano più in alcuna retribuzione. La loro è una situazione di emergenza continua: ormai lavorano e vivono in ospedale, perché non c’è alcun tipo di trasporto pubblico che permetta loro di fare ritorno a casa. Comincia a scarseggiare anche il carburante, incredibile a dirsi nel Paese del petrolio: la benzina è arrivata a costare 3 dollari al litro. Prima della guerra bastava ½ dollaro per acquistarne 60 litri!
Abbiamo parlato con un giovane medico yemenita che ha studiato in Iraq. Si trova a dover seguire anche tre pazienti alla volta ed è sfinito. Per fortuna l’ospedale ha ancora il generatore funzionante, ma non si sa per quanto ancora potranno alimentarlo. Siamo state anche alla banca del sangue: ci sono ancora molti donatori, per fortuna, ma sono terminati i kit di analisi per poter controllare i campioni e mancano le sacche. Dai giorni del bombardamento fino a oggi ne sono state distribuite 5000 in tutti i centri di Baghdad. Un medico, esasperato, ci accoglie con una domanda: “E’ questa la libertà che ci volevano portare? La distruzione di tutto?”
Ci rechiamo poi all’ospedale Jarmouk, colpito durante i bombardamenti e dichiarato inagibile. I medici hanno cominciato a ritornare, ma l’ospedale continua a essere chiuso per mancanza di acqua e di corrente elettrica. Molti altri centri sanitari si trovano nelle stesse condizioni, a quanto ci dicono: nei prossimi giorni cercheremo di visitarli.
Infine incontriamo l’ambasciatore cubano. Ci comunica che sta per lasciare il Paese: Cuba non intende riconoscere il governo che sarà costituito con la supervisione degli USA. E’ furente per il trattamento riservatogli quando si è presentato con il passaporto diplomatico all’ingresso dell’hotel Palestine e dello Sheraton, dove si trovano ancora alcuni scudi umani spagnoli: gli è stato impedito l’accesso dai militari che presidiano tutta la zona. Questo, dice, viola anche le minime regole della diplomazia.