novemilano.jpgdi Massimo Onofri

Nel memorabile incipit al suo Le parole e le cose (1966), Michel Foucault si riferiva a un celebre testo in cui Borges menzionava «una certa enciclopedia cinese», dove starebbe scritto che «gli animali si dividono in: a) appartenenti all’imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini da latte, e) sirene, f) favolosi, g) cani in libertà, h) inclusi nella presente classificazione, i) che si agitano follemente, j) innumerevoli» e così via dicendo. Per Foucault non c’erano dubbi: grazie al riso provocato dalla lettura, nel mentre sottolineava l’impossibilità di pensare insieme tutte quelle cose, Borges problematizzava «la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro». Con un corollario: non sarebbe la vicinanza delle cose a essere impossibile, ma il luogo mentale entro cui dovrebbero convivere, la categoria sotto cui si tenta di classificarle e sussumerle. Ecco: se c’è uno scrittore italiano naturalmente cresciuto dentro tale condizione di perplessità epistemologica, questo è Aldo Nove, nato a Viggiù, al confine con la Svizzera, esattamente un anno dopo la pubblicazione del libro di Foucault.

Si potrebbe addirittura aggiungere che Nove s’è avvalso subito di quella perplessità per approdare, con agio e candore, a uno sguardo straniante, lo stesso di certi suoi personaggi, magari gli strepitosi teleutenti di certi racconti di Woobinda (1996), per non dire dell’imperturbata infanzia d’un libro come La più grande balena morta della Lombardia, stampato di recente dall’Einaudi.
Prendete questa pagina di Milano non è Milano, primo titolo d’una nuova e aggressiva collana, Contromano, appena varata dalla Laterza, e che, accanto a molto altro, proporrà ulteriori guide d’autore alle città italiane:

«Nella mia vita, nel 1974, avevo già visto:
1) I campi innevati della Svizzera.
2) Mia madre.
3) Una cosina che mi aveva fatto vedere mia cugina in cantina che da lì a pochi anni avrei capito essere molto importante per la vita umana.
4) Il parroco di Viggiù ubriaco.
5) Bobby Solo (dal vivo).
6) Gli gnu (alla tele).
7) I biscotti Colussi. E un sacco di altre cose, ma nessuna bella come quella. Che ho visto quella volta. Che ero in piazza Duomo. E non c’entrava niente con il Duomo. Ma era dall’altra parte della piazza. Dove in un trionfo di luci al neon una dattilografa di luce batteva a macchina. Come di fronte a un videogioco grande due volte una casa normale. Una donna gigante di luce. In una città su una parete di luce. Decine di pubblicità. Un bombardamento di colori».

Nel restituirvi la citazione ho trascurato, per comodità del lettore, i numerosi a capo, che ne enfatizzano le intenzioni pervicacemente paratattiche: contribuendo a quella sillabazione semplificata dei pensieri che mi pare un tratto rilevante della scrittura di Nove, in vista d’un consapevole neoprimitivismo, se posso sviluppare un’intuizione credo di Cortellessa.
Una sillabazione semplificata che si traduce spesso, con esiti d’ironia e d’autoironia, in un azzeramento culturale della distanza tra alto e basso: «E quindi. “Non è possibile immergersi due volte nello stesso fiume”, diceva Eraclito (e anche Battiato). Allo stesso modo, non è possibile andare a Milano due volte». Se ho indugiato nella citazione non è solo per motivi di mera analisi del sangue: quanto perché vi s’illumina il particolare imprinting, titanico e pubblicitario, luminoso dell’astratta luce del neon, su cui Nove ha costruito tutto il suo racconto della città. Una città che, nel secolo appena trascorso, ci è stata restituita dalla letteratura come poche altre (per me, memorabile, quella di Scerbanenco Bianciardi e Testori, o di certi versi di Giudici Pagliarani e Raboni). E che pure trova qui nuovo respiro e nuovi spasmi, rinnovate ragioni d’esistenza.
[da “Diario”, IX, n. 29, 23-29 luglio 2004]