bhopal1.jpgSono passati esattamente vent’anni dal più sconvolgente dramma di contaminazione che il mondo abbia mai registrato: la tragedia di Bhopal, mezzo milione di contaminati e trentamila morti. Riportiamo un’intervista che Dominique Lapierre ha rilasciato a Grazia Casagrande di Cafè Letterario in occasione dell’uscita italiana di Mezzanotte e cinque a Bhopal, il suo libro inchiesta pubblicato nel 2002. A seguire, un articolo di Mark Hertsgaard da ‘The Nation’, presentato in traduzione italiana da Nuovi Mondi Media.

Come è nato questo libro?
Da un impegno umanitario. Una persona di Bhopal, una città che non avevo ancora visitato posta al centro dell’India, è venuta a chiedere il mio aiuto per aprire una clinica ginecologica. Molte donne infatti ancora oggi soffrono per le conseguenze di una tragedia industriale, la più grave di tutti i tempi: il 2 dicembre 1984 una grande nuvola tossica è fuoriuscita da una fabbrica americana di pesticidi, uccidendo 30.000 persone e contaminandone più di 500.000. Sono andato a Bhopal e ho scoperto una città straordinaria. Ho aperto poi, grazie ai diritti d’autore di La Città della gioia e di Mille soli, una clinica ginecologica per donne che erano state totalmente abbandonate, che non avevano mai ricevuto nessun trattamento medico, nessun aiuto finanziario e che vivevano in estrema povertà.

Una notte poi, nella camera del mio albergo, ho iniziato a domandarmi che cosa fosse successo in quella città quella fatidica notte e ho deciso di iniziare un’inchiesta, facendomi aiutare da mio nipote Javier Moro, per scoprire i retroscena della vicenda e raccontare questa storia drammatica cominciata come una favola.

In effetti, in un primo tempo, tutti pensavano che quella fabbrica fosse un dono bellissimo.
Lapierre_autore.jpgEsattamente: dare pesticidi ai paesi più poveri dell’India per eliminare gli insetti che mangiavano le colture era veramente un sogno, tanto più che artefice era una multinazionale prestigiosa quasi mitica, la Union Carbide. Un sogno, una favola che in sette anni si è trasformato in un incubo, in un disastro totale. Volevo raccontare questa storia mostrando tutti i protagonisti, dando un volto agli ingegneri americani che avevano costruito la fabbrica e alla gente di Bhopal, vittime eroiche, persone veramente straordinarie. Io e Javier abbiamo condiviso la loro vita, abbiamo mangiato il loro cibo e bevuto la loro acqua, quell’acqua avvelenata da 15 anni dagli effluvi tossici della Union Carbide. Questo è davvero uno scandalo. Una delle prime cose che vorrei fare con i diritti d’autore di quest’ultimo libro è portare a questa gente dell’acqua potabile, 20 litri ciascuno ogni giorno. L’acqua è la vita. Nell’ultimo viaggio a Bhopal ho bevuto mezzo bicchiere d’acqua da un pozzo e la mia bocca è rimasta infuocata per cinque giorni. Questo è successo 18 anni dopo: una tragedia nella tragedia.

Ma qualcuno sapeva dei pericoli esistenti?
Sì, la Union Carbide conosceva bene le norme di sicurezza. Sapeva che l’isocianato di metile, il gas che è necessario per produrre il pesticida, lo stesso che serve per produrre il gas nervino, era molto pericoloso. Credo sia il gas più pericoloso di tutta l’industria chimica, ma esisteva una precisa cultura per la sicurezza in fabbrica. Questa però fu costruita senza tenere conto del clima totalmente differente e imprevedibile dell’India: un anno non c’è acqua e le colture muoiono, un altro anno ce n’è troppa… quando il clima crea problemi, i contadini non comprano più i pesticidi. Dopo due o tre anni la fabbrica di Bhopal ha cominciato a perdere soldi e, in una logica capitalista, quando si perdono soldi bisogna fare economia.

E che tipo di economia si è fatta?
Il direttore della fabbrica scelse di farla sulla sicurezza perché è un settore molto costoso. Così iniziò una lenta caduta all’inferno, fino a quell’ultimo tragico giorno. Nell’ultima settimana avevano già abbassato la refrigerazione delle cisterne piene di isocianato di metile, gas ben conosciuto dai tecnici, che deve essere conservato a una temperatura non superiore a zero gradi. L’azienda invece, con un risparmio di centomila lire al giorno di elettricità, ha abolito il sistema di refrigerazione. Quella notte la temperatura esterna della città era di 19 gradi ed è bastata un po’ d’acqua infiltratasi nella cisterna a produrre una reazione che ha trasformato tutto l’isocianato di metile, che era liquido, in gas che, diffondendosi nell’atmosfera, ha ucciso circa 30.000 persone. Quella notte, il due dicembre 1984, il vento soffiava da nord a sud, a nord c’era la fabbrica e a sud i quartieri della miseria, le bidonville.

Ma non è stato individuato un responsabile?
Non c’è un solo responsabile: è una cascata di responsabilità. Non c’è mai stato un processo in tribunale che abbia dichiarato un colpevole. Il presidente dell’Union Carbite, al tempo della catastrofe, ha ricevuto un mandato dall’Interpol per essere giudicato di fronte ad un tribunale indiano ma non si è presentato, e neppure noi siamo riusciti a intervistarlo quando lo abbiamo cercato nella sua casa in Florida. Lo scandalo maggiore è che la Union Carbide ha dato al governo indiano, cinque anni dopo il disastro, 470 milioni di dollari garantendosi la totale impunità, ottenendo cioè che il governo indiano non accusasse il presidente della società di quanto era accaduto.
Ben poco di quei soldi è in realtà arrivato alle vittime innocenti e alle persone di Bhopal!

Non c’è più niente da fare allora?
La pubblicazione di Mezzanotte e cinque a Bhopal ha provocato una grande commozione sia in India che in Europa e spero di poter cambiare le cose grazie a un libro che è un atto d’amore per l’India, una storia di eroi oscuri, come quella religiosa che in quella notte tragica è riuscita a salvare decine e decine di bambini, persone che sono sopravvissute per vincere ogni tipo di avversità: per noi occidentali che abbiamo tutto, ma non ce ne rendiamo conto è un messaggio fantastico di fede, di speranza…

C’era stato però un giornalista che aveva denunciato la gravità della situazione.
Sì e la cosa ha dell’incredibile. Quattro articoli apparsi in un giornale molto importante di Bhopal: un giornalista, che aveva amici nella fabbrica, sapeva che le misure di sicurezza erano completamente disattese e ha denunciato la situazione per ben quattro volte dicendo che la città era sull’orlo di una catastrofe, ma nessuno lo ha ascoltato.

Il suo libro fa particolarmente riflettere oggi in periodo di globalizzazione, quando esiste il pericolo che si utilizzino, senza molti scrupoli, i paesi più arretrati per guadagnare maggiormente.
Il pericolo è reale, ma il tema è anche più vasto: la cultura della sicurezza esisteva anche in quei luoghi e a quel tempo, ma la logica del capitalismo vuole che una fabbrica non possa perdere soldi. Proprio questa mentalità può provocare incidenti ovunque, anche negli Stati Uniti. Ad esempio ho visitato una fabbrica di pesticidi a Charleston in West Virginia, sei volte più grande della fabbrica di Bhopal e ho sentito un odore particolare, l’odore dell’isocianato di metile, intendo dire che la più grande, sofisticata e protetta delle fabbriche non sarà mai immune da incidenti se non si investe molto denaro sulla sicurezza. Se succedesse qualcosa a Charleston sarebbero 250.000 americani a subirne le conseguenze.

I suoi lettori possono in qualche modo contribuire?
Sì, leggendo il libro. Con i diritti d’autore possiamo fare molto, possiamo cambiare la vita a migliaia di persone che ancora oggi hanno bisogno di trattamenti medici particolari. Sinceramente credo che in Italia potrò ottenere buoni risultati perché ho scoperto che avete un livello di solidarietà e di generosità davvero straordinario: ci sono più medici e infermieri volontari di nazionalità italiana nel terzo mondo che di nessun’altra nazione.

L’eredità di Bhopal
di Mark Hertsgaard
da The Nation

bhopal3.jpgBhopal, la peggiore catastrofe industriale della storia, 22.000 morti. A quasi 20 anni dalla tragedia i responsabili non hanno mai subito un processo. Il governo indiano ne ha ora chiesto l’estradizione, ma Washington non ha accettato l’istanza.
Con puntualità, da ormai diciannove anni, a dicembre, le vie di Bhopal, India, si popolano di manifestanti che danno alle fiamme un’immagine di Warren Anderson. L’uomo in questione era il presidente della Union Carbide quando, il 3 dicembre 1984, nella fabbrica di Bhopal, di proprietà della compagnia, un’esplosione provocò la fuoriuscita di una nube tossica di isocianato di metile che avvolse i quartieri poveri causando la peggiore catastrofe industriale della storia. Non si saprà mai il numero esatto delle vittime — molti corpi vennero cremati o sepolti in fosse comuni d’emergenza senza un’adeguata documentazione — ma il governo indiano, in una stima non ancora definitive, conta più di 22.000 morti.

Con il ventesimo anniversario del disastro ormai alle porte, Bhopal torna a far notizia. Il 19 aprile scorso il premio per l’ambiente più prestigioso degli Stati Uniti è stato consegnato a due attiviste impegnate nella difesa dei diritti dei sopravvissuti della tragedia. Alla cerimonia annuale per il Goldman Evironmental Prize a San Francisco, Rashida Bee ha ammesso che in un primo momento sia lei sia Champa Devi Shulka, sua compagna di lotte, avevano pensato a un errore. “Sapevamo di alcune persone che avevano già vinto premi,” spiega, “[ma quelle persone] erano tutte istruite, parlavano inglese e avevano una casella di posta elettronica”.

Bee e Shukla, musulmana la prima e indù la seconda, lottano in prima linea affinché la responsabilità del disastro di Bhopal sia attribuita alla Union Carbide e al suo nuovo proprietario, la Dow Chemical. Secondo le due donne ancora oggi migliaia di persone ogni anno muoiono o soffrono a causa delle falde acquifere contaminate. “La nube tossica provocò una strage immediata, in una sola notte, ma anche gli ultimi vent’anni sono stati terribili,” rivela Shukla in un’intervista. “La gente continua a star male e ad avere problemi respiratori e già si verificano i primi casi di cancro. I bambini nascono con handicap fisici e mentali. Molte donne sono sterili o non hanno mai avuto le mestruazioni, e quindi nessun uomo le vuole in moglie” . Nel 1999 una ricerca commissionata da Greenpeace International, ma condotta da scienziati indipendenti, ha riferito che le falde acquifere di Bhopal contengono metalli pesanti, sostanze chimiche volatili e una quantità di mercurio milioni di volte superiore al livello consentito.

La Union Carbide e la Dow non hanno mai subito un processo per gli eventi di Bhopal — una situazione impensabile, accusano le attiviste, se la strage fosse avvenuta negli Stati Uniti o in Europa. Nel 1989 la Union Carbide raggiunse un accordo di 470 milioni di dollari con il governo indiano, basandosi su stime ormai inaffidabili che contavano solo 3000 morti e 100.000 intossicati. Nel 1991 l’accordo venne riesaminato da un tribunale indiano che decise per l’imputazione a carico della Union Carbide e di Warren Anderson. Né la multinazionale né Anderson si presentarono al processo e vennero quindi dichiarati latitanti. Il governo indiano ha ora chiesto l’estradizione, ma Washington non ha accettato l’istanza. Nel frattempo, la Dow, che nel 1999 ha acquistato tutte le azioni in circolazione della Union Carbide, ha dichiarato di non volersi accollare le presunte responsabilità della multinazionale in merito alla strage di Bhopal. “La Dow ribadisce che l’acquisto delle azioni della Union Carbide non ha implicato altre responsabilità,” scrive John Musser, un portavoce della Dow, in un’intervista via e-mail.

Bee e Shukla hanno così deciso di viaggiare per gli Stati Uniti, sfruttando il prestigio ottenuto con il premio Goldman per promuovere la loro causa. Il 13 maggio affronteranno i dirigenti della Dow a un incontro tra azionisti che si terrà a Midland, Michigan. Esigono che la Union Carbide/Dow compaia di fronte a un tribunale indiano, provveda alle cure mediche e al riscatto economico dei sopravvissuti e contribuisca al risanamento ambientale di Bhopal. Rifiutano l’ipotesi che con il risarcimento di 470 milioni di dollari la società abbia definitivamente assolto i propri obblighi. “Quell’accordo fu stipulato tra la Union Carbide e il governo indiano, non con le persone colpite dalla strage,” afferma Rashida Bee. “Nessuna delle vittime fu interpellata.”

Considerando le loro umili origini, le due attiviste non pensavano che un giorno avrebbero lottato contro la più grande multinazionale della chimica del mondo. Bee era analfabeta, aveva 28 anni e, quando ebbe luogo il disastro,non sapeva nulla del mondo . Viveva in una famiglia allargata di cui sette membri persero la vita, mentre suo marito s’ammalò a tal punto da dover rinunciare al lavoro di sarto. Shukla perse il marito e i due figli. Una delle figlie subì tre aborti, un nipote morì e una nipote nacque con il labbro leporino e senza palato.

Bee e Shulka non esitano a definire ciò che accadde a Bhopal un vero e proprio crimine, piuttosto che un semplice incidente. “Le cause del disastro sono da rintracciare nell’imperdonabile negligenza e nell’insistenza a ridurre i costi mostrate da Warren Anderson”, afferma Bee. Alcuni documenti riservati della Union Carbide, presentati nel 2002 durante una causa civile intentata nei confronti della società, sembrano avvalorare la sua tesi. Un documento del 1973, firmato dallo stesso Anderson, mostra come le tecnologie che dovevano essere impiegate a Bhopal non fossero state testate. Un rapporto del 1982 sulla sicurezza ad opera di alcuni esperti della Union Carbide avvertiva che all’interno della fabbrica erano state riscontrate “serie possibilità di fuoriuscita di materiale tossico in quantità considerevole”.

John Musser, portavoce della Dow, conferma l’esistenza del rapporto del 1982, ma asserisce: “Le rilevazioni contenute nel rapporto non avrebbero potuto evitare la tragica fuoriuscita di gas tossico e comunque tutte vennero prese in considerazione molto prima del disastro del dicembre 1984” . La multinazionale ribadisce che si trattò di sabotaggio. Musser fa notare, inoltre, che in occasione dell’accordo del 1989 fu il governo indiano a volersi dichiarare unico rappresentante delle vittime di Bhopal. Nega poi la veridicità delle accuse di contaminazione delle falde acquifere contenute negli studi che alla fine degli anni ’90 vennero effettuati da alcune agenzie governative locali e federali indiane.

“I nostri studi non coincidono? Andiamo in tribunale e lasciamo che sia il giudice a decidere,” propone Gary Cohen, direttore dell’Environmental Health Fund (Fondo per la salute ambientale, NdT) di Boston. Cohen dubita che l’Amministrazione Bush permetterà l’estradizione di Anderson o degli attuali dirigenti della Union Carbide/Dow. Ma, continua, “La Dow intende espandersi in India e cercheremo di ostacolarla” sollevando dubbi sull’affidabilità di una multinazionale che rifiuta di presentarsi in giudizio. Nityanand Jayaraman dell’International Campaign for Justice in Bhopal (Campagna internazionale per la giustizia nella città di Bhopal, NdT) dichiara che gli attivisti hanno in progetto di far pressione sul governo indiano affinché la causa penale in corso coinvolga anche la Dow e non si limiti alla Union Carbide; a quel punto, se la Dow rifiutasse di comparire di fronte a un tribunale, il governo sarebbe legittimato a confiscarne i beni.

Dal canto loro, Rashida Bee e Champa Devi Shukla sperano di scovare Warren Anderson durante il loro viaggio per gli Stati Uniti e di ottenere giustizia di persona. Dichiara Shukla: “Dovessimo incontrarlo, gli chiederemmo: se è innocente, perché si nasconde e non risponde alle domande su quanto accadde a Bhopal?”

Tradotto per Nuovi Mondi Media da Maria Romanazzo (mromanazzo@aliceposta.it)
Fonte: http://www.thenation.com/doc.mhtml?i=20040524&s=hertsgaard
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SCHEDA
IL CASO BHOPAL

bhopal2.jpg2/3 ottobre 1984. Bhopal, capitale dello stato di Madhya Pradesh, nell’India centrale. Quaranta tonnellate di gas tossici fuoriescono dalla fabbrica di pesticidi della “Union Carbide India Ltd” [nella foto a sinistra], consociata della multinazionale statunitense.
Uno dei gas tossici è il Mic, l’isocianato di metile, l’elemento base per la fabbricazione del Sevin, uno dei più potenti pesticidi creato nei laboratori della Union Carbide nel 1957 da tre scienziati americani come sostitutivo del Ddt.
Caratteristica fondamentale del Mic è l’irritabilità della sua molecola che, a contatto con sostanze impure, ma anche più semplicemente con l’acqua, e a temperature superiori agli zero gradi, reagisce creando un’ esplosione.
L’altro gas tossico è il fosgene, un pericolosissimo gas incolore che, nel caso di una breve esposizione, può causare gravi danni ai polmoni fino a provocare l’edema polmonare.
Tutto cominciò nel 1969 quando il Ministro dell’agricoltura indiano concesse all’Union Carbide la licenza di fabbricare 5000 tonnellate di pesticidi all’anno. Furono necessari quattordici anni prima che, nel maggio 1980, i reattori chimici di Bhopal producessero i primi litri di Mic. Ma la produzione non raggiunse neppure un quinto di quella sperata e, nel 1982, la fabbrica venne chiusa. Una quantità ingente d’isocianato di metile rimase inutilizzata in tre vasche di stoccaggio.
Fino alla sera del 2 dicembre 1984 quando, durante l’operazione di pulizia delle vasche, il cattivo stato di efficienza di tutto l’impianto consentì a quattrocento litri di acqua, di entrare in contatto con il Mic. La reazione chimica causata, sprigionò una nube larga quasi centro metri. Secondo la Union Carbide 3800 le persone morirono nelle prime ore successive all’esplosione; secondo la UK Campaign for Justice in Bhopal il numero di vittime che morirono nell’immediato furono 8,000. 16,000 le persone morte nei mesi successivi. 500,000 le persone che ne hanno subìto gli effetti negativi. 150,000 i malati cronici. Gli abitanti di Bhopal hanno sofferto e soffrono ancor oggi di cancro e tubercolosi, insufficienza respiratoria, tosse cronica, ulcerazione della cornea, febbri ricorrenti, ustione della pelle, aborti.
In seguito ad un accordo con il governo indiano nel 1989 la Union Carbide accettò di pagare 470 milioni di dollari, cifra duramente contestata dalle vittime e dagli ecologisti indiani. Il presidente della Union Carbide al tempo della tragedia, Warren Anderson, lasciò la carica nel 1986. E, nel 1992, l’ India spiccò contro di lui un mandato di cattura internazionale e da allora è considerato “latitante”. Il processo contro Warren Anderson ha subito continui rinvii e il rischio è che il governo indiano, sotto le pressioni delle multinazionali, declassi l’accusa da omicidio a semplice negligenza.
A vent’anni di distanza il caso Bhopal non è ancora chiuso.
Dal sito: www.bhopal.org