spartakus.jpgdi Fabrizio Billi

Furio Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, 18.08 euro

Furio Jesi scrisse nel 1969 questo libro sulla rivolta spartachista del 1919, ovvero il tentativo comunista di presa del potere in Germania. Non si tratta però di una ricostruzione storica di quell’episodio, ma di una riflessione su cosa sia una rivolta, sul ruolo dei simboli e dei miti nei moti di rivolta e sul rapporto di questi con la filosofia della storia marxista.


Secondo Jesi, la rivolta è una “sospensione del tempo storico”, una interruzione dello scorrere del tempo normale della quotidianità. La differenza tra rivolta e rivoluzione non starebbe tanto nei fini, che possono essere i medesimi (la presa del potere), la differenza starebbe piuttosto nella “diversa esperienza del tempo”. La rivolta sarebbe un improvviso scoppio insurrezionale che non necessariamente implica una strategia a lungo termine, mentre la rivoluzione invece sarebbe un evento inserito all’interno del tempo storico perché finalizzata in una strategia a lungo termine, calata nei processi storici.
In realtà la differenza tra rivolta e rivoluzione non risulta poi così netta; anche altri eventi possono essere capaci di provocare “una diversa esperienza del tempo”, come per esempio una guerra.
Il giudizio storico di Jesi sulla rivolta spartachista è che essa fu un tentativo prematuro di rivoluzione, dovuto all’impazienza dei militanti del neonato Partito Comunista Tedesco (Kpd), mentre i più avveduti dirigenti erano contrari all’insurrezione. La simbologia della rivolta si realizza concretamente proprio nelle vicende dei più significativi dirigenti del Kpd, Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, che furono assassinati dalle milizie paramilitari. Nonostante prima dello scoppio della rivolta essi avessero cercato di convincere, senza riuscirvi, i militanti del Kpd che l’insurrezione era prematura, quando la rivolta volse al peggio essi non fuggirono da Berlino per cercare rifugio al sicuro. Questo avvenne, secondo Jesi, perché “Rosa Luxemburg non poteva dissociare totalmente la rivolta dalla rivoluzione. Non poteva dissociare totalmente la rivolta spartachista dalla sua persona”. Rosa Luxemburg diviene così simbolo della rivolta. I rivoluzionari del passato, ricorda Jesi, non avevano esitato ad abbandonare la patria quando la rivolta veniva sconfitta: Marx ed Engels ripararono in Inghilterra dopo il fallimento della rivoluzione tedesca, Lenin nel luglio ’17 lascia Pietrogrado per la Finlandia. Il loro era un comportamento da rivoluzionari che fuggono per preparare meglio la rivoluzione in futuro. Il comportamento della Luxemburg e di Liebknecht è un comportamento dovuto al fatto che per loro “la rivoluzione comprendeva anche la rivolta fallita”.
Il valore dei simboli e dei miti è predominante nella rivolta spartachista: i corpi della Luxemburg e di Liebknecht, trasfigurati in martiri dal loro assassinio, assurgono a simboli con cui si identifica ed in cui si incarna la rivolta. La stessa città di Berlino è un simbolo. Berlino viene scelta dagli spartachisti come obiettivo non solo per “la scarsissima rispondenza rivoluzionaria delle campagne, quanto perché possedevano la certezza che la conquista dei simboli del potere — innanzi tutto, dunque, la conquista di Berlino – avrebbe necessariamente determinato la vittoria totale”. Questa importanza dei simboli nella rivolta berlinese coesiste con gli aspetti più propriamente “politici”: “indubbiamente la rivolta spartachista non fu opera e neppure frutto più o meno remoto dei responsabili dell’espressionismo: non fu, è ovvio, soprattutto un’operazione poetica, neppure se si attribuisce a “operazione poetica” il significato di esperienza esistenziale globale che vi riconoscevano i teorici dell’espressionismo. La rivolta spartachista può essere meglio configurata come uno scontro di classi…e tuttavia non bisogna negare che quello scontro presentò anche caratteristiche del tutto eccezionali”.
Partendo dalle considerazioni sulla rivolta spartachista, Jesi riflette sul ruolo dei miti e dei simboli nella filosofia della storia marxista. Osserva che “non a caso si è osservato che Marx rimase fedele alla sua origine ebraica trasferendo l’immagine del popolo eletto nel proletariato mondiale e il patto di Abramo con Dio nella fatalità delle leggi economiche”. Secondo Jesi la debolezza della filosofia della storia marxista consiste proprio nei suoi elementi escatologici, che è necessario superare: perché “il marxismo acquisti verità là dove si emancipi dallo pseudomito dell’età dell’oro di perfetta giustizia per limitarsi a rendere veri i soli tempi verbali del presente e del futuro prossimo”. In questo senso, pare di capire che Jesi intenda che la Luxemburg e Liebknecht si sono sacrificati non per eroismo o volontà di martirio, perché anzi erano contrari a quella che consideravano un’operazione avventurista, benché una volta scoppiata l’insurrezione l’abbiano appoggiata perché non restava altro da fare, se la maggioranza dei loro compagni aveva fatto quella scelta. Ma in loro resta netta la distinzione tra rivolta e rivoluzione, tra uno scoppio insurrezionale dagli incerti destini ed una strategia che porti ad un effettivo cambiamento. Essi ritenevano, come scrive Rosa Luxemburg, che “la storia rende il nostro compito più difficile di quello delle rivoluzioni borghesi, quando era sufficiente rovesciare il potere centrale e collocare là qualche uomo”.

DA SPARTAKUS ALLE LETTERE CON KERENY
di F. Cassata
[da L’Indice, n. 11, 2000]

Nell’introduzione a un numero monografico di “Cultura tedesca” dedicato alla figura di Furio Jesi, Giorgio Agamben e Andrea Cavalletti individuano efficacemente gli elementi di maggior interesse e difficoltà presenti nell’opera del mitologo e germanista torinese, scomparso nel 1980 a soli 39 anni: da un lato, l’eccentricità di un'”officina creativa” lontana dai percorsi accademici e non inscrivibile all’interno delle due culture egemoniche del dopoguerra italiano, quella marxista e quella cattolica; dall’altro, l’elaborazione di una complessa forma di scrittura, che fa del saggio una composizione architettonica, organica e coesa attorno a densi nuclei epistemologici. Tali caratteristiche vengono costantemente ribadite dalla pubblicazione di inediti, che contribuiscono ad aggiungere nuovi frammenti a un autoritratto di Jesi prematuramente interrotto: come, ad esempio, i testi su mito e linguaggio, le lettere a Calvino, le riflessioni su Rilke e Benjamin, contenute in “Cultura tedesca”. Ma soprattutto come un libro di grande originalità, Spartakus, consegnato all’editore Silva nel 1969 e pubblicato solo ora da Bollati Boringhieri.

Spartakus non è una storia del movimento spartachista tedesco, bensì una riflessione teorico-mitologica sui caratteri generali del fenomeno della rivolta. L’asse portante dell’argomentazione jesiana ruota intorno al binomio rivolta-rivoluzione. La differenza consiste in una “diversa esperienza del tempo”: la rivolta è sospensione del tempo storico, dotata di valore autonomo, indipendente dalle sue conseguenze e dai suoi rapporti con la storicità; la rivoluzione è, invece, calcolo strategico di lungo periodo, immerso nel tempo storico. A una visione “esterna”, storicistica della rivolta, Jesi contrappone un’interpretazione “interna”, husserliana, fenomenologica. Alla svalutazione della rivolta propria della dialettica marxista, Jesi risponde con una rivalutazione del fenomeno insurrezionale, incentrata sulle categorie della scienza del mito.

Dal discorso mitologico provengono, infatti, le griglie concettuali entro cui si sviluppa la fenomenologia jesiana della rivolta. Già l’assunzione del nome di Spartaco rivela “una cristallizzazione strategica del presente storico tale da evocare l’epifania del tempo mitico”. La rivolta si colloca all’intersezione tra tempo mitico e tempo storico e ciò spiega la sua strutturale inattualità. Alla separazione tra moto della storia e immobilità del mito propria del saggio sull’éternel retour di Mircea Eliade, Jesi contrappone la sintesi di tempo storico e tempo mitico nell’ambito del “funzionamento esistenziale dell’io”, nell’istante della “distruzione” del soggetto e del suo accesso al mito. È questa la “teologia della rivolta”: la rivoluzione, rifiuto della borghesia, è attuale perché costruisce e prepara il domani; la rivolta, esasperazione della borghesia, è inattuale perché distrugge, evocando il dopodomani.

Rivolta è, in secondo luogo, affermazione esclusiva delle componenti simboliche dell’ideologia e demonizzazione mitologica dell’avversario: l’impatto della guerra e la stessa realtà fisica del potere capitalistico berlinese inducono gli spartachisti a stigmatizzare i nemici come “mostri”. Il manicheismo della rivolta rivela, però, l’incapacità marxista di istituire quel rapporto vitale tra mito e strategia politica, colto, invece, secondo Jesi, dalla cultura borghese, con Storm e Mann. Il fenomeno insurrezionale porta con sé, infatti, la “mitologizzazione della sconfitta”: la fascinazione dei simboli del potere capitalistico produce l’esigenza di contrapporre a un avversario demonico una virtù eroica. La morte di Rosa Luxemburg e di Karl Liebnecht diviene così, da un lato, testimonianza di una “propaganda politica genuina”, che corrisponde al linguaggio di verità del mito; dall’altro, “sacrificio” dettato dalla logica “autolesionistica” della rivolta. E i simboli del potere avversario intervengono nel processo di mitologizzazione della lotta di classe, nella misura in cui il sacrificio si trasforma in “precedente esemplare”.

Se la rivolta è rottura del “tempo normale”, ovvero della “manipolazione borghese del tempo” e della sua dialettica mito/storia, la scrittura della rivolta deve porsi in chiave di de-mitologizzazione. Per questo, il Doktor Faustus di Mann e il Tamburi nella notte di Brecht, rifiutando di inserire la rivolta del 1918-19 in un nuovo processo mitologico e considerandola invece come sconfitta dell’uomo di fronte al destino, ne restituiscono l’essenza, come intersezione tra tempo mitico e tempo storico. In tal senso, anche la scrittura del mitologo è de-mitologizzante. Spartakus è, dunque, il duplice movimento della scrittura e dell’idea, accomunate dall’essere “epifania” e “sovversione”, esperienze di sospensione del tempo normale e di evocazione di una realtà nuova e collettiva.

Proprio nei giorni in cui scriveva l’introduzione a Spartakus, Jesi consumava la rottura con Károly Kerényi, testimoniata ora dalla pubblicazione del carteggio inedito, giunto finalmente a completare il quadro dei saggi dedicati da Jesi allo studioso ungherese, in particolare i testi iniziali dell’einaudiano Materiali mitologici. Lo scambio epistolare copre un arco di quattro anni, dal 1964 al 1968: da un lato, il celebre mitologo, quasi settantenne, amico di Otto, Mann, Jung; dall’altro, un giovane erudito ventiduenne, che ha avuto come interlocutori Georges Dumézil, Claude Lévi-Strauss, Gershom Scholem.

Le lettere definiscono, innanzitutto, un vasto campo di sperimentazione della scienza del mito, che spazia da Apuleio a Mann, da Frobenius a Pavese. Ma il discorso si orienta spesso verso la dimensione politica e i suoi legami con l’essenza del mito: dalla riflessione su Buber, il sionismo e la tradizione religiosa ebraica, durante la Guerra dei sei giorni, al problema della “tecnicizzazione” del mito, ovvero del suo asservimento a scopi politici, con particolare riferimento al nazismo. La conferenza di Kerényi del 1964, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, rappresenta forse il nodo fondamentale dell’epistolario. Il testo accompagna non a caso la prima lettera di Kerényi, e su di esso si fonda la discussione sulla stesura iniziale di Germania segreta, in relazione al rapporto tra responsabilità del mito (Jesi) e colpa dell’uomo (Kerényi). Ed è ancora nel disaccordo sul concetto di “mito genuino” che si consuma la rottura, legata al saggio Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito. Jesi giudica qui Kerényi come “devoto della religione della morte”, poiché la possibilità di un’evocazione genuina del mito resta “mascheratura umanistica” di una presenza estranea alla vita, se i confini del tempo storico non vengono distrutti in quell’evocazione. E Kerényi, all’ombra della Primavera di Praga, etichetta il concetto di “mascheratura” come “italo-comunista”. È una frattura politico-ideologica, ma è anche una cesura che coinvolge il processo di trasmissione del sapere tra maestro e allievo: una crisi generazionale, “che si dispiegherà nelle vie e che si combatterà con le armi; una crisi in cui anche maestro e discepolo, e padre e figlio, si ritroveranno concretamente nemici, nell’una e nell’altra schiera”. Sono le parole conclusive dell’ultima lettera di Jesi a Kerényi, datata 16 maggio 1968.